Torino, primavera 2018
Tra le abitudini gastronomiche acclamate dai sedicenti appassionati di cibo, che pasteggiano quotidianamente a scatolette, tranci di pizza e piattini riscaldati del bar, la più odiosa è senz’altro quella dei menù degustazione, che inchiodano il malcapitato a tavola per tre ore, obbligandolo a ingurgitare un volume di cibo totalmente anacronistico, al punto che chiunque si alzi da questi banchetti è più esausto che soddisfatto, più satollo che felice. Non scuotete la testa, è così. Alla domanda «com’era il menù degustazione di quel grandissimo ristorante?», la maggior parte dei vostri amici risponderà «impegnativo». Spesso ho suggerito agli chef di sedersi a tavola e, in silenzio e a ritmo serrato, farsi servire tutto il loro menù, corredato dalla degustazione di cinque calici di vino che sovente lo accompagna e dall’ormai onnipresente vaschetta di burro e cestino del pane. Al termine di questa fatica, ne sono certo, tutti rivedrebbero sia la successione delle portate sia l’eccesso di variabilità di materie prime proposte e, soprattutto, dimezzerebbero le quantità.
Qualche anno fa la Zagat, guida gastronomica newyorkese, fece calcolare a un laboratorio di ricerca il computo calorico dei menù degustazione dei ristoranti tre stelle Michelin della città, e si scoprì che in media, vino escluso, si era di due volte oltre il fabbisogno giornaliero, come se si fossero mangiati quattro Big Mac. E non crediamo che in Italia le cose starebbero molto diversamente in termini di computo calorico. Come qualcuno sa bene, non amo parlare di calorie, perché sono un mezzo molto rozzo per calcolare il potere ingrassante di un cibo; come ordine di grandezza, tuttavia, possono dare un’indicazione. Il famoso chef inglese Jamie Oliver – ragazzo prodigio della cucina d’oltremanica che ha fatto del binomio cibosalute la sua bandiera, attraversando tutti gli Stati Uniti per promuovere un programma di cibo meno calorico per i teenager delle scuole americane – è stato recentemente attaccato per aver proposto un libro di cucina per il pranzo di Natale, in cui il menù indicato fa fermare la bilancia a 7000 kcal, quando le calorie giornaliere necessarie a un individuo adulto che conduca una vita sedentaria non sono più di 2000.
I menù degustazione inchiodano il malcapitato a tavola per tre ore, obbligandolo a ingurgitare un volume di cibo totalmente anacronistico, al punto che chiunque si alzi da questi banchetti è più esausto che soddisfatto
E la maggior parte dell’apporto calorico era dovuto all’abbondanza di grassi animali e alla bassa percentuale di fibre vegetali. Ma perché questa resistenza da parte degli chef, anche i più informati, a rivedere il rapporto tra queste due componenti del pasto? Dipende dalla moda, dalla critica, dall’abitudine e dal giudizio sociale, intimamente legato alla memoria transgenerazionale di un’atavica povertà. Bene, sta alla clientela far cambiare la mentalità dei ristoratori, se questi da soli non sono in grado di farlo. Perché, fino a prova contraria, la cucina resta un’arte applicata, la cui funzionalità è retribuita dal committente, che ha il diritto di esprimere le proprie preferenze e non di subire passivamente qualsiasi imposizione. Certo, cambiare è arduo, ma non impossibile. Vi racconto un piccolo aneddoto.
Frequento spesso un ristorantino di campagna, in Piemonte, dove il menù comprende, dal primo antipasto all’ultimo dei secondi, piatti che contengono carne. Un giorno ho provato a chiedere che mi cucinassero anche una verdura del loro meraviglioso orto. Da quel momento, appena seduto, come prima proposta della cena mi illustrano la loro splendida verdura del giorno. Pian piano gli altri avventori hanno iniziato a seguire l’esempio e oggi la verdura del giorno è in menù, con vantaggio e soddisfazione sia di chi la prepara sia di chi l’assapora.
Il menù degustazione non ha nulla a che vedere con un vero desiderio di gusto, di soddisfazione, di benessere. E, quanto meno al tavolo del ristorante, non è poi così difficile esprimere un desiderio, il lavoro complesso è trovarlo dentro di sé.