Home > People > Editoriali > #iosonotorino > 1988 – 2018, trent’anni di Torino. Il punto di vista
Abbiamo chiesto ad alcuni protagonisti della vita cittadina di questi anni, la loro opinione sul passato, sul presente, sul futuro di Torino. Un’occasione per fermarsi a riflettere su ciò che è stato e ciò che potrà essere.
La testimonianza di Ernesto Olivero, fondatore dell’Arsenale della Pace Sermig (Servizio Missionario Giovani).
Come ha visto cambiare Torino negli ultimi 30 anni?
Posso dire di averla vista crescere, mentre cresceva anche la nostra esperienza. Oggi Torino è una città molto diversa, più bella per certi aspetti. Penso soprattutto alla riqualificazione di alcune zone, alla ricomposizione di alcune ferite. Eppure, per chi come noi vive sulla frontiera, Torino è una città che soffre ancora molto. Cambiano i contesti, le situazioni, le emergenze, ma alla nostra porta continuano a bussare volti, storie, lacrime. Penso alla città che tanti anni fa è riuscita ad accogliere prima i meridionali, poi i nordafricani con la fatica che tutti ricordiamo. Oggi vedo la stessa fatica in altre forme. C’è il tema dell’accoglienza di nuovi popoli, certamente, ma anche l’incapacità di affrontare povertà che qualcuno definisce nuove, ma che in realtà hanno lo stesso sapore di sempre. Chi ha perso il lavoro, chi dorme in strada, la realtà di tanti giovani che non riescono a trovare il senso della vita… Anche questa è la Torino di oggi. E io mi sento interpellato nel profondo.
La Torino del futuro sarà più solidale? Più accogliente? Saprà offrire lavoro e dignità? Sarà capace di ripensare se stessa? Lo spero e nel mio cuore già la vedo.
Come la immagina nel futuro?
Sono uno che non smette mai di sognare e ho sempre testa e cuore in movimento, ma non sono un visionario e ho i piedi ben piantati per terra. Con questa mentalità da tempo, ho imparato ad amare e vivere l’attimo presente, perché sono convinto che il domani avrà il volto delle scelte che facciamo oggi. L’oggi è nelle nostre mani. La Torino del futuro sarà più solidale? Più accogliente? Saprà offrire lavoro e dignità? Sarà capace di ripensare se stessa? Lo spero e nel mio cuore già la vedo. Ma tutto dipende da quello che cominciamo a costruire ora. Il mio desiderio è che Torino diventi soprattutto una città in grado di mettere i giovani al primo posto.
Un aneddoto degli ultimi 30 anni…
L’alluvione del 2000, quando la Dora tracimò e invase completamente Borgo Dora e l’Arsenale. Ricordo ancora l’apprensione di quei momenti, la paura, l’acqua che saliva e poi il fango ovunque. Ma l’emozione del ricordo è legata al giorno dopo, quando hanno iniziato ad arrivare decine, centinaia di giovani torinesi e non solo, per aiutarci. Mi commuove ancora l’immagine di tutti questi che quel giorno e per mesi sono venuti ogni giorno ad aiutare noi, la gente del quartiere a spalare il fango dalle case, dalle cantine. Iniziarono ad arrivare appena l’acqua lasciò il posto al fango e prima che potessimo chiedere aiuto. Nell’arco di poche ore, avevamo braccia, pale, cuori pronti a mettersi in gioco e fu così per mesi. Alla fine dell’emergenza ne contammo migliaia. Lì capii qualcosa che da allora mi porto dentro e cerco di vivere: prima gli altri e poi noi. Ricordo che insieme ai ragazzi scegliemmo di aiutare prima di tutto gli artigiani, i commercianti, la gente del quartiere di Borgo Dora e dei quartieri lungo il corso del fiume. Solo dopo pensammo all’Arsenale. Quel gesto parlò più di tante parole. Se l’Arsenale della Pace oggi è amato da tanti, credo che il merito sia anche di quei ragazzi che in quei giorni difficili si donarono completamente.
Li ringraziamo tutti, da chi ha premuto più sui tasti del cuore e dell’emozione a chi ha messo l’accento sulle vicende storiche e sui progetti.