Home > People > Interviste > Giuseppe Russo Come cambia l’economia del nostro territorio?
L'ECONOMIA REALE È CAMBIATA, A LIVELLO NAZIONALE E NEI SINGOLI TERRITORI, A SEGUITO DEGLI EVENTI STRAORDINARI DEGLI ULTIMI ANNI. PER AVERE UN FOCUS AGGIORNATO SULLA SITUAZIONE ECONOMICA, SIAMO ANDATI A TROVARE GIUSEPPE RUSSO, DIRETTORE DEL CENTRO EINAUDI, ECONOMISTA, SCRITTORE, SAGGISTA
Recentemente abbiamo vissuto esperienze impreviste e inimmaginabili come il covid, la guerra, la grande crisi energetica. Parte di queste le stiamo ancora vivendo, che cosa si sarebbe potuto fare e cosa sarebbe importante fare adesso?
«Bisogna dire che relativamente alla frequenza delle crisi, noi abbiamo vissuto, dall’inizio dell’era euro al 2009, un periodo di eccezionale tranquillità. Quindi, riportando i piedi per terra, il fatto che ci siano impedimenti è normale. Dal 1995 fino al 2009 sono stati vent’anni di prosperità: bassa crescita ma anche bassissima inflazione; anni favorevoli durante i quali molti paesi stranieri hanno investito in settori e competenze innovative, ponendo le premesse per una crescita più ampia. Altri paesi, come l’Italia, ahimè, si sono un po’ seduti. Le ultime quattro crisi iniziano dal 2009 con Lehman Brothers: quella del 2011 è sostanzialmente quella del debito sovrano italiano, poi, successivamente, ci sono state due altre crisi, quella del covid e quella della guerra in Ucraina. Di tutte queste, due si possono considerare esogene, cioè eventi straordinari non collegati alla nostra storia, le altre sono invece crisi endogene. La prima un eccesso di credito e fiducia verso il sistema bancario creditizio e finanziario; un eccesso pagato sia dal sistema finanziario, ma anche in termini di minore crescita, con una conseguente distruzione della ricchezza e annessa decrescita. La seconda crisi ha generato la necessità di un’austerità fiscale per rimettere in sicurezza i conti pubblici. Il punto è che mentre alcuni paesi hanno approfittato del periodo per investire (per esempio sull’indipendenza energetica), noi non lo abbiamo fatto. Abbiamo cercato di prolungare quel periodo di prosperità senza modificare la direzione dei nostri investimenti. Dalle crisi però, sono emersi dei cambiamenti di comportamento, ad esempio nella cultura del risparmio, specie per le famiglie. Il risparmio ha consentito al sistema finanziario e all’economia reale di affrontare meglio le crisi. Qualcosa è stato seminato: c’è stato un recupero di produttività e c’è stata un po’ d’innovazione (che mancava), oltre a un maggiore investimento sulle competenze. Non sono pessimista, penso semplicemente che quello che il sistema economico avrebbe dovuto apportare dal ‘95 al 2005 sia stato messo in cantiere dopo, e questo ha comportato tassi di crescita più modesti della media europea. Questa “ristrutturazione” è però stata in parte portata avanti nei bilanci delle famiglie e delle imprese; ce lo dimostra il fatto che a seguito di questa ultima crisi (covid e guerra), abbiamo avuto una capacità di ripresa superiore a quella dei nostri partner».
Questa capacità di ripresa, da cosa può dipendere?
«Il nostro territorio secondo me ha due caratteristiche importanti: la prima è un’enorme focalizzazione sull’industria manifatturiera, la seconda è la grande mole di ricerca e sviluppo privato; una combinazione che innova il nostro sistema economico. L’ottimismo deriva dal fatto che si sta vedendo una ripresa. Le maggiori aspettative di tipo strutturale, le esportazioni che crescono più che negli altri paesi, il grande sviluppo… Tutto questo ci fa guardare ai prossimi cinque anni con ottimismo».
Qualcosa è stato seminato: c'è stato un recupero di produttività e c'è stata un po’ d'innovazione (che mancava), oltre a un maggiore investimento sulle competenzeQuindi mi sta confermando che la ripartenza è proprio legata allo sviluppo delle PMI del territorio!
«Le dico di più, che mentre la crisi dell’economia industriale ha molti elementi che sono legati all’industria tipica, la ripartenza vera parte dal basso, perché non sono i “soliti” settori ad alimentare la crescita, ma sono molto spesso settori “nuovi”. Settori che hanno prospettive completamente diverse: per vedere la ripartenza non serve il sorvolo dai 10.000 metri, devi scendere nel “micro”, osservare i comportamenti delle piccole e medie realtà».
Pensando quindi al nostro territorio, quali sono i fattori fondamentali della Torino del futuro? È sostenibile, innovativa, universitaria, multiculturale?
«Questi quattro sicuro. La sostenibilità è una condizione essenziale di competitività, e chi decide il destino dell’impresa è sempre il mercato. Quindi bisogna vedere che cosa è richiesto dai consumatori (che oggi chiedono prodotti sostenibili); la sostenibilità deve essere incorporata nei processi perché diventa un elemento di concorrenza. Negli ultimi 15 anni si è verificata un’accelerazione dei cicli tecnologici. Le rivoluzioni industriali una volta avevano cicli lunghi oltre quarant’anni, quelli di oggi ne durano 10; così si accorcia anche la vita prospettica delle imprese. Quindi ci vogliono imprese che se sono piccole crescono in fretta e se sono grandi cambiano in fretta. È finita l’era dei “temporeggiamenti”, bisogna evolversi nella direzione giusta e nei tempi corretti. Per questo oggi le competenze non possono essere limitate agli “specialisti” ma diffuse; perché le occasioni non tornano e occorre essere pronti».
Questo quindi possiamo legarlo anche a una Torino universitaria?
«Certamente, e non dovremmo limitarci a un’università per Torino: il sapere è di per sé un’attività anche economica, e l’ambizione dovrebbe essere non soltanto di porci come accademia di servizio al territorio, ma come polo di conoscenza che interagisce con tutto il mondo».
Ci agganciamo al discorso della multiculturalità della nostra città: negli ultimi periodi si parla molto di Terzo Settore, possiamo definire Torino città multiculturale?
«Credo che in passato lo sia già stata. Torino è una delle città del nord che ha subito più flussi di immigrati. Qui c’è sempre stata apertura all’immigrazione e, nella misura in cui questa continui, non può che fare bene. Normalmente chi viene da altri territori porta differenze che alla fine generano valore. Quando qualcuno mi dice che l’immigrazione è un problema, io ricordo sempre che il paese che ha avuto più immigrati della terra è anche il paese con i tassi di crescita e di sviluppo più alti del mondo. Molti migranti cercano un posto di lavoro o sono qui per creare impresa. Dovremmo essere estremamente favorevoli alla migrazione, a maggior ragione perché se guardi la piramide della vita di piemontesi e torinesi, scopri che siamo anziani. Molti giovani ci hanno lasciato per andare all’estero e una società così rischia di avvizzire. Certo, i robot faranno la loro parte, l’innovazione ci aiuterà in moltissime operazioni complicate che non vogliamo più fare, ma la creatività umana non si risolve con la tecnologia, e non possiamo farne a meno».
Il mondo accademico rispetto al mondo reale è a sé stante, oppure è importante che colloqui con le imprese cittadine, che ci sia un dialogo costante tra le parti a vantaggio della città?
«Probabilmente l’apertura c’è già stata perché gli atenei hanno da tempo incarnato la terza missione, che è quella di sostenere il territorio nei suoi processi di innovazione e cambiamento. Non siamo ancora al livello di altre realtà europee, e questo è dovuto a tutti gli attori: questi due mondi sono sempre stati “autonomi” e nel momento in cui cercano delle modalità di collaborazione, hanno bisogno di meccanismi operativi e sistemi organizzativi che permettano le collaborazioni stesse. Esempio positivo: la gestione degli spazi; ibridazioni, laboratori condivisi, incubatori di startup… È un processo che è iniziato con buone aperture e sta andando in una direzione bellissima».
Parliamo del centro Einaudi, quali sono le attività che svolge, anche sulla base delle riflessioni che abbiamo appena fatto?
«Il Centro Einaudi è da sempre attento ai cambiamenti, anzi possiamo dire che la nostra attività è proprio lo studio dei cambiamenti. Ogni anno produciamo un rapporto sull’economia globale, che stiamo preparando, e che fino all’anno scorso si chiamava “Rapporto sull’economia globale e l’Italia”, mentre oggi si chiama “Rapporto sull’economia postglobale”. Insomma, siamo passati dal globale al post-globale. L’altro grande lavoro è il rapporto Rota su Torino e le sue dinamiche di cambiamento, uno studio molto considerato dal mondo economico. Il rapporto Rota, aggiornato al 2023, è in produzione e tornerà con una nuova indagine. Questo documento ha sempre fatto da regia sui cambiamenti in corso e non sulle previsioni; è un’analisi delle tendenze e un misuratore dell’evoluzione della città».
Ultima domanda: il suo tempo libero, come lo trascorre? Hobby, passioni…?
«Il tempo libero lo dedico spesso all’escursionismo in montagna; e leggo molto, specie narrativa e storia. Sono un grandissimo appassionato di storia!».
(foto MARCO CARULLI)