Torino, primavera 2018
«Una delle malattie più diffuse è la diagnosi », scriveva Karl Kraus nel 1912 per l’inadeguatezza della dottrina medica viennese. È una malattia di cui rischia di ammalarsi il dottore, che poi contagia il paziente. C’è una grande responsabilità in quelle parole, più di quanto non si pensi o non si abbia voglia di assumere. Dopo una diagnosi non sei più lo stesso, forse mai più. Da quel momento internet è il tuo consigliere scientifico e tu rischi di cambiare nome, quello che hai sempre avuto, quello con cui tutti ti hanno sempre chiamato, diventa secondo a un nuovo nome. Prima di sentirti parte di una nuova comunità con quelli che hanno la stessa diagnosi, lo ripeti nella mente, ne assumi l‘identità. Bachelard diceva che ognuno è il nome che porta con sé, aggiungerei che nessuno guarirà mai pensando di essere quel nome, piuttosto che il se stesso di sempre. Il dottore che alla diagnosi si riferisce rischia da quel momento in poi di incontrare una patologia piuttosto che una persona, con la sua storia, la sua sensibilità e le paure al riguardo. Una cultura che rischia di prendere il sopravvento e perdere la misura.
L’atto medico non può essere rivolto alla malattia senza porre al primo posto la cura della persona, perché così facendo la malattia prende altra forma. A questa, inoltre, il paziente non deve aggiungere l’aggettivo personale che ne determina il possesso, il pronome mio è da escludere per evitare che la malattia diventi parte di te e in quanto tale inconsapevolmente accolta. La terapia deve invece essere associata al pronome personale mio, per dare forza alla propria azione e prevedere la malattia come una condizione transitoria a cui dover semplicemente dedicare un tempo necessario. Per l’uomo sano la malattia è solo una disgrazia, una parentesi, un incidente; per l’avvocato è l’occasione per una causa di risarcimento; per il filosofo è una riflessione sulla caducità delle cose umane; per il sacerdote è un invito a rivolgersi alla misericordia divina.
La diagnosi, sempre, aggrava lo stress, stabilisce un'incapacità, impone inattività, concentra i pensieri del soggetto sulla non guarigione, sull'incertezza e sulla sua dipendenza da futuri ritrovati medici
La diagnosi, sempre, aggrava lo stress, stabilisce un’incapacità, impone inattività, concentra i pensieri del soggetto sulla non guarigione, sull’incertezza e sulla sua dipendenza da futuri ritrovati medici. Cose che equivalgono a una perdita di autonomia nella determinazione di sé, isolano la persona in un ruolo speciale, la separano dai normali e dai sani ed esigono sottomissione all’autorità di un personale specializzato. La diagnosi è selezione tra ciò che il taumaturgo conosce e ciò di cui è più innamorato, a volte ciò che più gli conviene. La diagnosi è sentenza che orienta e scandisce il tempo, condiziona non solo la strada ma anche il passo, a volte uccide la vita senza averne la necessità. A volte, quando è preventiva e corretta, salva la vita, e non c’è terapia corretta senza diagnosi corretta. Ma quale diagnosi? «Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume i caratteri di un’epidemia», scriveva Ivan Illich in ‘Nemesi medica’.
Nel 1976 Henry Gadsen, allora direttore della casa farmaceutica Merck, dichiarò alla rivista Fortune che il loro sogno era che ogni abitante della Terra usasse una pillola ogni giorno. Dopo trent’anni, così è andata e, a fronte di chi non ne prende nessuna, ci sono altri che ne prendono molte. Per realizzare quel sogno, che non era solo il loro, i parametri diagnostici per certificare le normalità sono diventati più restrittivi e questo ha consentito alla diagnosi di richiedere l’uso di un farmaco correttivo per un numero decisamente più alto di persone accreditate al ruolo di pazienti. Ma da qui parte un’altra storia.