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Sebastian Schwarz

«Il mio Teatro Regio guarda al futuro»

di GUIDO BAROSIO

Inverno 2019

IL NUOVO SOVRAINTENDENTE DEL TEATRO REGIO HA UN CURRICULUM INTERNAZIONALE, NONOSTANTE LA GIOVANE ETÀ. AMA LE REGIE CON FORTE PERSONALITÀ, PROMETTE UN TEATRO CHE GUARDI AVANTI E PROGETTA LA PRIMA OPERA DELLA STORIA DEDICATA AL CALCIO.

Nato nel 1974 a Rostock, in quella che allora era DDR, Sebastian Schwarz si è laureato in Musicologia a Berlino, ha proseguito i suoi studi a Venezia – canto lirico al Benedetto Marcello e Tecniche artistiche dello spettacolo a Ca’ Foscari, dove ha conseguito, con lode, la seconda laurea – per poi inanellare numerose esperienze internazionali, tutte di altissimo profilo: da Venezia all’Inghilterra, dalla Russia alla Germania, per consolidare il proprio curriculum a Vienna. Nella capitale austriaca ha diretto per nove anni il Theater an der Wien e, in Gran Bretagna, ha curato il popolarissimo festival di Glyndebourne dal 2016 al 2018.

Al pubblico occorre offrire un prodotto bilanciato, rispettoso di tutte le esigenze, presentando un ventaglio di allestimenti che proponga tutti gli stili, il nuovo come il tradizionale

Dal luglio di quest’anno è lui il nuovo sovrintendente e direttore artistico del Teatro Regio, dove, per la prima volta, le due cariche vanno insieme. Modi cordiali, abbigliamento curato e fantasioso, italiano impeccabile (Schwarz parla bene sei lingue e discretamente altre due), cultura enciclopedica, eloquio fluente, idee chiarissime, curiosità da vendere, Sebastian Schwarz ha già tracciato la sua rotta. Dopo 18 anni con Walter Vergnano, e la parentesi Graziosi, il Teatro Regio di Torino comincia a sperimentare il suo primo sovrintendente rock. Perché niente promette di essere più come prima.

A 30 anni dalla caduta del Muro, che ricordi ha della sua infanzia trascorsa nella DDR?

≪In questi giorni in Germania c’è un grande dibattito sul tema, che ha coinvolto anche Angela Merkel. Io non ho difficoltà ad affermare che ho passato un’infanzia splendida, dove non ho avvertito la mancanza di nulla. Con questo non voglio assolvere un sistema, ma noi vivevamo una realtà diversa rispetto ai nostri coetanei dell’Ovest, una realtà che ci faceva apprezzare altre cose, altri valori, che loro non avevano. Quando la DDR e andata in frantumi molti cittadini dell’Est non hanno retto uno scenario competitivo per il quale non erano preparati. Era arrivato un mondo dove tutti si affannavano per superare l’altro. Io sono stato fortunato, avevo l’età giusta per inserirmi nel nuovo sistema scolastico e cogliere le opportunità che si presentavano≫.

© Edoardo Piva

Per la musica fu amore a prima vista?

≪In realtà io avrei dovuto fare Medicina, perché ero riuscito a superare molto bene i selettivi test di ammissione alla facoltà. Ma erano anni entusiasmanti, si respirava quel senso di libertà che ti fa pensare che tutto sia possibile. E la musica, il canto in particolare, mi appassionava. Pero quando entrai in un coro, quando iniziai a prendere lezioni, ero ancora convinto di fare il medico. Poi le mie ambizioni seguirono un’altra rotta e a Venezia ci fu la svolta definitiva≫.

Cosa resta di quella passione per la medicina?

≪Tanto. Se la mia giornata fosse di 48 ore ne dedicherei 24 alla musica e altrettante alla medicina≫.

Da potenziale cantante a manager. Come mai questa scelta?

Durante l’intervista

Mi sono sempre appassionato al lato organizzativo dello spettacolo, a tutti gli aspetti del lavoro che portano alla messa in scena. E incredibilmente affascinante partire dalle prime note, dagli appunti, per arrivare allo spettacolo, al momento del confronto col pubblico. Ma fu determinante constatare che la mia voce non era uno strumento all’altezza, con il canto non avrei mai potuto ottenere i risultati che mi prefiggevo. Pero fu un’esperienza importante, io sono stato dall’altra parte della barricata, conosco la fatica, l’impegno e la professionalità necessari per andare in scena.

Fin da quand’era molto giovane ha lavorato in prestigiose realtà internazionali, ma la sua esperienza più lunga è stata a Vienna. Come si forma un manager nella lirica?

≪La varietà di esperienze e di culture e fondamentale. E io ho avuto la grande opportunità di conoscere presto il mondo del teatro. A 17 anni sono stato assistente di regia per il ‘Fidelio’ a Rostock, la mia città. Il mio diciottesimo compleanno l’ho passato in teatro. Più in generale, penso che la vita di un direttore, di un sovrintendente, abbia una durata precisa. Servono almeno cinque anni per lasciare il segno, per fare la differenza, ma non bisogna mai rimanere più di dieci nel medesimo posto. Dopo diventa un problema, c’è il rischio di ripetere se stessi e anche di annoiare≫.

Ci racconta della sua esperienza a Vienna, la capitale universale della musica?

≪Vienna e uno scenario operistico e musicale unico al mondo. Ci sono tante sale e tre teatri che hanno scritto la storia della lirica. Le produzioni, da sempre di altissimo profilo, richiamano un pubblico internazionale di appassionati e melomani. Quindi si respirano quotidianamente la competizione e il confronto. Per essere all’altezza occorre innanzitutto trovare un proprio spazio, una propria cifra stilistica. Noi del Theater an der Wien abbiamo puntato sull’originalità, sulla ricerca e qualche volta sulla provocazione. Era impossibile rivaleggiare con la Wiener Staatsoper e le sue imponenti produzioni classiche, dovevamo essere differenti e ci siamo riusciti. Abbiamo lavorato sul Barocco, su Gluck e Vivaldi, abbiamo puntato su regie fortemente caratterizzanti≫.

Che cos’è per lei la lirica?

≪L’opera innanzitutto racconta storie, come Netflix o Dostoevskij. La chiave di lettura e la regia, che attinge a un patrimonio formidabile per proporlo sempre in chiave nuova e contemporanea. Ma il nostro compito e anche quello di tutelare e preservare questo patrimonio, continuando a renderlo vivo, offrendolo al pubblico≫.

Qual è il suo progetto per Torino?

≪Questo è il teatro della città ed e fondamentale il concetto di ‘teatro aperto’, pronto al dialogo con tutti gli altri soggetti in campo, dalle realtà culturali ai musei, dagli altri teatri all’università. Poi noi abbiamo la responsabilità della nostra storia, e della tradizione di un luogo dove hanno debuttato ben 120 opere. Al pubblico occorre offrire un prodotto bilanciato, rispettoso di tutte le esigenze, presentando un ventaglio di allestimenti che proponga tutti gli stili, il nuovo come il tradizionale. Certo sarebbe facile puntare tutto sugli adorati titoli rassicuranti, ma il teatro non ha solo la funzione di piacere e di essere accomodante. Il divertimento e la distrazione sono importanti come l’educazione e la capacita di creare cultura, una cultura che diventi patrimonio di tutti≫.

Quindi ci saranno proposte fortemente innovative?

≪Anche. Ma penso che ogni opera possa essere letta e proposta in tanti modi, l’importante e che questo ‘modo’ sia bello. In una frase, male interpretata, si leggeva la mia volontà di presentare finali alternativi e di farli scegliere al pubblico. Non e esattamente così: ci sono diverse opere che hanno più di un finale, e sono state proprio composte in questo modo. Ecco, a me piacerebbe che il pubblico dimostrasse il suo gradimento per l’una o per l’altra versione. Ma sono tutte versioni del medesimo compositore≫.

Nel suo doppio ruolo coesistono l’anima artistica e quella imprenditoriale di un teatro. Può essere un’opportunità di crescita?

≪Penso proprio di sì. Innanzitutto perché il direttore artistico non deve discutere con chi tiene i conti. Occorre studiare i bisogni, valutare le priorità artistiche, cogliere le occasioni e rendere tutto sostenibile. So benissimo che da me ci si aspetta questo≫.

C’è un allestimento nuovo che le piacerebbe portare a Torino?

© Edoardo Piva

≪Vorrei realizzare per il Teatro Regio la prima opera dedicata al calcio, il mito universale per eccellenza dei nostri tempi. Finora non e mai stato fatto nulla di simile. C’e stato solo un musical, ‘The beautiful game’, firmato da Andrew Lloyd Webber. Al momento stiamo lavorando su cinque possibili storie, poi sceglieremo la più adatta. Occorre fare uno sforzo per rendere tutto plausibile: i protagonisti non devono solo avere la voce ma anche il fisico adatto, poi serve rendere l’esperienza agonistica e trasmettere l’emozione dei tifosi. Perché i cori sugli spalti devono essere una componente musicale nello spettacolo. Dobbiamo lavorare su cosa significa il calcio per Torino, e questo aumenta la responsabilità. Sto valutando nomi di prestigio internazionale per la musica, ma non voglio anticipare nulla, per evitare la delusione nel caso non potessero collaborare con noi. Quest’opera l’avevo pensata per Londra, però adesso la voglio fare a Torino. Questa è la città giusta≫

(Foto di TEATRO REGIO)