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Davide Scabin

Il ritorno del marziano

di Guido Barosio

Inverno 2022

IL PIÙ SORPRENDENTE E TALENTUOSO TRA GLI CHEF TORINESI APPRODA AL RISTORANTE CARIGNANO DELL’HOTEL SITEA. È L’OCCASIONE PER PARLARE DEL SUO NUOVO MENU, DELLE EVOLUZIONI NEL FINE DINING, DI UNA TORINO ELEGANTE CHE DEVE "COSTRUIRE UNO STILE DI VENDITA PER LE PROPRIE ECCELLENZE”

Piatti Scabin

In principio fu Almese, con quella trattoria (il leggendario Combal) che sbucava in curva sullo stradone. La Michelin si arrampicò per assegnare una prima stella “impossibile”, ma mai così meritata. Perché Davide era un mago, un alchimista, un druido; capace di creazioni ai confini dell’immaginabile. Nel dicembre del 1999, era la mia prima direzione di Torino Magazine, lo intervistai col titolo Il marziano di Almese, fu l’inizio di un percorso fatto di amicizia, di cene memorabili, di interminabili chiacchierate notturne. Alla prima stella ne seguì una seconda, il piazzamento nei “50 Best” e, soprattutto, il trasloco al Castello di Rivoli, per la grande avventura del Combal.Zero, avamposto di cultura edibile prima ancora che di forchetta. Poi le vicende, come la vita, mescolano le carte, e oggi ritrovo Davide al Grand Hotel Sitea, ristorante Carignano, nel cuore di Torino, per un progetto che i gourmet torinesi (e non solo) attendono come l’epifania del maestro che ha sempre saputo sorprenderci. Raffinato e popolare come un musical di Londra, barocco e classico come un ristorante anni ’60, eccessivo calcolando sempre l’atterraggio, anarchico e provocatore, rassicurante perché dei geni puoi fidarti, divisivo per definizione, perché le cose belle (e buone) non saranno mai per tutti. Da lui non ci si aspetta solo un menu impeccabile (quello lo possono fare in tanti), ma una lettura audace del presente con vista sul futuro. Così, prima dell’intervista, sedetevi a tavola con me, che vi svelo il nuovo palinsesto. Si chiama RAL 6001 CLASSIC, ed è un percorso da tredici portate, caratterizzato da un ordine di servizio non convenzionale che segue la logica “up & down”: «L’acronimo RAL indica un sistema europeo di classificazione dei colori nato nel secolo scorso. In cucina usiamo la mazzetta dei colori per assicurarci di mantenere lo standard rispetto al risultato visivo che vogliamo ottenere – spiega Davide – L’up & down prevede che i piatti più strutturati e impegnativi, nei loro caratteri organolettici, siano serviti immediatamente, per intercettare la naturale predisposizione del nostro organismo (fase up) ad accoglierli. Si prosegue con un percorso tutto in discesa (fase down), grazie a pietanze man mano più fresche e con acidità maggiore. Per sintetizzare in breve: io comincio dove gli altri finiscono». Al Carignano Davide decide e voi mangiate, sceglie lui e va bene cosi, credetemi. Niente pranzo, solo cena, cinque giorni su sette. Una semplicità di proposta nata per ottimizzare il lavoro offrendo il massimo del risultato. Aggiungo io che a Torino non si è mai visto nulla di simile, il marziano è sceso dall’astronave tenendo tutti a debita distanza. Dalle tredici portate estraggo il mio podio: colombaccio 3style (crudo tiepido, glassato, stufato), un piemontese a Tokyo (plin di cervo in consommé di seppia), storione White & Black RAL 6001. Aggiungo che Davide divide i meriti in cucina con Francesco Polimeni e Kevin Gardini; mentre l’american bar, curato da Beppe Loi, assume un ruolo non certo solo simbolico nella regia delle serate.

Francesco Polimeni, Davide Scabin e Kevin Gardini

Francesco Polimeni, Davide Scabin e Kevin Gardini

Ma quando un tuo piatto passa dallo chef al commensale cosa avviene?

«Il gusto deve dare anzitutto piacere. Se dà anche emozione, il cuoco ha raggiunto il proprio obiettivo. Ma l’emozione è legata all’esperienza personale, della quale il gusto è solo uno degli elementi che contribuiscono ad aprire la strada del ricordo. Un piatto comincia davvero a vivere nel momento in cui si stacca dal pass della cucina e arriva in sala. Lì non è più “dello chef”, ma di ciascun commensale, con il quale si instaura una conversazione personale rispetto a un sistema di segni e codici. Ogni piatto diventa una cassetta degli attrezzi dalla quale ciascuno può prendere quello più adatto per completare la propria personale opera».

Nella fine dining quali sono gli stili dominanti?

«Oggi vince la cucina “senza spigoli” e tutti cercano “qualcosa che va bene così”, senza azzardare, senza rischiare. Io appartengo a una generazione precedente, dove gli chef erano soggetti in continuo movimento, dove l’innovazione faceva parte del nostro progetto. Mentre oggi funziona la cucina della “non ricerca” e del bilanciamento, più rassicurante, forse meglio connessa col mercato».

E l’Italia?

«Noi abbiamo lo share migliore. Il nostro modo di cucinare, le nostre ricette, il nostro stile, sono universalmente apprezzati. Ma, per paradosso, dobbiamo fare attenzione ai processi imitativi. All’estero ci studiano e poi ci copiano. Il rischio sarà quello di importare “modelli italiani” creati e gestiti da stranieri. Valutando il panorama delle nostre città vedo molto bene Roma, oggi la piazza più interessante, mentre quella milanese si è arenata, certe esperienze brillanti non hanno figliato».

E invece come si muove la cucina pop?

«Con vivacità. Mi piace cosa avviene nelle trattorie, è un segmento in crescita, con locali nuovi e interessanti. Ma dove riscontro il maggiore dinamismo è nelle pizzerie. Negli ultimi vent’anni il settore è cresciuto nel prodotto, che ha raggiunto livelli di eccellenza, ma anche nell’allestimento dei locali, più belli e innovativi. In parallelo la ristorazione sembra quasi immobile, progredisce per millimetri in decenni».

Per il futuro vorrei che Torino puntasse su questa sua eleganza, che ne facesse un segno distintivo, un logo, un brand

Come giudichi l’approccio sostenibile e responsabile che è entrato nel vostro settore?

«Era inevitabile e auspicabile. Per me queste tematiche sono sempre state strategiche, anche quando non erano di moda. Oggi la scelta di un menu fisso va in questa direzione, perché non si acquista, né si prepara e si stocca, più del necessario. Poiché la mia cucina prevede la presenza di ingredienti di origine vegetale e animale, nessuno escluso, sto scegliendo fornitori le cui pratiche produttive siano caratterizzate da qualità e trasparenza economica, sociale e ambientale».

Sei arrivato da poche settimane, quali sono stati i primi cambiamenti che hai apportato al Carignano?

«Innanzitutto ho fatto chiudere la porta che collegava il ristorante all’esterno. Abbiamo un ingresso e una hall di grande bellezza e comfort, mi piace pensare che siano un’estensione della mia attività. È un modo per far vivere tutti gli spazi, come nei grandi ristoranti degli hotel internazionali. In questa scelta ne esce valorizzato il nostro splendido american bar, che entra a far parte del percorso menu in modo naturale, quasi fiabesco. Poi ho strutturato la mia squadra, dove siamo in undici come nel calcio. I sous chef sono Francesco Polimeni e Kevin Gardini, il pastry chef Matteo Dinoia: hanno grande talento e sono il punto di forza del mio team».

Come giudichi Torino e cosa le auguri?

«Torino ha delle forti radici culturali. Ma è anche affascinante perché nel suo tessuto convivono molti lati differenti, molti aspetti, molti elementi di ricchezza. In assoluto mi piace definirla una città elegante, perché lo è da sempre. Una questione di elezione naturale. Ecco, per il futuro vorrei che Torino puntasse su questa sua eleganza, che ne facesse un segno distintivo, un logo, un brand. Cosa le manca? Serve costruire uno stile di vendita per le proprie eccellenze. Al momento assente».

Davide Scabin chef

La stella del Carignano è in buone mani, il 2023 nasce sotto ottimi auspici, col marziano sul ponte di comando nessun traguardo è precluso.

 

(foto GIULIA SERAFINI e RISTORANTE CARIGNANO)