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Food & drink. Storie di protagonisti

Ep. 3 - Simboli di tenacia e progettazione

di Tommaso Cenni

Inverno 2020

UN CAPITANO CORAGGIOSO, UN GENIALE INVENTORE, UN ESEMPIO DI IDEE CHE VINCONO E UN'ESPLOSIVA CHEF DECISAMENTE MADE IN SUD. QUATTRO PERSONAGGI SIMBOLO DI TENACIA E PROGETTAZIONE, QUATTRO PROSPETTIVE DI UN PRESENTE CHE È GIÀ FUTURO

Quattro personaggi simbolo di tenacia e progettazione, quattro prospettive di un presente che è già futuro. Lo diciamo dall’estate 2020: a rendere migliore una città sono soprattutto le idee e le persone che le trasformano in realtà. Scambiamo quattro chiacchiere su Torino con Federico Giovanelli titolare de Il Barotto, locale must di San Salvario, Enrico Murdocco patron e chef di Tellia, il fondatore di Mollica Piccoli Produttori Tommaso Seinera e Valentina Chiaramonte, la nuova chef del Ristorante Consorzio.

 

Federico Giovanelli

Titolare de Il Barotto, locale must di San Salvario, quello dei taglieri ‘valdo- piemontesi’ spropositati che invadono e affascinano Instagram. Combattivo e mai domo, recentemente ha deciso di affrontare la complessità del presente aprendo anche un gastro-temporary shop in via San Massimo, per portare avanti a oltranza le idee del Barotto. Sui media locali, e non solo, Federico è divenuto un po’ il volto della mediopiccola imprenditoria che non si arrende e rilancia progetti; che apre, e si apre al futuro, invece di chiudere. Un altro capitano, coraggioso e metropolitano.

Ripartiremo. Semplicemente perché non c’è alternativa. Dove e come farlo?

«Ripartiamo, e in parte lo abbiamo già fatto, anzitutto da noi stessi. Siamo stati i primi a registrare l’attività di ‘taglieria’, una roba che non esisteva, rendendo i taglieri de Il Barotto un prodotto unico e riconoscibilissimo. Per ripartire abbiamo iniziato da qui: ovvero dalla volontà di garantire a tutti la possibilità di usufruire dell’esperienza Barotto, a prescindere dal delivery. In via San Massimo era praticamente pronta la location per raddoppiare Il Barotto e abbiamo deciso di utilizzarla per creare questa bottega di montagna. In sostanza, si tratta di una gastronomia valdostana e piemontese, un temporary shop del Barotto. Perché chi investe e semina domani raccoglierà, e non solo a livello economico. Osare è fondamentale, e con il temporary ci stiamo rivolgendo a un territorio per noi nuovo: un quartiere diverso da San Salvario, che invece è un po’ un ‘condominio orizzontale’ di ristoratori. Una sorta di sistema in cui quasi tutti hanno capito che curare il proprio orticello non serve a nessuno, mentre collaborare e migliorare l’offerta rende tutti più forti. Un modello, anzitutto emotivo, che sarebbe bello trasportare in più zone della città».

Quanto è importante un esempio in un contesto parzialmente sfiduciato?

«Alla base di tutto c’è la volontà di non arrendersi mai, e la determinazione nel mostrarlo agli altri. Per farti un esempio, appena uscita in comunicazione l’iniziativa del temporary, il mio commercialista è stato immediatamente contattato da tre o quattro colleghi ristoratori che volevano capire come poter sviluppare un’attività del genere. Io credo che nel mio mestiere le soddisfazioni maggiori siano due: una, quando il cliente ti stringe la mano soddisfatto di ciò che gli hai offerto; l’altra, quando puoi essere un esempio per la categoria. Questa è l’unica vera forma di riconoscimento del successo, non i soldi. Il mondo enogastronomico è fatto di emozioni, il nostro compito è regalarle a chi ci sceglie, e dimostrare al settore che si può lavorare animati e sostenuti dalle emozioni. Hai parlato di ‘capitani’, dobbiamo essere per forza dei capitani, coraggiosi e determinati, perché c’è tutta una squadra, l’intera filiera, che vive sulle nostre decisioni. Se posso essere un esempio e un capitano devo esserlo, è una questione di responsabilità che non riguarda ovviamente solo me. Se il contesto alle volte si ritrova sfiduciato, probabilmente è perché lo sono in primis i capitani, e non devono esserlo. So che non è facile, lo vivo sulla mia pelle, ma se non ci si arrende si trova sempre una nuova opportunità, una nuova o vecchia idea da cui ripartire; e il nostro temporary shop ne è la dimostrazione».

 

Enrico Murdocco

Patron e chef di Tellia, punto di riferimento per la buona pizza (al taglio) di Torino. Dapprima ‘moda’, poi vera e propria autorità del settore, Enrico, passato pure per La Madernassa del due stelle Michelin Mammoliti a Guarene, ha rivoluzionato il concetto cittadino di pizza. Modellandola in una versione gourmet che si rende ‘disponibile’ ogni giorno, anche passeggiando, e che ha ottenuto proprio quest’anno una straordinaria certificazione: la Polpo creata da Enrico è stata premiata come pizza al taglio migliore d’Italia da Gambero Rosso. Un traguardo incredibile che non può che essere un trampolino per il futuro.

Ripartiremo. Semplicemente perché non c’è alternativa. Dove e come farlo?

«Sono d’accordo, ripartiremo e non c’è alternativa. Purtroppo, una delle poche certezze che ci portiamo dietro da un po’ di tempo è che non abbiamo certezze. Per questo non mi sento di fare previsioni troppo precise. So, però, che chi lavorava bene prima continuerà a farlo, con tutte le difficoltà del caso, ma sicuramente ripartirà. L’importante è conservare e mantenere, in certi casi anche rivitalizzare, passione e voglia, a prescindere dal lavoro. I flussi di denaro torneranno, chi sceglie e ha scelto il risparmio, però, indubbiamente farà più fatica, o addirittura cederà. Era fondamentale avere un’identità e delle idee prima, figuriamoci adesso. Adesso che ogni scelta è un desiderio e nessuno ha troppa voglia di perdere tempo. Chi si sarà attrezzato, avrà lavorato al meglio e avrà investito, immaginandosi il futuro e un’esperienza di livello per ogni cliente, sarà premiato. È anche giusto che sia così».

Le eccellenze torinesi, vecchie e nuove, non sono poche. Quanto possono essere trainanti per gli altri?

«Le eccellenze non sono importanti, sono fondamentali. Le grandi eccellenze portano interi bacini di utenza. All’Antico Vinaio di Firenze, un’istituzione globale, il primo ristorante al mondo per recensioni su TripAdvisor, è un’autentica calamita per turisti e clienti in generale, tanto da aver permesso l’apertura di decine di altri ristoranti nelle vicinanze che vivono su quel bacino di utenza. A Modena, ‘a causa’ di Bottura e del suo ristorante, negli anni hanno aperto sessanta B&B. A Torino sono stato il primo a portare questo tipo di prodotto, che è però frutto di una valutazione: ho analizzato il mercato, cosa mancava, e mi sono accorto che mancavo io, o meglio la mia pizza. Poi, lavorando sempre al massimo, arrivano le gratificazioni; e se hai fatto bene, solitamente c’è chi prova a imitarti, e io sono molto competitivo. Poi succede che un giorno ti svegli e il Gambero Rosso premia la tua pizza come migliore d’Italia. Un premio che onestamente non mi aspettavo, e questa è la dimostrazione che idee, competenza e passione conducono a un riconoscimento. Vale per i ‘piccoli’ ma anche per i territori e le città».

 

Tommaso Seinera

Fondatore di Mollica Piccoli Produttori, ovvero, per i torinesi, quelli partiti da piazza Madama Cristina che fanno i panini buoni ed esagerati. Una realtà giovane ma ormai radicata che, nel giro di non molti anni, è diventata un must cittadino. Il claim è chiaro, ‘Piccoli produttori, grandi panini’, e non potrebbe essere più evocativo dell’attività di Mollica: materie prime tutte di qualità e provenienti da produttori territoriali. Insomma, un bell’esempio di attività, quella di Tommaso e Ubaldo, da cui vorremmo essere circondati in futuro, specie per il mood e le idee da cui è animata.

Ripartiremo. Semplicemente perché non c’è alternativa. Dove e come farlo?

«Reduci dal primo lockdown, avevamo già deciso di implementare il delivery. All’epoca, per non chiudere, ci eravamo ritrovati in un mondo di consegne che ci lasciava un po’ spaesati. L’intuizione, però, era stata subito che quella poteva essere una soluzione, perlomeno una strada utile, e oggi siamo nettamente più preparati; e siamo in grado di lavorare a un buon ritmo, continuando a non affidarci a nessun distributore esterno. La cosa buffa è che, essendo stati primi su TripAdvisor in città per molto tempo, eravamo più conosciuti dai turisti che dai torinesi, ed è stato il primo lockdown a consegnarci definitivamente alla città. Questa situazione drammatica, volenti o nolenti, evidenzierà chi funziona e chi no, chi ha una struttura e chi non ce l’ha, lasciando spazio a player attrezzati che possono fare solo bene a Torino, e che sicuramente, nonostante le mille difficoltà, ripartiranno forte. Per questo la nostra idea è anche quella di sostenere un concept, il nostro, fatto di piccoli produttori, ambienti contenuti, alta qualità… che sia in primis vincente e poi riproducibile, anche fuori da Torino. Sono queste le realtà che contribuiscono alla crescita di una città».

Fare sistema: riesci a immaginare una ‘Torino e i suoi piccoli produttori’?

«In realtà no. Il concetto dei piccoli produttori è affascinante e garantisce la qualità dei prodotti, ma rispetto alla grande distribuzione la differenza la fa l’accessibilità. Non è una questione di prezzo. Ti faccio un esempio: io compro la toma d’alpeggio in un posto lontano, da un piccolo produttore, e la pago meno che alla Metro; ma per fare la spesa noi dobbiamo fare venti tappe, quasi una per prodotto. Infatti, da quando c’è Ubaldo tentiamo di seguire la strada dell’autonomia su certi prodotti, vedi il pane. Comunque, noi ci siamo costruiti il nostro piccolo mondo fatto di attese, pazienza e una buona dose di convinzioni personali, ma è evidente come non sia un sistema sostenibile per tutti. Fortunatamente siamo tutti diversi, con esigenze differenti, e credo che per molti l’accessibilità sia determinante. Il piccolo produttore è una bella moda per pochi, e questa è la nostra forza: noi siamo l’idea del sistema di piccoli produttori, lavoriamo per esserlo sempre al meglio, e alla gente piace ritrovare in noi questo pensiero, e questo prodotto. Il fascino di questo movimento sta anche nell’essere ‘limitato’, si tratta di una bella utopia che nel nostro piccolo teniamo costantemente accesa».

 

Valentina Chiaramonte

Viene dal sud, dal laboratorio gastronomico catanese di Fud Off, la nuova chef del Ristorante Consorzio, storico Tre Gamberi torinese nella guida Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso. Il Consorzio accoglie quindi, e per la prima volta, una chef donna, Valentina, svolta fresca e siciliana-palermitana per la cucina di Pietro Vergano e Andrea Gherra. Ricerca, tradizione e un po’ di sano rock’n roll nella linea recente del Consorzio, di cui Valentina si fa continuatrice. Esplosiva, entusiasta, preparata: vorremmo che le novità cittadine fossero tutte così.

 

Ripartiremo. Semplicemente perché non c’è alternativa. Dove e come farlo?

 «Per me è già stata una partenza, data la situazione, a singhiozzi. Non c’è stata grande continuità, a dirla tutta, e in un contesto come quello del Consorzio ci si deve armonizzare col tempo, lavorando duro giorno dopo giorno. Prima di poter dire qualcosa di personale in un posto come il Consorzio, deve passare del tempo. Stiamo parlando di un riferimento di ristorazione non solo torinese ma nazionale, un caposaldo del Gambero Rosso, con una clientela internazionale e un livello di cultura e competenza negli ospiti incredibile. Stiamo parlando di un posto con un’identità forte e consolidata, ed essendo anch’io una con un suo background identitario bello tosto, occorre tempo per incastrarci, e tirare fuori ognuno il meglio da sé e dall’altro. Dalla prima mini ripartenza estiva ho notato come la fame e la sete di Consorzio siano tali che, per ricominciare, serve poco. Una realtà conosciuta e riconosciuta, nelle sue dinamiche, come punto di riferimento non può essere stravolta. La gente ha bisogno di sapere che questo è sempre il Consorzio, un luogo di comfort in cui puoi trovare il brasato ad agosto, e in cui le due anime, tradizione e coccola d’innovazione, coabitano e si completano a vicenda. Il Consorzio ripartirà perseguendo la sua vocazione di riferimento enogastronomico all’interno di una società che in quest’anno si è riscoperta fragile e insicura. L’idea è che tornare qui sia come tornare a casa, e lo dice una siciliana in viaggio da dieci anni».

Torinese ‘adottata’, cos’hai pensato di Torino al primo sguardo? Cosa ne pensi oggi?

«La prima volta che ho visto Torino è stata quando avevo appena concluso l’università; mi è subito par

sa austera ma operaia, elegante e raffinata, un luogo in cui convivono più energie e quindi anime diverse. Sono tornata qui anche per questi motivi, e volevo tornare perché ero convinta che a Torino avrei imparato per davvero qualcosa di nuovo; poi, finire al Consorzio è stato un po’ come un sogno, diciamo, neanch’io ci speravo troppo. La fortuna di Torino è che esiste a prescindere dal resto, e cioè dalla comunicazione e dalla spettacolarizzazione dei posti; esiste per i torinesi e per chi la ama così com’è: intima e sostanziale. Milano, per esempio, sembra esistere in base a come si racconta: una città in cui la comunicazione di se stessi è necessaria per esistere. Torino può sembrarlo ma non è snob, è affezionata alla sua identità, e si basta un po’ da sola. Comunanza di emozioni, e ci siamo incontrati, io e il Consorzio, come sotto l’influenza di Cupido. Venire qui a Torino è un po’ come “sciacquare i panni in Arno” della mia cucina; voglio uscirne definitivamente cresciuta, e andrò via quando sentirò nuovamente bisogno del mio caos e questa quiete cittadina non mi basterà più. Nel frattempo, ho ancora tanto Etna da portare a Torino».

(Foto di CHRISTIAN BURRANO, ALESSIA MOLINO e MAURO CORINTI)