Primavera 2024
Il tema di questo primo numero dell’anno 2024 è Identità e Passione: due volti fondamentali nella Torino di oggi e di domani. E due volti sono quelli scelti per la nostra copertina. Non i più forti, i vip o i goleador; non i predestinati, i santi, gli illuminati, i fenomeni, ma Identità e Passione. Ecco quindi Gatti e Buongiorno, che si osservano in copertina, non più difensori, ma incarnazione di una certa idea di mondo. Quale? Quella che vogliamo per questo 2024, e per la nostra Torino.
Di seguito il best off degli articoli più interessanti di questo numero. Ecco quindi i punti di vista di due dei nostri editorialisti, Guido Barosio e Paolo Griseri; la cover story che racconta il calcio come metafora della vita; l’intervista alla nuova direttrice del Salone del Libro 2024 che si appresta ad affrontare la sua prima sfida a maggio; il viaggio a tinte rosse e azzurre in Marocco e quello lungo itinerari insoliti sotto il cielo di Berlino; 50 tra i migliori ristoranti di Torino e dintorni selezionati dalla nostra Ristoguida; per concludere con l’immancabile scorcio su luoghi e personaggi insoliti di Torino.
Indice
- Identità e passione, editoriale di Guido Barosio
- L’identità che ci accompagna, editoriale di Paolo Griseri
- Cover story: Identità e Passione: Torino e il suo calcio, Torino è il suo calcio
- Intervista ad Annalena Benini: nuova direttrice del Salone del Libro
- Viaggio in Marocco, per la danza tra il rosso e il celeste, di Guido Barosio
- Itinerari insoliti sotto il cielo di Berlino, di Silvia Donatiello
- La Ristoguida in breve: 50 tra i migliori ristoranti di Torino e dintorni
- A spasso per Torino. Michelangelo Pistoletto, di Sandro Cenni
Identità e passione
editoriale di GUIDO BAROSIO
Questo non è un editoriale come tutti gli altri. E lo stesso vale per la cover. Niente volti nazionali (o internazionali) a segnalare le nostre eccellenze, niente icone pensate per gemellare la nostra copertina con l’evento o il personaggio del momento. In questa circostanza rendiamo omaggio a quello spirito sabaudo che ci rende differenti, sovente eccellenti. E il nostro claim, per la primavera 2024, sarà identità e passione. Un gesto d’amore per le nostre radici? Certo. Ma anche uno sguardo verso il futuro, unico volano accertato che anticipi i tempi. Torino unica e differente? Certo che sì. Quel regno – “franco piemontese di montagna”, come segnala Alessandro Barbero – non ha eguali in Europa: militare per vocazione seppe conquistare l’Italia intera, fuori dalle rotte più frequentate allestì una capitale dove nulla mancava alla mappa delle meraviglie (regge, palazzi, scenografici giardini…). Torino, aperta all’Europa (sagace nelle alleanze), cosmopolita ante litteram, non abbandonò mai la propria lingua, forse perché ostica agli stranieri. Nel continente non c’è raffronto: per ruolo politico (e militare), per eleganza riconosciuta, non si trova capitale così piccola ma così grande. Identità e passione, fin dall’inizio e ancora oggi. Perché Torino sarà sempre una solida caserma inguantata di velluto. Coi suoi cittadini eleganti e ruvidi (quando serve, a seconda delle circostanze), in grado di fare bene tutto quello che va fatto bene. E anche di reinventarsi, all’occorrenza. Come avvenne con la grande città dell’auto, rivoluzione copernicana dell’impresa, e tante altre cose nuove che in Italia nessuno aveva mai visto prima: la moda e il cinema, per poi approdare al Salone dell’Auto (brillantemente rinato in questi tempi), al Salone del Libro e quello del Gusto, e ancora il Circolo dei Lettori. Tocco di urbanità internazionale l’archeologia industriale rinata con EDIT e il polo delle OGR. E poi quell’effimero (che sembrerebbe non appartenerci, ma invece…) che ci ha incoronato per le ATP Finals e i leggendari Giochi del 2006. Efficace programmazione? Forse anche. Ma sulle rive del Po alberga un genius loci fatto di vocazione tecnologica, eleganza innata (da sempre la dote più celebrata dai nostri visitatori), capacità di integrare, includere, formare, coinvolgere, organizzare. Perché facciamo parte di un esercito che, per crescere, ha saputo tenere aperto e vigile il suo sguardo sul mondo. Il più recente esempio che mi viene in mente? L’aerospazio. Si, proprio quello che abbiamo sognato da bambini con le imprese della NASA. E qua una quota di applicazione visionaria era davvero d’obbligo, quando si passa dalla cultura della Panda a quella delle navicelle per Marte. Ma noi ci siamo arrivati da torinesi – rusconi e ostinati – coi nostri ingegneri, con le nostre startup, con poche parole e obiettivi ben identificati nel mirino. Oggi Torino è il polo di riferimento europeo del settore, con aziende, tanti progetti e la neobattesimata Città dell’Aerospazio. D’altra parte la Mole – unico monumento d’Europa fatto così – ha tutto per sembrare un missile siderale (tipo quelli di Verne); caso unico dove il brand è nato prima del prodotto. Ma siamo arrivati alla cover, perché Torino Magazine è ben fiero della propria collezione. Per rendere evidente il nostro concetto abbiamo scelto due calciatori, ma non certo uguali agli altri: Alessandro Buongiorno, granata, e Federico Gatti della Juventus. Loro sono identità e passione, sono cresciuti in città e non hanno nomi esotici, giocano in difesa (proteggendo casa propria, senza tante chiacchiere), ma sanno anche buttarla dentro quando serve. Sono identitari e la gente lo capisce. In un calcio fatto sempre più di soldi e basta, sono un’altra cosa, e non solo perché sono bravi. Gatti, quando suo padre perse il lavoro, continuò a giocare facendo il muratore. Buongiorno rifiutò un contratto sontuoso per restare nel suo Toro, che lo consacrò leggenda. Cristiano Ronaldo dove sei? La Torino del Calcio oggi sono loro. Ma il calcio è anche un attendibile specchio della società. Così, quando questi due segnano, identità e passione sono concetti che scendono in campo. Ben chiari, sotto gli occhi di tutti.
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L’identità che ci accompagna
editoriale di PAOLO GRISERI
Nella difficile transizione di Torino, quando non si sa se continueremo ancora a costruire automobili, o se saranno cinesi, l’unica certezza è che dobbiamo cavarcela da soli. Dobbiamo imparare, a dispetto di tradizioni secolari, a diventare una città più laica, meno devota a questo o a quello, dobbiamo vivere senza rete, imparare a rischiare. Non è la prima volta che accade a Torino. È successo in tutte le occasioni in cui abbiamo dovuto cambiare volto. Ci siamo riusciti quando lo abbiamo fatto con passione, cercando nuove identità. Ma per raggiungere lo scopo di una rinascita, oggi indispensabile, dobbiamo scrollarci di dosso i difetti che sono il contrario di identità e passione: il cinismo e la rassegnazione. Quell’orribile abitudine a smontare ciò che abbiamo costruito senza proporre nulla in cambio delle macerie. Ma al contrario compiacersi di quelle macerie come fossero la dimostrazione della nostra orgogliosa autonomia e non la prova palese della nostra incapacità a credere nel futuro. In almeno tre recenti occasioni Torino ha dimostrato la passione necessaria a superare le difficoltà. La prima è certamente quella dei Giochi del 2006, quando la passione era addirittura nel logo dell’Olimpiade. Il successo di Torino 2006 non era affatto garantito. La fiaccola olimpica era arrivata dopo mesi di polemiche, tira e molla sui finanziamenti, gravi problemi occupazionali. Ma la città, tutta la città, ha saputo trovare la passione necessaria a presentarsi puntuale all’appuntamento.
Il secondo momento in cui la passione ha fatto vincere Torino è stato durante il braccio di ferro con Milano per il Salone del Libro. Le lunghe code sul piazzale del Lingotto di fronte alle biglietterie della manifestazione sono state l’immagine simbolo di una città che non accettava di vedersi sfilare una kermesse che aveva costruito in decenni. Ed è stata anche l’immagine di un’alleanza non scritta tra Torino e il resto d’Italia, accorso al Lingotto per dire no a un’operazione che rischiava di trasformare la città dei libri in una sorta di Fashion Week della cultura. La terza volta in cui Torino ha dimostrato di poter vincere con la passione è stata la manifestazione a favore della TAV. Non tanto e non solo per il fatto di avere appoggiato un progetto su cui ognuno può avere l’opinione che ritiene, ma per aver dimostrato che non è con la religione della decrescita che la città avrebbe potuto cavarsela. E che, al contrario, solo pensando in grande Torino si può salvare. In tutto questo che cosa c’entra l’identità? C’entra perché in ogni crisi Torino ha saputo uscirne creandosi un nuovo volto che comprendesse il suo passato e lo proiettasse sul futuro. Se l’identità non è pura e narcisistica mistica di ciò che fu, ma è invenzione di ciò che si potrà diventare, allora si trasforma in una spinta formidabile. Negli anni Sessanta Torino ha raddoppiato la popolazione. Lo ha fatto in modo tumultuoso e disordinato, con gravi problemi sociali. Ma è diventata una nuova città, nata dall’incontro-scontro tra famiglie piemontesi e del Sud, e ha costruito su questo il suo nuovo volto. Accadrà inevitabilmente così anche con la nuova immigrazione extracomunitaria. Perché una delle identità di Torino è quella di saper integrare, trasformando le diversità in sviluppo. Non senza problemi, naturalmente. Scommettendo sul suo DNA che è quello di saper dare regole e farle rispettare a tutti, autoctoni e newcomers. Non sempre ci riesce ma, di norma, accade meglio, molto meglio, che nelle altre città. Anche questo è identità.
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Identità e Passione: Torino e il suo calcio, Torino è il suo calcio
«Alzate il volume della vostra radio e lasciate che la buona musica non muoia mai». In radio, sulla Rai, risuona a reti unificate questo messaggio. Subito dopo un secondo di silenzio, e poi quella musica: Nel blu, dipinto di blu. Tutto il paese ascolta, e un po’ si commuove. È un lunedì di agosto, e a Roma si sono da poco svolti i funerali di Domenico Modugno. Dentro e fuori dalla Basilica di San Sebastiano ci sono praticamente tutti (a parte una buona fetta di politica), ma artisti, attori, giornalisti, scrittori… sono tutti presenti; e poi c’è il “popolo”, là fuori, in silenzio, a perdita d’occhio. Riunito per un ultimo saluto a Modugno. Mentre in radio, nei negozi, nelle macchine, in mezzo a un silenzio surreale, suona ancora quella canzone, probabilmente la più famosa di sempre. Il tempo, per due minuti e venti nove secondi, si ferma davvero, di fronte alla gigantesca portata emotiva di quelle note che, per un Paese intero, sono state Identità e Passione.
Un passo indietro: le etimologie. Identità viene dal latino idem, ovvero stesso, medesimo; e indica l’eguaglianza di un oggetto rispetto a se stesso. Quindi non solo identità dunque, ma coerenza, appartenenza, fedeltà, adesione a qualcosa. Il percorso etimologico del termine passione è invece ben più tortuoso, risale anch’esso al latino e rimanda a un’idea di patimento e sofferenza. Non a caso quella di Cristo era “passione”, ed era tutto tranne che piacevole. Fu il tempo a traslitterare il senso della parola verso un significato di emozione fortissima, quasi che il dolore potesse ottenere una sorta di catarsi nel rappresentare l’emozione in senso lato. Emozione estrema dunque: per un amore, per un lavoro, per un ideale, per una squadra di calcio. E in questa accezione ritroviamo anche il tema della sofferenza…
Quindi identità e passione non sono affari facili. Non significano sempre vittoria (anzi!). Non sono obbligatoriamente patinate o da prima pagina. Ed ecco quindi in cover non i più forti, i vip, i goleador, non i predestinati, i santi, gli illuminati, ma due simboli di identità e passione, due volti a tinte bianconeregranata, duri e autentici, come identità e passione richiedono. Buongiorno e Gatti, che si osservano in copertina, non più difensori, ma incarnazione di una certa idea di mondo. Una a caso? No, la nostra. La domanda comunque può venire spontanea: perché il calcio? Per provare a rispondere prendiamo in prestito un racconto del nostro direttore (Guido Barosio, ndr) di diversi anni fa: «Anno 2035, suolo marziano. Nella stazione terrestre 12 uomini: 4 americani, 4 russi, 2 cinesi, 2 italiani, di Torino. All’alba i nostri con cittadini si svegliano con un rapido sguardo d’intesa. Dopo essersi preparati per l’escursione, aprono un piccolo bauletto d’alluminio. Ci sono tre oggetti, li prendono ed escono. […] Solo allora appoggiano al suolo le due magliette – una granata e una bianconera– e iniziano a palleggiare, con la sfera che vola lenta, come quei palloni pieni d’aria dei bambini. Oggi, sulla terra, è il giorno del derby».
Ecco quindi perché il calcio. Perché è un rito, è “i colori della città”, è un filamento di DNA che a Torino è un po’ più evidente che altrove. A Torino come in diversi altri luoghi nel mondo. A Glasgow la maglia biancoverde del Celtic è una questione di football, ma anche sociale, religiosa, politica; perché tifare quelli in green significa essere “i figli degli irlandesi”, e quindi anche cattolici e separatisti, e non protestanti unionisti come quegli altri, i Rangers (i Teddy Boys di Glasgow). L’Old Firm, il derby di Glasgow è più che che una passione, più che identità: è l’anima della città. Succede allora che esplorando le realtà calcistiche del mondo, conosciamo i territori che le ospitano. Un esempio? La Boca, il quartiere di emigrati genovesi di Buenos Aires dove è nata una delle squadre di fútbol tra le più celebri al mondo: il Boca Juniors. E il Boca (con la Bombonera, la Doce, Riquelme e tutto il resto) è La Boca. Tanto che quei colori gialli e blu hanno costretto perfino la Coca Cola a cambiare le cromie delle proprie insegne nel quartiere, perché il biancorosso ricordava troppo gli acerrimi rivali del River Plate, e nessuno a La Boca comprava la bevanda più famosa del globo. Ma il calcio racconta non solo usi e identità di città e quartieri, ne spiega anche ideali ed emozioni che, a volte, si fondono con le casacche senza via di ritorno. Succede a Madrid, dove le superpotenze di Atletico e Real, lasciano alle volte romanticamente il passo alla terza squadra della capitale: il Rayo Vallecano.
Antifascista, anarchica, eccentrica società calcistica di culto (quasi come i pirati del St. Pauli ad Amburgo) che arranca da sempre, sportivamente parlando, ma vive e lotta sorretta unicamente dalla propria identità e conseguenti valori. Quella Vida Pirata a cui sono state dedicate canzoni e romanzi. Ecco quindi perché il calcio: perché fotografa i luoghi senza bisogno di troppe altre parole; bastano una bandiera, delle sciarpe tese, un pallone che rotola. E a proposito di scatti, quest’anno Torino sarà una delle grandi capitali della fotografia italiana, tra mostre molto belle ed EXPOSED, un nuovo foto festival internazionale alla sua prima edizione. I torinesi amano le foto perché sotto la pellaccia sabauda che si ritrovano, in fondo, sono dei romanticoni. Gente sensibile, ma mai amante di troppo trambusto; quindi le fotografie vanno benissimo. Ed è, più che nei video, proprio nelle foto che ritroviamo, a casa nostra e in giro per il mondo, identità e passione, attingendo dalla sfera del football. Un bambino che festeggia il suo Flamengo laddove il calcio non è sport, ma vita, salvezza, poesia. Un padre e una figlia che seguono il loro Athletic (Athletic Bilbao, ndr) che per il popolo basco è simbolo d’identità al pari dello txakoli e dell’euskera. Una manciata di ragazzetti che giocano a pallone, in India come in Vietnam, felici a prescindere dai campi, dalle divise, dalle scarpe, dalle porte non propriamente regolari. Forse dovremmo recuperare da quelle foto un po’ del calcio che abbiamo ormai perso. Perché nei volti di Buongiorno e Gatti ci sono grinta, cattiveria, abnegazione, voglia di rappresentare dei colori difendendoli da tutto, a partire dai bomber avversari; manca forse un po’ di quella spensieratezza ingenua di chi ha tutto da conquistare, ma niente da perdere. E non ha mai conosciuto burocrazie, team building o welfare. Magari anche a Torino manca un po’ di quella spensieratezza?
Diciamo che le carte in tavola ci sono. Ci sono i giovani, c’è l’aerospazio, c’è l’università. E poi ci sono la bellezza di una città mai così raccontata, i nuovi festival e saloni, le ATP Finals, le settimane dell’arte, l’enogastronomia ormai globale, le eccellenze tecnologiche, le startup innovative, le sinergie Comune-Regione. Servono programmazione, ancora più collaborazione, un’immagine cittadina da comunicare più chiara e incisiva… Ma i presupposti non sono affatto male. Detto ciò, posto come elemento imprescindibile la competenza, ci siamo chiesti: abbiamo smesso di parlare di identità e passione? Se sì, quando abbiamo smesso? E poi, perché? I volti di Alessandro e Federico in copertina non sono punti di arrivo, ma di partenza. Identità e passione non sono risposte ma parti di un discorso che non si esaurisce, e che stimola a nuove domande e rinnovate riflessioni. Parecchi anni fa il caricaturista Benny disegnò per noi una delle copertine più iconiche di Torino Magazine: Toro e Zebra che si guardano in cagnesco con in mezzo la Mole. Erano il simbolo di una città che riabbracciava il derby dopo diverso tempo, e che in qualche maniera, attraverso quel rito, si riappropriava di una parte fondamentale della sua identità. Certo, “non ci sono più i derby di una volta”, ma io ricordo distintamente (e parliamo di qualche anno fa) il sorriso di mia nonna quando le raccontavo il giorno del derby; lei che da “spettatrice” li ha visti quasi tutti. La gente nervosa al semaforo, le strade che si svuotano, le serrande che vanno giù furbescamente un po’ prima del solito. Quel calore è cambiato ovviamente, ma c’è ancora e fa parte di noi.
Come facciamo a dirlo con certezza? Breve riflessione: Buongiorno e Gatti verranno lecitamente giudicati per i loro trascorsi sportivi, per i risultati, ma non solo per quelli (come invece succede a praticamente tutti gli altri). Perché loro sì e gli altri no? Perché hanno, a parole e con i fatti, rimodulato una parte della loro etichetta. Non sono più calciatori e basta, ma a furia di battere il pugno sul cuore si sono trasmutati in dei simboli. Perderanno e vinceranno, ma avranno anche un’altra voce sotto i loro nomi sul dizionario del calcio di oggi (e chissà magari di domani). E questo ci dona qualche speranza: ma davvero nel mondo gigantesco, globalizzato, algebrico si può ancora non essere totalmente schiacciati dal peso dei report? Evidentemente sì. Poi c’è il cinema, l’attesissima seconda stagione de La legge di Lidia Poët, e a giugno comincia il grande tam tam dello sport a ogni latitudine tra Europei (di calcio e di atletica), il grande ciclismo, le Olimpiadi di Parigi. L’estate è la musica e di nuovo il turismo; poi il Salone dell’Auto che torna al Valentino, Terra Madre a Parco Dora, l’autunno gastronomico, il tartufo, l’arte, il tennis, il TFF e ancora cinema. In mezzo gli auguri ai 200 anni del Museo Egizio, la nuova programmazione della Mole, tutte le altre mostre e un tessuto economico che, pur con tanti difetti, innova, propone, si espande.
Il tutto sullo sfondo di una delle città al vertice, secondo QS Best Student Cities, della classifica delle migliori metropoli universitarie in cui studiare al mondo. Dentro questo breve riassunto ci sono le tante anime di cui Torino deve prendersi cura nei prossimi 12 mesi. Con quali strumenti? Con i numeri, con le competenze, con la cultura. Con la forza dell’identità e della passione che l’incrocio di sguardi di Buon giorno e Gatti rappresenta. Osvaldo Soriano, una delle più grandi penne sudamericane del ‘900, giornalista e cantore del fútbol come pochi altri, un giorno ha scritto: «Non amo lavorare troppo, né correre per i corridoi di uno stadio, né forse capisco di sport quanto l’incarico richiederebbe. Ma so inventare storie bellissime». La nostra volontà, spogliati di tutte le altre sovrastrutture, è che il 2024 sia una storia bellissima, soddisfacente, emozionante per la nostra città. Noi giochiamo in prima mano un asso (anche se non si dovrebbe mai fare), mettendo in copertina Toro e Juve, grinta e coraggio, identità e passione. Buona la prima.
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Intervista ad Annalena Benini: nuova direttrice del Salone del Libro
Identità e passione è il tema cardine di questo numero. Siamo felici di questa nomina perché in lei abbiamo visto tanta passione per i libri e la letteratura; abbiamo visto giusto?
«La letteratura è la mia prima passione: leggere libri è da sempre per me il modo di entrare in altri mondi, di conoscere le luci e le ombre del vivere umano. Da quando ho imparato a leggere non mi sono mai sentita sola un minuto, con me c’è sempre qualcuno di interessante, terrificante, magnifico, disperato, bugiardo, eroico, pavido, e ci sono brughiere, steppe innevate, grattacieli e deserti. La lettura è stata per me per anni un esercizio solitario di curiosità e di smania, che da ragazzina mi rendeva un po’ diversa, un po’ “strana”, e che comunque non condividevo con nessuno, ma ho imparato crescendo attraverso il lavoro, la scrittura e gli incontri fondamentali della mia vita, che la lettura può essere anche un grande momento collettivo. Un modo di stare con gli altri in un mondo più legato all’immaginazione, un luogo in cui condividere idee, differenze, desideri».
Come ha reagito alla chiamata del Salone?
«Con felicità. Dopo un primo momento di confusione e stupore, durante quella telefonata inaspettata, ho pensato che era una cosa bellissima, un lavoro importante e prezioso per tutti, e lo penso ogni giorno di più. Sono circondata da persone bravissime e appassionate, che pensano al bene del Salone ogni giorno dell’anno, e questo è esattamente il mio intento».
Parlando di identità, ogni direttore o direttrice solita mente prova a portare un po’ della sua nel Salone; lei?
«Io porto la mia personalità, la mia passione per le storie, per la letteratura, la curiosità per gli esseri umani. Porto anche l’attenzione verso il mondo dei ragazzi e delle ragazze, che è già una vocazione del Salone. E un’attenzione particolare al mondo delle scrittrici, delle donne, il loro movimento nel tempo e nella società. Mi interessa tutto ciò che è in movimento e che cambia mentre noi leggiamo, mentre noi cambiamo».
“Vita immaginaria” è il tema di questa edizione: ce lo racconta?
«La vita immaginaria muove la vita creativa e spesso anticipa e indovina i fatti della vita reale. Contiene in sé la letteratura, il cinema, l’arte, il presente, la legge rezza e la profondità del pensiero. E “Vita immaginaria” è il titolo di un magnifico libro di Natalia Ginzburg, pubblicato per la prima volta nel 1974 e ripubblicato in anni recenti da Einaudi. È una raccolta di saggi, articoli, racconti. È un libro per me importante per la scrittura e per la limpidezza del pensiero: l’innocenza separata dall’ingenuità. Quindi sono felice di omaggiare una grande scrittrice come Natalia Ginzburg in questo mio primo anno al Salone con un titolo che è suo e che la rispecchia così tanto».
Il Salone è per Torino identità e passione, lo sentiamo molto nostro. Come lo percepiva lei prima dell’investitura?
«Sono sempre andata al Salone come visitatrice, come relatrice e anche come autrice, l’ho vissuto sempre come una festa e, lo confesso, da un certo punto della mia vita in poi anche come il posto importante da cui aspettare con trepidazione l’invito a partecipare. L’anno scorso, ad esempio, prima di ricevere quella telefonata, speravo di essere invitata a presentare il mio libro e non osavo chiederlo alla mia casa editrice. Mi è sempre sembrato che tutte le cose importanti della letteratura accadano qui, in una fiera che è anche un luogo di incontro e da cui negli anni sono sempre tornata a casa con nuove idee e con un senso di appartenenza a una comunità di persone che mettono i libri al centro della loro vita».
La conferenza del Regio ci è piaciuta molto. Anche per la location. Crediamo che i luoghi raccontino le idee delle persone, e che le persone facciano i luoghi. È una formula particolare. Succede anche per Torino e il suo Salone del Libro?
«Grazie, anche a noi è piaciuto molto essere al Regio quel giorno e i luoghi sono importanti, ogni volta li scegliamo con cura e il giorno dopo un evento ci riuniamo tutti insieme per capire quello che si può migliorare. Perché questo è prima di tutto un lavoro di squadra. Le cose si fanno insieme. Il Salone è questo, una grande opera collettiva incastonata nella città di Torino, e io mi sento molto fortunata a farne parte».
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Viaggio in Marocco, per la danza tra il rosso e il celeste
di GUIDO BAROSIO foto MARCO CARULLI
Due città “a specchio” da esplorare, 180 chilometri che separano la capitale di un impero millenario da una fortezza sull’Atlantico, tanto amata da Jimi Hendrix e Orson Welles. Il “paradiso terrestre” concepito da Yves Saint Laurent e il porto più teatrale del mondo. Siamo all’estremo ovest del Maghreb, per un viaggio irrinunciabile
Introduzione
Ci sono città messe a specchio, vicine ma differenti, altre volte persino opposte; in certi casi prevale il conflitto, in altri sono così lontane (anche se vicine) da escluderlo a priori. L’Italia ospita questo fenomeno ai massimi livelli, con la sua storia arrampicata dove sorgevano regni indipendenti, signorie, borghi bellicosi e capitali, tante capitali. Città pronte a combattersi, ad allearsi e assediarsi, a dispiegare le vele per acciuffare una porzione di mondo. In Europa non sempre era così, perché la capitale governava le sorti dello stato, chiudendo le porte alle competizioni e al fiorire delle autonomie. Allontanandoci ancora le città a specchio sono un fenomeno marginale, in particolare nell’Africa maghrebina, per secoli dominata dalla presenza islamica, che diede vita a un impero storicamente “liquido”, e al continuo susseguirsi (e sovrapporsi) di califfati e dinastie.
Un po’ di storia
Il Marocco, vertice occidentale di un mondo che si estendeva fino alle porte dell’India, ebbe una significativa originalità: per l’autorevolezza dei propri sovrani, per un esercito in grado di competere con le armate cristiane, per una vocazione all’indipendenza, che sarebbe rimasta tale anche durante la dominazione coloniale. Conseguenza evidente di questo percorso fu l’ergersi di quattro città imperiali: Fès, Marrakech, Rabat (l’attuale capitale del regno) e Meknes. A queste vanno aggiunte Casablanca, la capitale economica coi suoi 4 milioni di abitanti, Tangeri, storico ponte dell’Africa con l’Europa, e la piccola, fatata, meravigliosa Essaouira.
Un fascino irresistibile
Il Marocco è l’Italia del Nordafrica, policentrico per storia e vicissitudini; con le sue città ad affacciarsi a specchio tra di loro, raccontando ciascuna la propria storia. Magnetiche nell’attrarre dall’Europa e dagli States pittori, romanzieri, drammaturghi, poeti, fotografi, attori, cineasti, couturier e musicisti. Tra i nomi più celebri: Eugène Delacroix, Henri Matisse, Paul Bowles, Tennessee Williams, Catherine Deneuve, i grandi della beat generation, come Ginsberg e Kerouac, le star del rock, come Bob Dylan, Cat Stevens e i Rolling Stones. Le ragioni di tanta popolarità? Il fascino dei luoghi e delle genti, la tavolozza dei colori (paesaggi, edifici, abiti…), la mutevolezza degli scenari umani e architettonici, un genius loci avvertibile e trasmissibile, una tolleranza difficilmente riscontrabile in altri paesi musulmani. Per tutti il Marocco era un’esperienza immersiva, mai un viaggio di superficiale esotismo.
Un Paese, più lingue
Il rapporto con l’Occidente, per quanto segnato dal colonialismo, ha seguito strade tortuose e fasi di ambiguità. Il Marocco, nel 1777, fu il primo stato al mondo a riconoscere gli Stati Uniti e, formalmente, mantenne la propria indipendenza anche durante la dominazione francese che, per un secolo e mezzo, esercitò la formula del protettorato. Economia, cultura e turismo legano i due paesi, insieme alla garanzia di una politica stabile e alla diffusa sicurezza per i viaggiatori. La conseguenza più evidente di questa liaison è uno stato arabo bilingue, dove il francese è il parlare della scienza e delle arti, del commercio e dell’affermazione sociale. In molti casi, anche tra di loro, i nativi lo mescolano all’arabo e al berbero, creando, inconsapevolmente, una lingua nuova, quella di un futuro a cavallo tra due continenti.
Perché Marrakech?
L’Europa ha in Marrakech la sua porta d’ingresso privilegiata per il turismo in Marocco. Negli ultimi dieci anni la città ai piedi dell’Atlante (60 chilometri), ma prossima all’Atlantico (150 chilometri), ha superato le altre mete per il suo suggestivo e insolito patrimonio, dove coesistono monumenti arabo-andalusi e quartieri di eleganza occidentali, il suq (o souk) dove smarrirsi e il silenzio dei riad. Ma l’aspetto forse più seducente è quello charme franco marocchino che la distingue da ogni altra destinazione nel paese, un esotismo di prossimità che ha ingentilito il contesto senza tradirlo, la possibilità di immergersi in una realtà fascinosa e leggendaria senza alcuna ragione di inquietudine. Molti europei, e naturalmente molti francesi, l’hanno scelta per la seconda casa, altri si sono trasferiti dedicandosi al turismo: tour operator, agenti di viaggi, proprietari di riad, la formula alloggio più ricercata.
Cos’è un riad?
Originariamente si intende un’abitazione “spontanea” tradizionale, edificata nei centri storici (le medine) e formata da diversi ambienti, disposti su livelli differenti, a volte organizzata su più case. Quasi sempre sono presenti cortili interni, con al centro una fontana e ricchi di vegetazione. Le decorazioni e la dimensione delle stanze dipendono dalla ricchezza dell’abitazione. Quello che è comune in tutti i riad è la “prospettiva interna”: finestre e balconi si aprono esclusivamente sul cortile, per assicurare riservatezza e isolamento dai rumori circostanti. Per secoli i riad hanno ospitato nuclei familiari, solo più recentemente sono stati trasformati in strutture recettive, con un numero limitato di camere a disposizione. Esistono ancora strutture tradizionali, a gestione marocchina, ma non mancano lussuosi boutique hotel, con servizi esclusivi e piscina interna. In assoluto sono la formula migliore per alloggiare a Marrakech ed Essaouira – le nostre due mete del viaggio – perché garantiscono l’immersione nel centro storico, la rilassante presa d’atto coi ritmi domestici di una civiltà antica e accogliente, evitando l’impatto globalizzato di hotel sempre uguali in ogni destinazione.
Marrakech ed Essaouira
Torniamo quindi alle nostre “città a specchio”. La porta del deserto e quella aperta sull’oceano, l’anarchia moresca e la “ben disegnata”, i commerci dal deserto e quelli col mare, l’imperiale e la cosmopolita, la città del rosso e quella del blu, Marrakech ed Essaouira. Le separano 180 chilometri, meno di tre ore in auto, e il colore ne segnala la differenza. Già, il blu e il rosso, che non sono complementari, ma, insieme o a contrasto, fanno sempre la differenza. Pura suggestione estetica? Ben altro, perché i colori riflettono ciò che siamo, ciò che i luoghi sono, e lo fanno senza bisogno di parole. Inoltre non tutti hanno il medesimo, carismatico, successo. Come il rosso e il blu, da sempre nella Champions League della tavolozza: sono i più presenti nelle bandiere del mondo, nelle maglie del football, nella moda e nell’arte garantiscono il successo. E c’è anche una base scientifica. Nel 2013 Philip Hook, senior painting specialist di Sotheby’s, ebbe modo di scrivere: «Il rosso e il blu tendono ad essere buone notizie, perché sono in grado di far levitare le quotazioni di un’opera, abbinati e non». Ne seguì un test, che dimostrò come la presenza esclusiva dei due colori ottenesse un gradimento superiore fino al 14%. Cromatismi dalla forte personalità quindi, e, in questo caso, per storia e per destino, esibiti da due città “poste a specchio”. Il rosso, a Marrakech, e il blu, a Essaouira, tinteggiano le città, indicando persino il loro confine: a metà strada il colore delle case cambia, e la tonalità dominante annuncia la nuova meta. Oggi il viaggiatore alla ricerca di una dimensione araba genuina ma confidente, con un touche française nell’offerta, con due dimensioni prossime ma contrapposte, sceglie di trascorrere una settimana tra Marrakech ed Essaouira. I voli dall’Italia verso l’aeroporto di Menara, la nostra città imperiale, sono frequenti quanto economici (quasi irrisori se si prenota con ampio anticipo); durata della tratta: tre ore e un quarto.
Prima tappa: Marrakech
La “città rossa”. Innanzitutto per il colore dei suoi edifici, che ne ostentano tutte le sfumature: vicino al bruno e al mattone, aranciato, tendente al rosa, e poi tonalità più leggere, più accese, in qualche caso prossime al cuoio. In tempi recenti le regole urbanistiche si sono fatte stringenti, per gli edifici della medina, e per i periodici restauri, si può utilizzare esclusivamente la terra rossa della regione. Garantendo un brand urbanistico che rispetta anima e tradizione dei luoghi. Il programma della nostra visita prevede tre scelte irrinunciabili: soggiorno in un riad della medina (ampia offerta per ogni budget), almeno mezza giornata (ma sarà sempre di più) nel suq straripante di ogni possibile tentazione (stoffe, artigianato, antiquariato di pregio, ovviamente cianfrusaglie, ma poi spezie, datteri, complementi d’arredo, ceramiche, tappeti, dipinti, abiti tradizionali, babbucce, gioielli, gran bella pelletteria…); dopo una serata nella piazza Jamaa el Fna, prima per godersi il tramonto e dopo a mangiare street food; terza tappa, una visita ai meravigliosi Giardini Majorelle, dove vi accoglierà lo spirito di Yves Saint Laurent, padrone di casa ora e per sempre.
Istruzioni d’uso per il bazar e per piazza Jamaa el Fna
Iniziamo con una considerazione sui prezzi da tenere bene a mente: in Marocco esistono due corsie, quella dei residenti e un’altra, la vostra. La differenza è sostanzialmente di uno a sei, ma può arrivare fino a dieci. Chi vive a Marrakech spende circa il venti per cento di un europeo per case, affitti, servizi, cibo, abbigliamento. Ma naturalmente i marocchini guadagnano anche molto meno. E tutto si allinea. Quindi i commercianti locali offrono la loro mercanzia a prezzi per noi molto abbordabili, ma che restano esorbitanti per valore assoluto. A questo va aggiunta la cultura della trattativa, e nel suq non troverete mai un prezzo esposto. La prima cifra che ascolterete non va neanche presa in considerazione, e da lì inizia il gioco. Siate cortesi, ma non temete di offendere proponendo un terzo o anche meno. Si fa così. E si va avanti a lungo, molto a lungo, magari sorseggiando un tè. Quando avrete concluso tutti saranno soddisfatti, nella maggior parte più loro di voi. Altro consiglio: se vedete qualcosa che vi piace passate subito all’azione, non pensate di tornare più tardi, quel posto lì non lo troverete più, perché nella medina ci si perde che è una meraviglia, anzi, più si cerca qualcosa e più ci si perde. Spezie e datteri (in particolare i datteri) vanno comprati in piazza, nelle infinite bancarelle alimentari: i prezzi si alzano un po’, ma la qualità è decisamente migliore. Il Marocco è la nazione al mondo che produce maggiore artigianato, quindi l’offerta – al netto degli inevitabili artefatti cinesi – è praticamente infinita. Inoltre il suq crea dipendenza, cattura gli occhi e la curiosità a ogni metro, dilatando il tempo in modo inimmaginabile. Pensi di esserci da trenta minuti e sono passate due ore… Quindi selezionate, datevi delle regole, stabilite degli obiettivi; altrimenti riempirete le valigie con prodotti di dubbio gusto destinati all’oblio della soffitta. Naturalmente vanno evitati gli approdi consigliati dalle guide (percepiscono sempre percentuali sui vostri acquisti…), garanzia certa per pagare di più ciò che siete in grado di scovare da soli. Per il resto buona caccia, i tesori (piccoli e grandi) ci sono ancora ma vanno trovati.
E ora i miei suggerimenti per piazza Jamaa el Fna. Ci si passa ogni giorno, ed è sempre una buona idea. Al mattino e al pomeriggio vi troverete al centro di un palcoscenico a cielo aperto, frequentato da artisti di strada, chiromanti, scrivani, questuanti, erboristi, ammaestratori di scimmie, esorcisti e incantatori di serpenti. Perpetua fontana d’arte, dramma, poesia, invenzione, canto e magia. Ci sono venuto la prima volta venticinque anni fa e non era ancora asfaltata; sicuramente più ancestrale e genuina di oggi, nel suo spettacolo quotidiano più prossima a quel crocevia di carovane che l’hanno disegnata nei secoli. I tempi sono diversi, ma l’anima di Jamaa el Fna è tenace, così l’incanto non si è spezzato. Dopo l’esplorazione nel suo caos pittoresco concedetevi uno sosta nei caffè e nei ristoranti che la osservano dall’alto; saranno anche approdi per turisti, ma permettono un momento di quiete per osservare, fotografare, respirare a pieni polmoni qualcosa che vedrete solo li. Verso sera il cielo è una tavolozza che passa dall’arancio al rosso, dal celeste al blu notte, quando si accendono migliaia di lucine a illuminare le bancarelle del maggiore festival di street food al mondo, l’unico attivo da 1000 anni. Naturalmente vi chiameranno a gran voce, tenteranno di attrarvi con ogni espediente, perché siete la loro preda. Ma è un disturbo di facciata, con un minimo di fermezza non andranno mai oltre. Certo è una serata “non per tutti”; d’altra parte se avete scelto Marrakech invece di Zurigo ci sarà un perché. Il cibo è ruspante ma buonissimo, il continuo servizio garantisce ragionevole freschezza, il contesto indimenticabile.
Un po’ di cultura
L’offerta culturale della “ville rouge” è garantita dal suo passato “imperiale”, che ha mille anni di storia, con un complesso accavallarsi di dinastie. Le tracce più evidenti si incontrano in alcuni edifici monumentali di sontuosa bellezza: la Madrasa (scuola coranica) di Ben Youssef, capolavoro dell’architettura arabo andalusa; il Palazzo El Bahia, dove non c’è metro quadrato che non sia stato decorato; le Tombe sa’diane, la necropoli che custodisce la venerabile sala delle dodici colonne. Se state percorrendo il dedalo di vie della medina, e non vi siete ancora persi (occhio perché i navigatori degli smartphone tendono a impazzire…), provate a raggiungere la Maison de la Photographie, vera oasi di quiete e di cultura. In un bel palazzo a più livelli, dove il tempo sembra essersi fermato, si può ammirare una raccolta di foto che spaziano dalla metà dell’Ottocento agli Anni Cinquanta: sultani e fortezze nel deserto, carovane di cammelli e mercati, volti scavati dal sole e dalla sabbia, città che non ci sono più o non saranno mai più così. All’ultimo piano c’è una delle più belle terrazze che dominano il suq, con le sue vie attorcigliate, l’anarchia degli edifici, il vociare ininterrotto dei commerci. Prendetevi un tè e sentitevi Paul Bowles. Nello shop sono in vendita – a prezzi occidentali – riproduzioni su carta fotografica delle immagini migliori. Chi non le compra è destinato a pentirsene.
La ville nouvelle
Lasciamo la Marrakech della storia e dei traffici per raggiungere la “ville nouvelle”: quartiere residenziale, moderno, evidentemente ricco (almeno per gli standard locali), pulitissimo e ordinato. Le case sono quasi tutte bianche, ed è già un evidente segnale di differenza. Una Francia mediterranea trapiantata ai piedi dell’Atlante, dove la vera gemma sono i Jardin Majorelle, il luogo tanto amato dal suo figlio adottivo: Yves Saint Laurent. La storia di questo luogo di irreale bellezza è legata al pittore Jacques Majorelle, che concepì sia i giardini (ispirati a quelli tradizionali marocchini, ma anche alle tonalità dei pittori impressionisti) che la sfarzosa villa in stile moresco, per la quale creò il “Blu Majorelle”: una tonalità oltremare/cobalto, al tempo stesso intensa e chiara. Negli Anni Sessanta il sito venne progressivamente abbandonato, per essere riscoperto da Yves Saint Laurent e dal suo compagno Pierre Bergé, durante il loro primo soggiorno a Marrakech. La coppia comprò la tenuta nel 1980 e vi si stabilì, salvando questo patrimonio, rimettendolo a nuovo e, se possibile, arricchendolo ancora. Alla morte di Saint Laurent il suo compagno sparse le ceneri nel roseto del giardino; così quel luogo gli sarebbe appartenuto per sempre. Va detto che, con grande lungimiranza, la coppia donò l’intera proprietà alla Fondazione Pierre Bergé-Yves Saint Laurent, preservando il futuro da ogni possibile sorpresa. L’amore del couturier per il Marocco non si espresse mai nella prigionia di una villa irraggiungibile, ma fu vera passione per la sua civiltà. Che, in queste parole, riconosce come specchio dell’anima e fonte ispiratrice: «Quando ho scoperto il Marocco, mi resi conto che la gamma dei colori che usavo era quella delle zelliges, dei zouac, delle djellaba e dei caffetani. Da allora devo le scelte audaci nel mio lavoro a questo paese, alle sue armonie potenti, alle sue combinazioni ardite, all’ardore della sua creatività». Attualmente Majorelle ospita il Musée Pierre Bergé des Arts Berbèrese, il Museo d’Arte Islamica di Marrakech e, in un nuovo edificio, in cemento e terra battuta, concepito dallo Studio KO, il Musée Yves Saint Laurent de Marrakech. Tutti e tre bellissimi, degni dell’iconico giardino. Lo shop è il migliore di tutta la nazione, squisiti pezzi d’arte e artigianato selezionati uno ad uno. Prezzi come in Avenue Montaigne, ma non troverete niente di paragonabile. Difficile lasciare questo luogo e non esistono definizioni attendibili per Majorelle, piuttosto un insieme di concetti e attribuzioni: casa d’arte concepita come tale, abitazione amatissima di un genio assoluto della moda, luogo altrettanto amato da uno dei più sofisticati collezionisti del Novecento, approdo “fuori dal mondo”, consacrato all’amor fou dei due proprietari. Direi che basta così, se cercate il paradiso terrestre nel Maghreb questo è l’indirizzo.
Gli Anima Garden
Più volte classificati tra i giardini più belli al mondo, distano quaranta minuti d’auto da Marrakech, verso la splendida valle d’Ourika e i monti dell’Atlante. A conceprili l’artista austriaco (ma anche poeta e compositore) André Heller. Tra statue (alcune gigantesche), collocate nel verde, ci si immerge in un mondo di magia, sensualità e meraviglia. Gli Anima Garden sono stati battezzati “Le Retour du Paradis”, corretto, come emblematico il fatto che non siano il riflesso di alcuna civiltà in particolare; superando d’un balzo religioni, attribuzioni e culture.
Marco Biaggi
In un viaggio ci sono incontri che fanno la differenza, però vanno cercati altrimenti non arrivano. Per me uno di questi è stato con Marco Biaggi, italiano, proprietario del Riad Infinity Sea, luogo incantato e incantevole nel cuore della medina. Marco è un’ottima idea sia per la bellezza e la comodità della sua struttura, sia per chi volesse chiedere consigli, organizzare tour e altro. Noi a Marco abbamo chiesto due consigli gourmet per un soggiorno a Marrakech: «Se volete trascorrere una serata da “Le mille e una notte” l’indirizzo giusto è il ristorante La Maison Arabe, in un bel palazzo nel cuore del centro storico: grandi sapori con musica tradizionale di sottofondo. Al Medina Atay Café si mangia benissimo a ogni orario. La cucina delle donne marocchine è deliziosa. I prezzi assai contenuti».
Seconda tappa: Essaouira
Adesso è il momento di puntare verso il blu: quello del cielo conteso dalle nuvole, delle onde a perdita d’occhio in prospettiva oceanica, delle barche dei pescatori, delle case che cominciano a “pensare” al mare quando al mare non ci siete ancora arrivati. Non c’è niente come Essaouira: cosmopolita e marinara, nei secoli cartaginese e romana, araba ed ebraica, lusitana e francese, questa è la leggendaria Mogador, che leva i suoi bastioni (e gli antichi cannoni) verso lo sconfinato Atlantico. A Marrakech tutto parla della sua terra rossa, qui domina il blu profondo delle pennellate marinare. Un blu associato al bianco, in un cromatismo che ha il sapore del mare e delle nuvole. La sua storia è un romanzo, scritto dalle dominazioni successive, dove i conquistatori hanno sempre lasciato qualcosa. Ma furono i francesi a trasformarla in una fortezza, disegnata dall’architetto militare Cornut – su commissione del sultano Muhammad III – e realizzata in soli tre anni, a partire dal 1764. Da quel momento l’antica Mogador cambiò nome, diventando Essaouira, la “ben disegnata”. Un ibrido urbanistico con la medina stretta dalle mura, dove le bocche da fuoco erano rivolte verso il mare, un monito per pirati e invasori. La ricchezza terminò con l’inizio del Novecento, quando le rotte carovaniere non raggiunsero più il suo porto per prendere la via dell’Oceano. Così Essaouira venne dimenticata: una bella addormenta in attesa di nuove vocazioni. Tutto cambiò con gli Anni Sessanta e l’arrivo in città di Jimi Hendrix, Frank Zappa, Bob Marley, Sting e una variopinta comunità hippy al loro seguito. La ragione? Il fascino del luogo, ma anche la musica gnawa, introdotta in Marocco dagli schiavi africani. Nacquero jam session, concerti, avventure lisergiche e artistiche, celebrate dal grande festival di giugno, ancora oggi in calendario. Ma prima di loro giunse ad Essaouira il leggendario registra Orson Welles, che vi girò buona parte di uno dei suoi capolavori: l’Otello tratto da Shakespeare. Ancora oggi questa è una “città aperta”. Gli ebrei, che restano una comunità numerosa, agli inizi del XX secolo erano la maggioranza degli abitanti: 17.000 contro meno di 10.000 mussulmani. E i cristiani, che di fatto non se ne sono mai andati, rappresentano la terza comunità di Essaouira: operatori del turismo, artisti, nuovi residenti alla ricerca di un luogo speciale.
Cosa fare a Essaouira
I consigli per un soggiorno in città sono semplici: passeggiata lungo i bastioni, flanerie nella kasbah, indolente ricerca di artigianato artistico, tra i migliori del Marocco, con oggetti di pregio quasi esclusivamente autoctoni. Ma c’è un luogo che vi resterà per sempre nel cuore: il piccolo porto affollato di battelli in legno biancoazzurri, dove un esercito di gabbiani sorvola l’area disegnando nel cielo traiettorie irresistibili. Che siate fotografi professionali con una Leica da diecimila euro, o semplici viaggiatori con lo smartphone, è impossibile sbagliare: si guarda e si scatta, ma potreste ottenere il medesimo risultato a occhi chiusi. Un capitolo a parte meritano i gatti di Essaouira: sono 5000 nella kasbah, più altri 8000 fuori dalle mura. Un record mondiale, calcolando che gli abitanti sono 78.000. Ma c’è molto di più. I gatti sono residenti a pieno titolo, indipendenti quanto amatissimi, sereni e confidenti, amichevoli coi visitatori al primo contatto. Li troverete per la strada, ma anche nelle vetrine dei commercianti, sui davanzali, sui tavoli e sui sofà. La leggenda dice che discendono, tutti o quasi, da un unico antenato, di grandi dimensioni, una sorta di leone domestico. Ci ha accompagnato in città Vincenzo Niggi, piemontese giramondo, che qui ha trovato il proprio approdo ideale: «È proprio così – ci racconta – ci torno ogni anno per due volte, ed è la mia seconda casa. Essaouira è rinata anche grazie agli italiani, con gli architetti dell’Università di Bologna che, nel 1997, hanno mappato tutto il centro storico; per poi restaurarlo con i fondi della Comunità Europea. Oggi la città non è solo bellissima, ma anche sicura, la sua atmosfera cosmopolita garantisce ad arabi, ebrei e cristiani di vivere fianco a fianco. Senza alcun tipo di problema. Poi per chi, come me, ama i gatti è un vero paradiso. I miei si manifestano appena arrivo, nemmeno io ho capito come fanno». Ci dai qualche consiglio per un soggiorno ad Essaouira? «Innanzitutto va ricordato che i prezzi sono estremamente favorevoli. Si mangia con 15 euro e le stanze nei riad costano mediamente 30. La qualità dei ristoranti, la maggior parte dei quali è familiare, rappresenta sempre una buona sorpresa. Quasi tutti non hanno il frigorifero, ed è una garanzia, perché il cibo viene consumato in giornata ed è freschissimo. Per i ristoranti vi propongo quattro nomi, tutti nella Kasbah: Adwak, Berber, Chez Youssef El Baraka e Khmissa. Naturalmente non si consumano alcolici. Se invece volete bere il vino, potete optare per il più “lussuoso” Chez Sam. Dove un pasto costa 25 euro, per Essaouira una follia. Provate poi l’esperienza della musica gnawa. Venite ad Essaouira, perché ci tornerete senz’altro. Ad Essaouira si torna sempre».
In chiusura
Ecco il mio Marocco, dove il rosso danza con il blu, dove restarono incantati Orson Welles e Yves Saint Laurent, dove il porto di Essaouira e la piazza Jamaa el Fna vi tratteranno oltre il tempo necessario, dove le brezze oceaniche incontrano il sapore delle spezie. Nel Marocco delle due città “a specchio” il tempo non si è fermato, perché l’arte ha accompagnato la storia, destandosi ogni giorno sempre nuova.
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Itinerari insoliti sotto il cielo di Berlino
di SILVIA DONATIELLO
Berlino è una di quelle grandi città europee che uno dovrebbe visitare almeno una volta nella vita, per poi poterci ritornare il prima possibile. Quando si organizza un viaggio a Berlino, si pensa sicuramente al Muro di Berlino, alla Porta di Brandeburgo, al Reichstag, al Pergamon Museum, alla East Side Gallery, al Memoriale dell’Olocausto, ad Alexanderplatz e al famoso Checkpoint Charlie. E questo solo per citare alcune delle icone più rappresentative della città. Ma Berlino è molto di più. Berlino è sinonimo di contemporaneità, libertà, sperimentazione, storia, memoria e divertimento. Ogni volta la capitale tedesca presenta un volto diverso e un itinerario diverso a chi ha voglia di scoprire le sue mille sfaccettature.
Museo Urban Nation
Uno dei suoi tratti distintivi è la naturale apertura della città e dei suoi abitanti alla street art e, allo stesso tempo, il recupero storico dei suoi monumenti e il rapporto con la natura. In questo contesto è nato Urban Nation, il primo museo esclusivamente dedicato alla street art. Uno dei simboli di Berlino è l’essenza creativa e alternativa che abita ogni angolo della città e che va oltre le opere che ricoprono ciò che resta del muro nella East Side Gallery, poiché comprende angoli e muri che sono stati occupati da artisti sconosciuti e rinomati provenienti da tutto il mondo. La città è lo scenario perfetto per la creazione e l’apertura dell’Urban Nation Museum, il primo museo permanente di street art e graffiti. Situato nel quartiere di Schöneberg, nella parte occidentale della capitale tedesca, il nuovo centro espone le opere di oltre 200 artisti provenienti da ogni angolo del mondo e specializzati nello sviluppo di progetti artistici su muri, edifici e spazi pubblici. Con nomi di spicco come Schepard Fairey, Olek, Fintan Magee o Lora Zombie, Urban Nation nasce all’insegna del motto “Connettere, creare, proteggere”, con l’obiettivo di essere uno spazio, un palcoscenico e un riferimento per l’arte urbana, e quindi di promuovere e mettere in contatto gli artisti con il loro pubblico, sia berlinese che straniero.
La Cittadella di Spandau
Seguendo sempre questo concetto di recupero storico e creatività alternativa, consiglio di visitare, a nord della città, la Cittadella di Spandau, che si trova sulle rive del fiume Havel. La fortezza è considerata una delle strutture militari risalenti al Rinascimento meglio conservate di tutto il continente europeo. Se siete tra coloro che cercano la storia dell’architettura nelle vostre visite, questo sito vi piacerà, perché ospita l’edificio più antico di questa parte della Germania, la Torre di Giulio, costruita nel XIII secolo. Tuttavia, il resto della cittadella fu realizzato nella seconda metà del XVI secolo, tra il 1559 e il 1594, sostituendo le strutture più antiche che si trovavano lì, ma lasciando la torre. L’intera struttura fu poi gravemente danneggiata durante gli attacchi napoleonici e dovette essere restaurata. La fortezza è composta da quattro bastioni, posti agli angoli dell’edificio in mattoni e intitolati al re, alla regina, al Brandeburgo e al principe. Durante il periodo buio del nazismo, la fortezza subì un destino infelice. A partire dal 1935, infatti, furono attivati qui laboratori di ricerca per la produzione di gas tossici, poi definitivamente bonificati solo nel 1976, quando ebbe inizio la trasformazione in museo. Nel corso degli anni successivi, i musei si sono moltiplicati e oggi è possibile visitare la torre e la cittadella, la sala da parata, dove sono raccolte vecchie armi e cannoni, i sotterranei con vista sulle fondamenta della fortezza e le lapidi di un cimitero ebraico medioevale, il museo della città di Spandau, i magazzini dei viveri con 100 statue originali, fra le quali spicca la testa di Lenin dalla statua di Friedrichshain, decapitata dopo la caduta del muro. È presente anche un centro di arte moderna, una cantina dove stazionano alcune popolazioni di pipistrelli e circa quaranta atelier di artisti contemporanei. Oggi questo luogo ospita diverse mostre storiche nel suo museo e spettacoli all’aperto, come il Festival musicale della Cittadella.
Tram storico Rahnsdorf-Woltersdorf
Se si ha voglia di fare un altro viaggio nel tempo e nella natura, il tram storico Rahnsdorf-Woltersdorf offre un affascinante percorso tra Berlino e Brandeburgo, attraverso paesaggi incantevoli e suggestivi. Questa linea di tram, inaugurata nel lontano 1913, è rimasta fedele al suo percorso originale, permettendo ai passeggeri di godere di un’esperienza autentica e nostalgica. Il viaggio ha inizio dalla tranquilla località di Rahnsdorf, situata al lato della foresta di Berlino. Da qui, il tram attraversa i suggestivi paesaggi naturali, offrendo ai passeggeri la possibilità di immergersi nella bellezza della campagna brandeburghese: boschi, campi verdi e il fiume Spree che scorre placido nelle vicinanze, durante il tragitto di circa 20 minuti. Il percorso è rimasto invariato nel corso degli anni, mantenendo intatto il suo fascino d’epoca. È una testimonianza vivente della storia del trasporto pubblico nella regione. Per raggiungere Rahnsdorf e salire a bordo del tram, è possibile utilizzare la linea S3 in direzione Erkner. L’intero percorso del tram appartiene alla zona C, quindi con i biglietti validi per questa zona si può viaggiare lungo questa affascinante linea.
Quartieri e luoghi insoliti
Berlino è cosmopolita, ricca di diversità culturali, aperta a ogni tipo di idea e modo di pensare. È un bastione della cultura alternativa e sperimentale, e basta fare una passeggiata nei quartieri più fuorimano per scoprire che se si è alla ricerca di qualcosa di diverso, qui c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Friedrichshain-Kreuzberg
Il quartiere di Friedrichshain-Kreuzberg rappresenta l’epicentro della modernità a Berlino. Il risultato della fusione dei quartieri di Kreuzberg e Friedrichshain nel 2001 ha creato una vibrante e dinamica area urbana che attira una variegata comunità di residenti e visitatori. Kreuzberg porta con sé un’atmosfera bohémien, con la presenza di studenti e artisti che conferiscono al quartiere un’aura creativa e alternativa. Dall’altra parte, Friedrichshain è rinomato per ospitare la più alta densità di club della città, rendendolo il cuore pulsante della vita notturna berlinese. In questo quartiere, ogni angolo risuona di energia e creatività. Musicisti di strada intrattengono i passanti, spazi creativi e gallerie d’arte emergono in ogni direzione e l’atmosfera vivace è palpabile in ogni momento della giornata. Kreuzberg è il luogo ideale per immergersi nella cultura hip-hop, indie e pop, con una varietà di locali che offrono una vasta gamma di esperienze musicali.
RAW-Gelände
RAW-Gelände, situato nelle vicinanze di Friedrichshain Kreuzberg, merita una menzione speciale. Origina riamente quest’area industriale era dedicata alla riparazione dei treni, oggi è stata trasformata in uno spazio dedicato al tempo libero, alla cultura e all’arte all’aperto. Di notte, questo luogo prende vita con feste animate ed eventi culturali, offrendo un’atmosfera vibrante ed energica. Inoltre, se si vuole vivere un’esperienza unica si può ballare (sfido chiunque a riuscirci) nella Teledisko, una cabina telefonica trasformata nella discoteca più piccola del mondo. I graffiti sono una parte integrante dell’identità di RAW-Gelände, con i murales di Cassiopea che rappresentano un punto di riferimento per gli amanti della street art. Questo luogo eclettico e vivace è diventato una tappa imprescindibile per scoprire la creatività e l’effervescenza della scena culturale di Berlino.
Kulturbrauerei
Nel cuore del quartiere di Prenzlauer Berg sorge la Kulturbrauerei, un’affascinante enclave culturale nata dalla riconversione di una storica birreria del XIX secolo. I suggestivi edifici in mattoni rossi, risalenti a quell’epoca, sono stati riportati al loro antico splendore negli anni ’90, trasformandosi in uno spazio dinamico e poliedrico che ha rapidamente conquistato il cuore della città. L’iniziativa di riqualificare questi edifici ha riscosso un tale successo che la Kulturbrauerei è ora un punto di riferimento imprescindibile per la scena culturale di Berlino. Questo vasto complesso, composto da 12 edifici e vari cortili, ospita una miriade di attività che spaziano dal teatro alla letteratura, dalla gastronomia alle mostre, dagli eventi ai concerti, dallo sport alla vita notturna. Con una tale varietà di proposte culturali, consiglio vivamente di tenere d’occhio il sito web della Kulturbrauerei per rimanere costantemente aggiornati sulle ultime novità e gli eventi in programma.
Il Mauerpark
Letteralmente traducibile come “parco del muro”, occupa lo spazio dove un tempo sorgeva il muro del 1961, che separava l’ex area di Prenzlauer Berg da Wedding. Durante la settimana, questo parco è un’oasi di tranquillità e relax, ma nei fine settimana si trasforma in un vivace centro di attività e intrattenimento. Qui è possibile immergersi nell’atmosfera frenetica e colorata del mercato delle pulci, assistere a partite di calcio, basket e bocce, osservare giocolieri che intrattengono il pubblico con le loro abilità, godere della musica dal vivo o, perché no, partecipare a qualche divertente karaoke. Il Mauerpark è diventato così un luogo iconico di Berlino, apprezzato sia dai residenti che dai visitatori, che desiderano vivere il ritmo più rilassato e informale della città.
Unterwelten berlinese
E finiamo sottoterra, non il modo più tradizionale per concludere un viaggio. La capitale tedesca vanta più di 3.000 bunker sotterranei, testimonianza della Seconda guerra mondiale e della Guerra fredda. Oggi è possibile esplorarne alcuni, per comprendere la loro costruzione, il loro utilizzo e la vita sotterranea che li ha caratterizzati. Le visite guidate offrono l’opportunità di immergersi in questo mondo oscuro attraverso diverse prospettive. Mondi nell’oscurità, Bunker della Seconda guerra mondiale, Bunker, sotterranei e Guerra fredda e Fughe sotto il muro di Berlino sono solo alcune delle opzioni disponibili. Si possono acquistare i biglietti anticipatamente presso Berliner Unterwelten. Esplorare i bunker sotterranei di Berlino è un’esperienza decisamente insolita, decisamente dark, ma tra le “cartoline ricordo” che uno si porta a casa da un viaggio costituisce sicuramente un unicum indimenticabile.
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La Ristoguida in breve: 50 tra i migliori ristoranti di Torino e dintorni
Al Cacimperio
in via Lamarmora 17
Ottimo posto per mangiare carne su griglia a Torino. Al Cacimperio è un grande classico, con tagli di carne pregiata italiani e dal mondo, e la griglia a centrotavola.
Andirivieni
in via Edoardo Rubino 43
Socialità, inclusione, buona cucina. Questo ristorante all’interno di Cascina Roccafranca è un’ottima osteria etica in cui mangiare ricette contemporanee e ben fatte.
Antonio Chiodi Latini
in via Bertola 20
Uno dei migliori ristoranti in città per degustare cucina vegetale d’alto livello. Complice la mano di chef Antonio Chiodi Latini, il cuoco della terra. Prezzi un po’ elevati, ma vale l’esperienza.
Azotea
in via Maria Vittoria, 49
Il miglior abbinamento cocktail-piatti d’Italia. Lo dice il Gambero Rosso. La cucina nikkei, ovvero giapponese-peruviana di chef Robles è già un cult torinese.
Barbagusto
in via Belfiore 36
In San Salvario una piola gestita da giovani, un luogo di risate e belle accoglienze, di cucina semplice e spontanea. Una trattoria urbana di cucina piemontese, con il giusto mood.
Bifrò
in via Mazzini 23
Tra le 21 migliori steakhouse d’Italia una è a Torino, ed è Bifrò. Prezzi medio-alti, ma qualità della carne veramente spaziale.
Caciucco
in via Amedeo di Castellamonte 2 a Venaria Reale
Il ristorante Caciucco si è spostato a Venaria, ma la formula vincente è sempre la stessa. Menù degustazione originale, divertente, con tanto pesce e soprattutto tante idee.
Caffè dell’Orologio
in via Morgari 16
Altra piola in San Salvario, un luogo da vivere tutto il giorno, con una cucina schietta e per certi versi d’altri tempi. Prezzi e cucina onestissimi: un’ottima idea per una trattoria semplice in cui mangiare bene.
Cannavacciuolo Bistrot
in via Umberto Cosmo 6
Antonino Cannavacciuolo non ha bisogno di presentazioni. Questo è il suo bistrot torinese. Emanazione della leggenda che ormai avvolge lo chef campano. Ha una stella Michelin, e quindi merita l’esperienza.
Carignano
in via Carlo Alberto 35
Una stella Michelin per il ristorante Carignano e quel geniale chef che è Davide Scabin. Uno dei più talentuosi chef italiani di sempre. Fiore all’occhiello di Torino.
Coco’s
in via Bernardino Galliari 28
Una delle ultime piole vere e veraci di Torino. Affianco al mercato di piazza Madama. Una trattoria urbana capace di attraversare le epoche e affascinare con la propria poetica semplicità. E con il gusto.
Condividere
in via Bologna 20
Condividere è stato sicuramente per un po’ di tempo uno dei più interessanti ristoranti in città. Un format nuovo, di condivisione appunto, curato dall’estro di chef Zanasi. Una meritata stella Michelin.
Contesto Alimentare
in via Accademia Albertina, 21
Ristorante piccolo, intimo, in centro città, che Francesca e Matteo hanno portato nel tempo a essere uno dei più amati dai torinesi. Piatti semplici ma curatissimi, e tanto gusto. Un cult? La panna cotta alla lavanda.
Cucina cinese
in via Madama Cristina 113
Cucina cinese di nome e di fatto. Vera, verace, a prezzi onestissimi. Niente a che vedere con la cucina cinese commerciale che si trova solitamente in giro. Per gli amanti del genere è un posto top.
Da Gino Pizzeria
in via Monginevro 46
Dovevamo scegliere una regina delle pizze al padellino di Torino. Non è facile. Ci sono Cecchi in via Nicola Fabrizi. C’è Da Michi in via San Donato. Il Cavaliere in corso Vercelli. E tanti altri. Ma per noi la pizza al tegamino, gloria e vanto di Torino, è da Gino in via Monginevro. Dove anche la farinata è spettacolare.
Del Cambio
in piazza Carignano 2
Forse una delle location più belle della città. Qui veniva a mangiare Cavour. E qui oggi cucina Matteo Baronetto, chef con una stella Michelin, e fiero alfiere della cucina piemontese d’alta classe.
Dolce Stil Novo
in piazza della Repubblica 4 a Venaria Reale
Dal 1994 chef Alfredo Russo è stellato Michelin, e dentro la Reggia di Venaria da trent’anni propone una cucina d’alta gamma, curata, intelligente e innovatrice quanto basta.
Felicin alla Consolata
in piazza della Consolata 5
Affianco al caffè del Bicerin. Venite qui per mangiare a pranzo i tajarin al ragù. Oppure per un aperitivo con calice di vino e crostini piemontesi. Felicin a Torino è la Langa in formato bistrot.
Gardenia
in corso Torino 9
Mariangela Susigan è una chef geniale. Con grande attenzione alla cucina green, e soprattutto con notevole talento, che le è valso una stella verde Michelin. Vale l’esperienza, specie per il menù degustazione.
Griglio
in via Lanzo 57
Capostipite del format delle macellerie con cucina. Per gli amanti della buona carne cotta su griglia (spiedini, costine, bistecche…) questo posto è praticamente il paradiso.
Il Barbabuc
in via Principe Tommaso 16
Ristorantino intimo di cucina piemontese, con qualche incursione da altre culture gastronomiche. In cucina chef Alberto, giovane, bravo e giramondo. Un posticino dai gusti molto interessanti.
Kadeh Meze Wine Bar
in via della Basilica 1
Meze e wine significa tipo mangia e bevi. Ecco quindi un tapas-bar turco nato dall’estro e della determinazione del giovane chef Stefan Kostandof, che ha consegnato a Torino un locale nuovo, fresco e intrigante.
Kenshō
in via dei Mercanti 16
Secondo noi il miglior ristorante giapponese di Torino. Prezzi un po’ alti ma nel complesso giusti per una cena che diventa non solo un’occasione di gusto, ma una vera esperienza di sensazioni che una volta almeno bisogna provare.
Kirkuk Kaffe
in via Carlo Alberto 16
Approdo sicuro per chi volesse gustarsi un po’ di sana cucina curda. Un bel viaggio tra sapori e soprattutto profumi del Medio Oriente. Tra spezie, tante verdure, ottimo tè e dolci sfiziosi.
L’Ancora
in via della Rocca 22
Andate qui per la buona cucina di pesce. Specie se crudo. Ma anche per gli ottimi primi o le spadellate di gamberi e piatti simili. Prezzi medio-alti, ma L’Ancora non si discute. Sempre un ottimo consiglio.
La Credenza
in via Cavour 22 a San Maurizio Canavese
Una stella Michelin per uno dei ristoranti stellati più famosi e storici della città. Un breve fuoriporta vi porterà in un vero tempio dell’alta cucina del territorio.
La Ferramenta del Gusto Emiliano
in via Giacosa 10
Il miglior posto in città in cui mangiare cucina emiliana. Quindi lasagne, tagliatelle, salumi… Un nome, una garanzia, che nel tempo si è ritagliato parecchio spazio a Torino.
La Taverna di Frà Fiusch
in via Beria 32 a Moncalieri
In realtà questa taverna è a Revigliasco. Ed è un bel ristorante, con una mentalità da trattoria. Quindi piatti curatissimi, ma autentici, e quasi tutti della tradizione di campagna piemontese.
Le Ramine
in via Isonzo 64
La definiremmo una bella trattoria torinese di classe e di quartiere. Che esalta al meglio dimensione “popolare” e allo stesso tempo una naturale eleganza. Il tutto non propriamente in centro città.
Madama Piola
in via Ormea 6
Piola di lusso in San Salvario. E non perché sia cara, anzi il rapporto qualità-prezzo è eccellente. Ma perché porta le ricette delle piole torinesi in una veste e con una cura un po’ più alta. Un ottimo esperimento ben riuscito. E non era scontato.
Magorabin
in corso San Maurizio 61
Marcello Trentini, una stella Michelin, è stato per tanti anni lo chef più punk della città. E nonostante il tempo passi è sempre lì, tra nuove idee, ottima cucina e ambiziosi progetti.
Mollica
in piazza Madama Cristina 2
Questi panini sono stati nominati miglior street food del Piemonte nel 2022. e probabilmente quelli di Mollica Piccoli Produttori sono tra i panini oggettivamente più buoni della città. Componeteli da soli, o lasciatevi guidare da loro.
Opera
in via Sant’Antonio da Padova 3
Stefano Sforza è uno chef di quelli bravi. Che cucina con estro ed eleganza. In questo ristorante d’alta classe che strizza l’occhio alla stella Michelin.
Osteria Antiche Sere
in via Cenischia 9
Obbligatoria la prenotazione per quella che è una delle migliori trattorie della città. Premiatissima e con merito. I prezzi si sono un po’ alzati, ma tutt’ora sono in pochi a riuscire a raccontare il Piemonte così bene attraverso dei piatti.
Osteria Rabezzana
in via San Francesco d’Assisi 23
Luogo di vino (perché è anche enoteca), buona cucina e musica. Tanti concerti all’Osteria ed eventi interessanti, ma soprattutto l’ottima cucina del territorio di chef Giuseppe Zizzo, ormai piemontese d’adozione.
Pescheria Gallina
in piazza della Repubblica 14
Trovate Gallina anche in San Salvario, ma noi vi consigliamo il luogo in cui tutto è iniziato. A Porta Palazzo, per comprare o degustare pesce freschissimo. Beppe Gallina è oggi un vero cult cittadino.
Piola Da Celso
in via Verzuolo 40
Piola autentica in zona Cenisia. Popolare nei piatti e nei prezzi, ma sempre curata. Un successo da sempre, e infatti la folla ne è chiara dimostrazione. Necessario il giro di antipasti.
Ristorante Consorzio
in via Monte di Pietà 23
Storico Tre Forchette della guida del Gambero Rosso. Questo è il classico posto in cui mandi qualcuno se vuoi raccontargli la cucina piemontese fatta per bene. Consigliata la prenotazione.
Ristorante La Pista
al quarto piano del Lingotto
Si tratta del ristorante sul tetto del Lingotto. La cucina di chef Alessandro Scardina strizza l’occhio alla stella Michelin con menù degustazione da fuochi d’artificio. Lui è bravo, giovane e consigliato.
Ristorante Larossa
Via Sabaudia 4
Chef Alessandro Larossa è giunto a Torino portandosi la stella Michelin. Uno dei re dei risotti del Piemonte si è piazzato a in città dunque, con tanta voglia di fare bene.
Scannabue
in largo Saluzzo 25
Sicuramente nella top 5 dei ristoranti in cui mangiare il buon Piemonte a Torino. Laurea ad honorem per la guancia brasata, la battuta di fassona e il bunet.
Sestogusto
in via Mazzini 31
Non la solita pizza, non le solite farine o le solite offerte. Ecco una delle poche pizze che possiamo orgogliosamente definire gourmand. Per una pizza speciale Sestogusto è un’ottima idea.
Suki
in via Amendola 8
In realtà ha due sedi: quella più da ristorante è in via Ormea. Ma noi segnaliamo la formula pranzo in stile bento del Suki di via Amendola; perché è divertente, sa stupire e ha un prezzo onestissimo.
Sushi del Maslè
in via Mazzini 37
Il sushi di carne a Torino ha un nome: Sushi del Maslè. Qui è nata questa moda, che poi si è espansa (vedi il Sushi del Manzò di via Gramsci), ma il Maslè resta un solido punto di riferimento.
Taverna Greca
in via Monginevro 29
Nota di merito per Greek Food Lab in via Berthollet, ma per noi la cucina greca a Torino è la Taverna Greca in via Monginevro. Piatti ricchi, clima rustico, prezzi giustissimi. Proprio come in Grecia.
Trattoria della Posta
in strada Mongreno 16
Una delle trattorie più antiche di Torino, con la famiglia Monticone che dagli anni ’50 se ne prende cura. Cult il giro di antipasti, imprescindibili gli agnolotti, speciali i formaggi.
Trattoria Lauro
in via Airasca 13
Chi l’ha detto che la piola a Torino deve proporre solamente insalata russa, vitello tonnato e battuta al coltello? Lauro è la piola torinese in formato cucina di pesce. Dagli spaghetti alle fritture. Meglio prenotare.
Unforgettable
in via Lorenzo Valerio 5
La tavola del talentuoso Christian Mandura vale la stella Michelin. Al centro c’è la cucina vegetale, ma soprattutto l’estro di un giovane chef prodigio diventato ormai grande. Unforgettable è un’esperienza sensoriale a tutto tondo.
Vale un Perù
in via San Paolo 52
La cucina peruviana a Torino si mangia in molti luoghi meritevoli di nota. Ma se dobbiamo sceglierne uno, diciamo il papà di tutti gli altri. Per noi il top del top: Vale un Perù. Ceviche, pisco e maracuja al massimo della forma.
Vintage 1997
in piazza Solferino 16
La stella Michelin più longeva di Torino, da oltre vent’anni. A volte è uno snobbato, ma se il Vintage si riconferma ogni anno è perché se lo merita. Un grande classico della cucina torinese.
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A spasso per Torino. Michelangelo Pistoletto
di SANDRO CENNI
È uno dei maestri del ’900 a cavallo dei due secoli, talentuoso, geniale, instancabile e con la missione di tramandare un’idea di arte nuova. Quando ha scoperto l’arte moderna e con temporanea ha capito che si poteva usare qualunque parte del passato per proporre qualcosa di nuovo per il futuro, diventando così uno degli artisti contemporanei più importanti della sua generazione, esponente di spicco dell’Arte Povera. Comprende che il vero potere era nello specchio, senza non ci si può vedere e riconoscersi, vi entri e non sei solo, insieme a te ci sono tutte le persone che ti circondano, tutto entra nello specchio, ‘entri’ e fai parte della rappresentazione del mondo. Ha lavorato tanto nelle città, facendo anche teatro per strada e coinvolgendo il pubblico. “Poi mi sono reso conto che era necessario allontanarsi un po’ da tutto il frastuono e sono venuto qua nella montagna”. Essere in una baita bellissima a San Sicario Borgo a chiacchierare con Michelangelo Pistoletto, uno di quegli artisti che hai sempre seguito con un misto di stupore e ammirazione, è surreale.
Con questo articolo si conclude la nostra rassegna dei Best Off di Torino Magazine 2024. Grazie per averci seguito e arrivederci al prossimo numero del magazine (Speciale Territorio 2024, giugno) con tanti nuovi e interessanti contenuti.
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