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L'UNIONE FA LA FORZA, È RISAPUTO, D'ALTRONDE LA STORIA È COLMA DI COPPIE DI SUCCESSO. COPPIE DI CENTRAVANTI CELEBRI, STAR HOLLYWOODIANE, PERFINO COPPIE DI SCRITTORI
Anche il mondo della ristorazione ha i propri alfieri del food in formato duo: coppie di idee e successo, dietro ai fornelli e a volte anche nella vita. Due amici on the road, due ex allieve e poi un ‘tour de monde’ che tocca Napoli, Parigi e raggiunge perfino il Perù. Curiosi, vero? Scopriamo il mondo di Daniele e Pasquale di Van Ver Burger, food-truck di hamburger 100% plant-based; Donatella e Lidia di Dollì – Cucina al centro, su un bordo di San Salvario; Carla e Gennaro di Uagliò, piccolo angolo di Napoli (e di mondo) qui in città e Miguel con Patricia di Vale un Perù, una delle realtà più interessanti dell’intero panorama food cittadino.
Due giovani chef, un film e un foodtruck. Gli ingredienti più o meno sono questi, ovvero Daniele e Pasquale, chef e amici, che vedendo un film, ‘La ricetta perfetta’, decidono di creare un loro food-truck. E che cosa sarebbe? Beh, è semplice: un furgone ristrutturato per essere una cucina ambulante di panini, nella fattispecie hamburger 100% plant-based. A partire da un film, un sogno matto, tanto impegno e un’innata attenzione alla sostenibilità, a novembre 2020 nasce Van Ver Burger. Green, instagrammabile, perennemente in giro. Sui profili social trovate in aggiornamento costante le tappe di Daniele e Pasquale, li riconoscete dal furgone blu.
La vostra idea di ristorazione è tutt’altro che ordinaria; che ruolo possono avere in una città idee ‘stra-ordinarie’ come la vostra?
P: «Facciamo i cuochi, io e Daniele, fin da ‘piccoli’, avevamo meno di vent’anni quando abbiamo iniziato. Io ho girato abbastanza l’Italia, spesso in ristoranti di hotel importanti; a Torino, ad esempio, per molti anni ho lavorato al Grand Hotel Sitea. Da dieci anni siamo vegani, io lo sono diventato a seguito di problemi di salute, poi risolti. Dopo sono subentrati il fattore etico, l’attenzione all’ambiente… e non ho più cambiato idea. Vivo a Torino da oltre vent’anni, per me è una città in continuo mutamento, e questo tipo di cucina può diventare una sorta di svolta in campo alimentare e non solo. Torino è considerata una delle città più vicine al concetto di food plant-based in Europa; quindi non esisteva posto migliore da cui iniziare il nostro progetto, per inserire un piccolo tassello nel cambiamento etico che immaginiamo».
D: «Torino ha sempre saputo trasformarsi nei momenti giusti. Io sono nato qui, ricordo i cambiamenti che mi raccontava mio padre e vedo ogni giorno qualcosa che muta. Da città industriale e operaia a incubatrice di start-up e nuove idee. Una di queste è proprio la nostra concezione del cibo plantbased e itinerante. Torino ha nel DNA la propensione al cambiamento, le idee stra-ordinarie servono proprio a mantenere vivo questo meccanismo evolutivo».
Probabilmente da soli non avreste percorso tutta questa strada. Quanto conta il team?
D: «In cucina non puoi stare da solo, questo è un grande insegnamento dei fornelli. In due si prova, ci si confronta, si colgono sfumature e prospettive che da soli probabilmente non noteremmo. Noi, poi, abbiamo un team eccezionale alle spalle: le nostre due splendide mogli che ci aiutano e un’amica, Giulia, che cura per noi ogni aspetto social. Senza saremmo decisamente più in difficoltà, spacciati credo. In cinque teste l’orizzonte è molto più ampio, da solo come si dice te la canti e te la suoni, e non hai mai nessuna forma di verifica sul tuo lavoro; che invece è fondamentale».
P: «Nel nostro caso specifico l’idea di Van Ver Burger è nata esclusivamente perché eravamo noi due. Lavoravamo all’Orto già Salsamentario e in pausa pranzo Daniele mi ha fatto assaggiare un suo hamburger di seitan. Quando l’ho provato gli ho detto che dovevamo inventarci qualcosa, avevamo una cosa forte in mano e non potevamo sprecarla. Quindi, dopo vent’anni di cucine chiuse, nelle retrovie, lontani dai clienti… abbiamo deciso che volevamo aria, dialogo e libertà. Ho sempre cucinato per le persone e non ci ho mai parlato, quante cose mi ero perso! Invece in questo modo giriamo, vediamo posti bellissimi di questa bellissima città e ci gustiamo la soddisfazione più grande: il riscontro dei clienti. Mi chiedi se avrei potuto montare tutto questo senza Daniele? Assolutamente no!».
Van Ver Burger – Itineranti, su strada
Donatella Montobbio e Lidia Romeo sono, se così si può dire, novizie nel campo della ristorazione. Entrambe con alle spalle una vita di lavoro non in cucina, accomunate da un corso firmato Gambero Rosso, da un percorso sulla via della sommellerie e da un’enorme passione per questo mondo. Si trovano, si incastrano e si completano. Donatella e Lidia giocano con le loro passioni e i loro nomi, e nel 2019 aprono Dollì, a Torino, in via Ormea 6/C, su un bordo di San Salvario. Nuovo, femminile, accogliente. Una bella idea di ristorazione che ci è piaciuta subito.
Mollare il resto per seguire un sogno non è un’esclusiva dei più piccoli. Quanto ha bisogno di sognare una città come Torino?
L: «In un momento come questo, ma anche più in generale, il sogno deve essere parte fondamentale del mood di una città. Sognare con i piedi piantati a terra è la base di ogni evoluzione, personale o cittadina. Il 2020 ha messo a dura prova la nostra capacità di sognare, ma non possiamo permetterci di non farlo. Le difficoltà portano a riscoprire valori un po’ dimenticati, spingono a inventare e reinventarsi; perfino le città vivono questi processi e, volente o nolente, anche Torino sta cambiando. La ristorazione torinese ha bisogno di sognarsi migliore e di trovare nella qualità a 360 gradi il leitmotiv del futuro».
D: «Mollare il resto è stato un passo importante e molto ponderato, anche data l’età. Di lì in poi passione e sogno sono andati a braccetto e ci hanno spinte in avanti giorno dopo giorno. In fondo sognare non ha età, e senza il filtro dei sogni non intuiamo certe prospettive. In questo anno, in cui il tempo pare paradossalmente rallentato pur essendo questa l’epoca della velocità compulsiva, dobbiamo avere la forza di fermarci e utilizzare questa strana finestra temporale per riflettere e organizzare il futuro. Credo che sogno e progettazione siano gli ingredienti per la ricetta del domani».
Probabilmente da sole non avreste percorso tutta questa strada. Quanto conta il team?
L: «Essere soci è un po’ come essere sposati. E così, come in un matrimonio, la coppia che funziona è fondamentale, come lo sono i confronti, che poi alle volte sono scontri… ma ne escono sempre consapevolezze rafforzate e rinnovate. Il confronto è serrato, quotidiano, un continuo scambio che nel tempo diventa un’incredibile e reciproca opportunità di crescita. L’importante è avere un team che viaggia nello stesso solco, seminando però poi ognuno le proprie idee. Anche perché, per quanto uno possa essere bravo e tosto, l’unione fa sempre la forza. La nostra idea è lavorare bene per stare bene, insieme, e devo dire che siamo fortunate ad averci l’un l’altra, oltre a tutto il team».
D: «Io e Lidia siamo molto diverse ma con tanti punti in comune. Dall’unione, a volte scontro, delle nostre due teste escono sempre cose interessanti. Mai più avrei pensato che avremmo fatto delivery e invece eccoci qui. Essere in due serve anche a questo, ovvero ad affrontare e progettare: Lidia sta rinnovando la carta dei vini e curando nuovi dettagli del locale, mentre io studio in cucina… insomma, credo che i progetti si possano anche creare da soli, ma personalmente non c’è paragone, non riesco proprio a immaginare Dollì e tutta la strada percorsa senza Lidia e il nostro team».
Carla e Gennaro sono giovani e bravi a fare la pizza. In realtà, Carla è francese e pur avendo ventiquattro anni ha già lavorato in cucine stellate della Francia; ma un po’ per amore e un po’ per talento, è incredibilmente abile con l’impasto della pizza. Infatti, arriva a Torino un paio di anni fa, incontra Gennaro, più grande, laureato, nasce un amore e nasce anche Uagliò Torino, in via Berthollet 20, una delle vie nuove del gusto. Il must è la pizza al portafoglio, proposta con condimenti tutti da scoprire. Sedetevi al bancone e godetevi la magia. Insomma, ringraziamo Carla e Gennaro per questo angolo fresco e giovane di Napoli, e di mondo, in città.
Torino, Napoli, Parigi… quanti frammenti di mondo ci sono in questa pizza?
G: «Quando pensavamo a Uagliò partivamo proprio da questi tre punti: Parigi, Napoli e il luogo in cui ci siamo incontrati, ovvero Torino. Per la verità siamo stati un anno a Milano, per poi tornare in questa città, che per noi è magica e fortemente attrattiva. Non potevamo aprire altrove. Quello che abbiamo cercato di fare è stato portare nel nostro progetto/locale la napoletanità bella, quella di cui Carla si era innamorata. Quindi il calore della mia famiglia, che la accoglie quando andiamo a trovarla giù, l’allegria partenopea e, naturalmente, la pizza. In questa pizza Carla (perché è lei la maga) mette sapientemente le esperienze di ogni luogo; compresa quella positività tipicamente partenopea che ci ha sempre accompagnato».
C: «Ha detto quasi tutto Genny, non vale! Aggiungerei che Uagliò vuole essere Parigi, Napoli, Torino e pure qualcosa in più. Questo perché l’unione fa la forza e poi perché oltre a loro ci siamo noi: c’è l’amore per Napoli, la pizza, i valori partenopei, la mia esperienza presso chef stellati, tutti gli studi che stanno dietro a impasto e abbinamenti. In fondo è una pizza fatta come siamo fatti noi, nata senza preconcetti, un incontro che riesce bene fin da subito. Un incontro fatto anche di opposti e parecchie differenze, ma alla fine ci siamo concentrati tanto sul risultato finale e siamo contenti del nostro lavoro».
Probabilmente da soli non avreste percorso tutta questa strada. Quanto conta il team?
C: «Te lo dico chiaro e tondo: non avrei mai percorso da sola questa strada! Mi ero stancata un po’ del mio lavoro, volevo restare in cucina ma con motivazioni diverse. Volevo una cosa più mia, in cui cucinare non solo per le ‘élite’ ma un po’ per tutti; stare vicino ai clienti, un contatto più diretto e una proposta più democratica. Uno chef mi diceva sempre: “Puoi fare del cattivo con del buono, ma non puoi fare del buono con del cattivo”, e questa era la mia idea di base. Perciò mi sono rimessa a studiare e progettare, ma devo dirti che ero molto spaesata. Quando ho conosciuto Genny, dopo tanti confronti è nato il pensiero di Uagliò. Grazie a lui ho ritrovato certezze nel mare di dubbi in cui nuotavo».
G: «Di idee negli anni ne ho coltivate tante e non ne ho mai portata avanti per davvero nessuna. Crescendo, poi, ho perso un po’ di quella intraprendenza che hai quando sei più giovane, pensavo ai miei trent’anni troppo vicini e non sapevo bene cosa fare. Ecco perché il team è fondamentale, Carla mi ha dato la spinta di cui avevo bisogno, la risposta che credevo di non possedere. Il nostro rapporto è assolutamente complementare, lei è il fenomeno degli impasti, io sono più analitico e progettuale; lei fa emergere tutto il bello di Napoli, della cucina e soprattutto di me, il mio entusiasmo e la mia praticità. Per questo probabilmente senza uno dei due Uagliò non esisterebbe, perché ognuno, con le proprie caratteristiche, ha sempre sostenuto e completato l’altro».
Miguel Bustinza e Patricia Trujillo, lui di Lima, lei di Pozuzo, entrambi peruviani ma innamorati dell’Italia e di Torino. Giunti qui vent’anni fa, lui chef, lei bartender e pasticciera, nel 2012 hanno coronato il sogno di aprire un ristorante di cucina peruviana a Torino. Nasce quindi, in via San Paolo 52/B, Vale un Perù e, successivamente, arriva anche Nativo. Nel 2016 ricevono la Marca Perù, riconoscimento dedicato a chi si è dimostrato capace di esportare in modo efficace cultura e cucina del Perù all’estero. Sicuramente una delle realtà più interessanti dell’intero panorama food cittadino. Per noi, la cucina peruviana a Torino sono loro.
Torino in ambito gastronomico è un laboratorio creativo con sfumature da tutto il mondo, dove può o deve migliorare?
M: «Siamo arrivati vent’anni fa, quindi ne abbiamo viste tante. Non abbiamo deciso di aprire un ristorante, ma una strada per condurre il Perù in Italia. All’inizio, infatti, quello che da fuori poteva sembrare un ristorante vi assicuro che era più che altro un punto informazioni; e lo sforzo di Patricia a quel tempo era raccontare la nostra cultura. In vent’anni, poi, le cose sono cambiate tantissimo, vedere una cucina del mondo che cresce in città un tempo non era immaginabile. Il viaggio è evoluzione, chi viaggia impara e cresce, quindi è fondamentale viaggiare mentalmente e fisicamente; anche una città per crescere deve viaggiare, grazie alle proprie realtà. Torino lo ha capito, ha dato grande spazio alla cucina del mondo in un Paese, l’Italia, che ha una cultura gastronomica incredibile».
P: «L’integrazione per noi è fondamentale, la ritroviamo in tutto, nella lingua come nella cucina. Il sogno è di vedere un giorno i torinesi che vanno a cena al ristorante peruviano come escono a mangiare sushi. Il sogno è vederli attorno a un tavolo a parlare delle nostre materie prime, del ceviche e del platano. Per questo il nostro lavoro non è tanto servire quanto aprire la mente di chi ha voglia di farsi raccontare il Perù. Credo che Torino, per crescere, abbia bisogno di integrazione; credo che necessiti di tanti laboratori, un po’ come lo siamo noi, di culture, cibo e conoscenze diverse».
Probabilmente da soli non avreste percorso tutta questa strada. Quanto conta il team?
P: «Per noi è stato essenziale essere in due semplicemente perché ognuno si è dedicato a qualcosa di diverso, per natura e indole. Abbiamo due prospettive differenti nei confronti dei clienti, dalla cucina e dalla sala, e, specie all’inizio, il confronto tra di noi e con gli ospiti era veramente necessario. Io e Miguel siamo peruviani, apparteniamo a una cultura con caratteristiche specifiche, ma nel tempo abbiamo imparato, conosciuto e quindi siamo cambiati in base alle esperienze accumulate qui a Torino, ovviamente insieme».
M: «Da soli non avremmo mai fatto quello che abbiamo fatto. Tutto è nato da un desiderio, una pulsione che veniva in entrambi dal cuore: esportare la cultura, anche gastronomica, del nostro Paese. Questo desiderio veniva prima della chimica che naturalmente ci lega e prima degli obiettivi che ci eravamo posti in partenza. Funziona come fossimo testa e colonna vertebrale ormai, è un’alchimia che è anche totale ripartizione, pratica e di idee. Quindi ti dico, forse da soli saremmo arrivati da qualche parte, ma sicuramente non qui».