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Tra le pieghe della storia

di Gianni Oliva

Quando il “Codice della catena” regolava la vita cittadina

Torino, Primavera 2023

Nel 1360 il Consiglio del Comune di Torino redige i codici statutari noti come “Codice della catena”: la denominazione, curiosa e assai poco giuridica, deriva dal fatto che una copia manoscritta (ancora oggi conservata negli archivi della città) viene esposta in municipio subito dopo l’approvazione, perché i torinesi possano consultarla, ma per preservarla dal furto è assicurata da una catena. Dal punto di vista storico-giuridico, gli Statuti sono un documento eccezionale che in 331 capitoli compendia le consuetudini che regolano la vita cittadina in ogni aspetto; dai rapporti tra autonomia comunale e potere dei Savoia (all’epoca il “Conte Verde” Amedeo VI), all’esercizio delle attività economiche, fino alla stessa vita privata dei cittadini. Politicamente essi sanciscono la condizione di Torino come comune ad autonomia limitata, fissando da un lato le competenze del Consiglio Comunale, dall’altro quelle dei funzionari nominati dal Conte, il Vicario e il Giudice. Il Principe conserva l’autorità esclusiva di emanare leggi, e Torino può predisporre regolamenti cittadini solo previa approvazione dei funzionari sabaudi. L’attività amministrativa è invece affidata alle autorità locali: in particolare quattro “clavari”, eletti a rotazione tra i membri del Consiglio, gestiscono le casse comunali e assolvono alle incombenze ordinarie (tra queste, la manutenzione della cinta muraria, del palazzo municipale e dei ponti sulla Dora e sul Po, l’organizzazione del servizio di guardia presso le porte, l’approvvigionamento di derrate alimentari e di legna).

Giuridicamente, gli Statuti precisano le procedure da seguire e le pene per ogni sorta di reati, dalle multe sino alla condanna a morte

Al Consiglio Comunale, composto da 80 membri scelti per cooptazione tra le famiglie nobili e quelle possidenti, spettano inoltre la fissazione delle scadenze annuali per la messe e la vendemmia, e la nomina del “doctor gramaticae” (maestro di scuola) e del “cirugico” (chirurgo o, in senso lato, medico). Giuridicamente, gli Statuti precisano le procedure da seguire e le pene per ogni sorta di reati, dalle multe sino alla condanna a morte. La vita familiare è regolamentata aderendo alle prescrizioni dell’antico diritto romano, che prevedono la subordinazione dei figli al padre finché questi è in vita e la suddivisione in parti eguali dell’eredità tra tutti i figli, a esclusione delle figlie sposate e già provviste di dote. All’urbanistica cittadina si riferiscono invece le norme che ordinano di tenere sgombra e pulita la piazza del mercato, quelle che proibiscono di coprire di paglia i portici della “strada pubblica” che corre da Porta Fibellona a Porta Segusina (l’attuale Via Garibaldi), quelle che vietano di gettare urina, acqua sporca “vel quid aliud orribile” dalle finestre: si stabilisce inoltre che la tintura dei tessuti debba avvenire solo in periferia, per preservare le risorse idriche urbane dagli scarichi. Prescrizioni suggerite da esigenze di sicurezza e ordine pubblico, infine, vietano di trattenersi a bere nelle taverne dopo il rintocco dell’ultima campana, di girare nottetempo per la città senza lume, di scavalcare le mura della città anziché passare per le porte, di pernottare oltre il Po (zona coltivata a vigneti) nel periodo in cui l’uva è matura.