Lei che è notoriamente uno specialista con una chiara visione del mondo dell’arte a livello internazionale, anche da un punto di vista economico, come vede Torino rispetto ai mondi delle fiere e delle manifestazioni, delle gallerie e dei galleristi?
«Rispondo che sarebbe auspicabile una buona crescita per la nostra città, ma non senza determinati presupposti. Bastano due numeri per capire la situazione attuale: il giro di affari della compravendita di opere d’arte contemporanea in Italia è pari all’1% rispetto a quanto avviene nel mondo, dove ci aggiriamo sui 75 miliardi di euro. La ricaduta economica sul territorio torinese per un evento come Artissima era stata valutata pari a qualche milione di euro (valore che risale a qualche anno fa ma risulta pressoché valido); quando invece si parla delle grandi fiere internazionali, ci si riferisce a miliardi. Sembra arido trattare di arte attraverso i dati ma la realtà è questa, l’aspetto economico trascina anche la qualità. Pur con le sue fiere volenterose, Torino ad oggi non fa parte dell’Art Market internazionale perché mancano le grandi gallerie, mancano i grandi collezionisti. Se penso che qualche settimana fa hanno battuto a New York un Picasso per 140 milioni di dollari… impensabile qui da noi».
Economista, esperto di mercati e prodotti finanziari, e di Art Market, curatore di mostre di artisti internazionali, giornalista pubblicista, scrittore ed editorialista, docente, da fine 2021 è anche direttore del Laboratorio di finanza decentralizzata della SAA – School of Management dell’Università di Torino dove, dall’a.a 2019, è presidente del comitato scientifico
Cosa dovrebbe allora fare Torino per svoltare e diventare una nuova capitale dell’arte?
«La settimana dell’arte contemporanea ha visto folle di visitatori, piazze e musei strapieni. Una bella soddisfazione, certo, ma in questi flussi non rientrano i veri protagonisti del settore. Si tratta piuttosto di un turismo culturale, sicuramente interessante ma che non potrà mai eleggere Torino a capitale dell’arte. Il segreto è trovare grandi partnership. Abbiamo esempi emblematici attorno a noi per quel che riguarda le fiere di Maastricht o di Basilea, ormai veri punti di riferimento per l’arte contemporanea e supportate da grossi gruppi bancari e stakeholder. Si potrebbe prendere spunto da Parigi che negli anni ‘30 aveva cominciato a perdere il suo prestigio e oggi, con Art Basel eletto a suo partner, è tornata ad essere la quarta fiera al mondo».
Torino è pronta per questo?
«Sicuramente a livello geografico Torino ben si presterebbe a diventare un hub dell’arte contemporanea per il sud est Europa. E Artissima è un brand ancora vendibile a livello internazionale. Ma si tratta di capire se vi è la volontà di investire trasformandosi da città dedita al turismo culturale a polo culturale. Ci vuole flessibilità sia dal punto di vista politico che strategico. Insomma, bisognerebbe sposare un paradigma completamente nuovo per fare il salto di qualità. Quel che è certo è che, allo stato attuale delle cose, e lo ha ribadito anche Vittorio Sgarbi di recente alla sua visita in città, un giovane emergente qui non troverà né le grandi gallerie né i grandi finanziatori che gli servirebbero per farsi notare. O si opta per l’internazionalizzazione o esempi come Bologna e Milano dimostrano che non si può crescere, e forse nemmeno confermare i numeri. Ce lo ricorda Artissima, che in 30 anni ha perso 20mila visitatori. È il momento di scegliere».