Ciao Francesco, com’è andato questo Salone?
«Sul piano generale parlano i numeri, le dichiarazioni dei partecipanti e della direttrice: è stato un bel successo sicuramente. Sul piano personale mi trovo a confermare ciò che dicono i numeri, ovvero che il Salone è una bellissima fiera culturale, in cui la gente compra borse di libri, e per uno come me che ama i libri, la cultura e il confronto, non può che essere una festa e un onore partecipare a tutto questo».
Una tua opinione su Torino dopo questa esperienza?
«Premetto: il Salone ha la capacità di assorbirti al suo interno e di isolarti dal resto, quindi non ho girato molto. È capitato prevalentemente la sera, e ciò che ho visto è stata una città sempre più a misura del suo Salone, e quindi bella e funzionante; anche nei momenti più “congestionati” non ho mai avuto impedimenti».
Se fosse una città americana, Torino quale sarebbe?
«Il paragone mi sorge spontaneo: Detroit, nel Michigan. Perché è stata la città dell’auto, come Torino, e perché dopo la grande crisi del settore automotive si è dovuta conquistare una nuova identità. Ora Detroit è una città in netta ripresa, non so se per Torino ha senso parlare di “ripresa”, in ogni caso vedo una città in salute e in costante crescita».
Il Salone, colmo di libri e di giovani, è un po’ un simbolo a portata di mano di questa necessità; che se indirizziamo bene è assolutamente positiva
Il Salone, dati alla mano, è stato seguito da molti giovani: c’è voglia di comunicazione, o comunque di contenuti, di qualità da parte delle nuove generazioni?
«Direi di sì. Parto però da un ragionamento: siamo abituati spesso a guardare ai fenomeni come tanti puntini separati che non uniamo mai. L’incredibile successo dei concerti di Taylor Swift, il caso Barbenheimer, gli stadi di Serie A pieni… sono evidenze che ci mostrano quanto le persone abbiano voglia e bisogno di eventi e coinvolgimento, specie se sono di qualità. Il Salone, colmo di libri e di giovani, è un po’ un simbolo a portata di mano di questa necessità; che se indirizziamo bene è assolutamente positiva».
Esiste in Italia un hamburger come quelli che troviamo negli States?
«Assolutamente sì, e c’è un motivo specifico. La cultura americana ha una caratteristica fondamentale, che è anche uno dei motivi per cui è vincente, ovvero che si può riprodurre. E questo vale sicuramente per il cibo ma anche per tantissimi altri aspetti della cultura americana. L’hamburger nella sua semplicità di riproduzione è l’esempio perfetto, e in ogni città italiana c’è almeno un hamburger degno di questo nome; chiaro manca l’America attorno».
Tu parli molto di Stati Uniti, noi abbiamo spesso utilizzato un “claim”: energie locali, orizzonti globali. Quanto è importante guardare lontano per valorizzare ciò che siamo qui?
«È cruciale. E lo è in ogni ambito. Nella gestione delle aziende, nell’organizzazione del Salone, nella realizzazione di un giornale… ci confrontiamo inevitabilmente con il territorio, perché è qui che abbiamo l’impatto maggiore, e più evidente. Però com’è che operiamo le nostre scelte? In base a cosa predisponiamo le strategie? In breve: lo facciamo utilizzando le informazioni e le conoscenze che possediamo. È un principio naturale. E per recuperare e assimilare le informazioni, guardare altrove, anche lontano, è appunto fondamentale».
È uscito per Mondadori il tuo ultimo libro, Frontiera, che parla molto di America. Perché, come dice il sotto titolo, sarà un “nuovo secolo americano”?
«Anzitutto perché lo dicono i dati. Non è avvenuto il famoso sorpasso della Cina e tante altre cose che erano state preannunciate. E poi parlare di un nuovo secolo americano non significa che gli States saranno i dominatori del mondo. Nel ‘900 non sono stati un modello particolarmente “virtuoso”, hanno spesso fallito, hanno avuto molti rivali… Ma nonostante tutto questo, noi continuiamo a definire il secolo scorso come “americano”. E sarà così anche per il prossimo. Questo perché, semplicemente, quando dovremo operare delle scelte o commentare le vicende del mondo, continueremo a girarci da quella parte del globo, per vedere e capire che succede. Poi chiaramente nel libro lo spiego in maniera più approfondita…».
In chiusura: tornerai al Salone l’anno prossimo?
«In ogni caso tornerò come visitatore, come ho sempre fatto, perché il Salone non me lo perdo. Se la domanda è se tornerò nell’organizzazione, onestamente non ne abbiamo parlato. Abbiamo finito da pochissimo di lavorare all’edizione 2024, e dobbiamo ancora confrontarci sulla prossima. Ovviamente spero di sì».
(foto ARCHIVIO FRANCESCO COSTA)