Speciale Territorio 2024
In copertina, per questo numero di Torino Magazine Speciale Territorio 2024, c’è Annalena Benini, giornalista, nuova direttrice del Salone del Libro. Un Salone sempre più Fiera Internazionale del Libro, che diventa quindi simbolo dell’inevitabile confronto tra la città e il resto del mondo. Un concetto riassunto in un claim, che parla di oggi e soprattutto di futuro, perché questa è la direzione che immaginiamo per il nostro territorio: energie locali, orizzonti globali. Perché il domani di una città e delle persone che la abitano si costruisce sul territorio, per poi rivolgersi ben oltre. Mettendo al centro cultura, innovazione, dialogo tra generazioni diverse, formazione, internazionalizzazione, riqualificazione urbana, grandi eventi. Insomma energie locali e orizzonti globali. Tutte tessere di un sistema sinergico, complesso e inclusivo, non esclusivo; un sistema che il Salone e la direttrice Benini rappresentano, perché sono carte vincenti, perché parlano dell’identità di un territorio aperto al mondo, perché sanno essere un volto nuovo. Dietro di lei infatti, in questo speciale territorio, tante altre facce di una Torino disegnata con il pennarello del “come la vorremmo”, facce spesso giovani, rappresentanti case history eccellenti in ogni ambito.
Di seguito il best off degli articoli più interessanti di questo numero. Ecco quindi i punti di vista di due dei nostri editorialisti, Guido Barosio e Paolo Griseri; la cover story che racconta Annalena Benini attraverso le parole di Annalena in persona; le interviste a Francesco Costa, Dalia Rivolta, Annalisa Abdel Azim, Mathieu Jouvin e Cristiano Sandri; il viaggio del nostro direttore al centro d’Europa in una delle regioni meno conosciute del Belgio, la Vallonia; un altro viaggio, questa volta culturale e gastronomico, alla scoperta dell’izakaya; 50 tra i migliori ristoranti di Torino e dintorni selezionati dalla nostra Ristoguida; per concludere con l’immancabile scorcio su luoghi e personaggi insoliti di Torino.
Indice
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- I giovani, la città e l’arte della bella carta: editoriale di Guido Barosio
- Una Torino “per giovani” è ancora possibile: editoriale di Paolo Griseri
- Cover story dedicata ad Annalena Benini: dal Salone alla città
- Intervista a Francesco Costa: da Torino a Detroit passando per un grande Salone
- Intervista a Dalia Rivolta: Torino è come un tiramisù
- Intervista a Annalisa Abdel Azim e i ragazzi delle cuffie
- Intervista a Jouvin e Sandri: il racconto della nuova stagione del Regio
- Viaggio del direttore in Vallonia, al centro d’Europa
- Viaggio nel mondo dell’izakaya, con Donburi House
- La Ristoguida in breve: 50 tra i migliori ristoranti di Torino e dintorni
- A spasso per Torino: uno scorcio su piazza CLN
I giovani, la città e l’arte della bella carta: editoriale di Guido Barosio
Qualche volta osservare le città dal proprio punto di vista crea un fenomeno di evidente ambivalenza. Secondo l’Oxford Languages and Google, questo termine significa: «La coesistenza di due motivi o elementi dinamici diversi ma non necessariamente contrastanti». E il residente metropolitano – all’alba di un’era in cui il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città – ne è vittima inconsapevole. Spesso “punendo” il proprio luogo di residenza all’insegna degli stereotipi: a Torino non ci sono più i giovani, a Torino manca il lavoro, ma anche Torino è sporca, in buona parte insicura. Lo stesso soggetto, quando viaggia, ignora questi aspetti o neppure li vede. Così sbatte le palpebre cariche di meraviglia osservando Londra, Parigi e New York, ma anche le più prossime (come dimensioni): Lione, Amsterdam, Lisbona, Copenaghen. Tutto si riallinea quando qualche supposto cronista del web ci mette sotto attacco. Allora alziamo i toni e torniamo eleganti, sabaudi, sovrani di ogni cosa: gli eventi, il libro, il gusto, il tennis… Respinto il nemico si torna come prima, osservando l’erba del vicino/lontano che naturalmente è “sempre più verde”. Torino Magazine, da oltre tre lustri, spiega invece, con pazienza, che l’erba verde ce l’abbiamo anche noi, se te la sanno raccontare. Ci sono di conforto gli incontri con i nuovi torinesi, che della città si innamorano risolutamente. Come Annalena Benini, neodirettrice del Salone del Libro, che a Torino sembra aver trovato esatta mente quello che cerca: la città del libro, la gentile concretezza nelle azioni, gli spazi dove vivere bene, le strutture comunali pensate per i ragazzi.
E sono proprio i ragazzi, come i più giovani, quelli con la penna in mano (o la tastiera del computer) a scrivere il nostro destino. Anche qui l’ambivalenza impugna i nostri giudizi. Torino vive un rigido inverno demografico, e lo scorso anno il numero dei deceduti è stato il doppio rispetto ai nuovi nati. Dal 1970 ad oggi abbiamo perso quasi 300.000 abitanti, praticamente è scomparsa una città come Bari. Ma un abitante su dieci è uno studente universitario. Ragazzi che frequentano locali e teatri, che affollano concerti (il Kappa FuturFestival!) e grandi eventi, come le Finals di tennis. Ragazzi che spendono per affitti e intrattenimento. Molti di loro non sono nativi e vanno trattenuti, perché se restano faranno figli e invertiranno uno scenario dove nei giardini ci sono gli anziani sulle panchine e sempre meno bimbi sullo scivolo. La Generazione Z, se resta in città, disegnerà il futuro. Servono posti di lavoro? Certo che sì, e le aree dove trovarli sono ben chiare: la business intelligence, la fintech, il mondo dell’AI, la robotica, ma anche la sostenibilità (tantissimo!), il turismo e il food. A Torino sono comparti vivaci, ai quali va aggiunto l’aerospaziale. Ma non si vive di solo green job, i giovani (nativi e non) vanno educati al bello e al buono, a quel patrimonio classico e imprescindibile fatto di palazzi, musei e libri. Dove Torino, aprendosi quando dispiega le ali, è una piccola capitale europea a tutti gli effetti. E i giovani rispondono, come al Salone del Libro, dove, tra i 222.000 visitatori, erano la quota maggioritaria. Ci sono venuti a incontrare: Alessandro Barbero, James Ellroy, Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Don Winslow, Zerocalcare e infiniti altri. Ma ci sono anche venuti per toccare, sfogliare e comprare centinaia di migliaia di libri “veri”, fatti di pagine, con l’odore della carta, con le parole stampate dove immergersi. Gli oggetti più belli del mondo, almeno per me. L’arte della “bella carta”, che ha in Torino la sua capitale, come sostiene Annalena Benini, la migliore direttrice possibile per un Salone in rotta verso il futuro. Noi con la “bella carta” raccontiamo la città da 163 numeri. Perché abbiamo sempre voluto essere la materia prima dei sogni metropolitani, quella che non si cancella con un clic, quella che vuole evocare la meraviglia lasciandosi sfogliare. Una mappa consegnata ai torinesi di domani, per fargli capire perché resteranno tra di noi.
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Una Torino “per giovani” è ancora possibile: editoriale di Paolo Griseri
Torino è una città giovane? Ufficialmente no: è anzi un luogo dove gli anziani sono in crescita continua da decenni e dove interi quartieri rischiano l’invecchiamento definitivo, perché l’inevitabile mortalità degli ultra settantenni non viene sostituita, se non in quote minime, dalle nuove generazioni. Tutto ciò ha generato allarmi di ogni tipo, con le immancabili profezie di decadenza senza scampo della città. Potremmo consolarci con le più raffinate anatomie della catastrofe, decidere che mai e poi mai torneranno i fasti del Novecento torinese e ritirarci, chi può, in un confortevole appartamento vista mare a Ospedaletti, e lì coccolarsi nella meravigliosa nostalgia del tempo perduto predicendo il dissolvimento di Torino. C’è un’alternativa a questa moda del cupio dissolvi? Forse sì. Si possono tentare strade che servono a rendere la situazione meno deprimente. Il primo accorgimento è quello di guardare bene i numeri. Per scoprire due cose: la prima è che Torino non è uniformemente vecchia; la seconda è che in molte parti la città è anzi momentaneamente giovane. Non è vecchia Torino Nord, perché è l’area dove più forte è stato l’arrivo degli immigrati. E, per quanto la seconda generazione tenda a fare meno figli, è evidente che il tasso di giovani nelle famiglie dei magrebini, dei rumeni e dei sudamericani è superiore a quello dei nativi. Chi non considera gli immigrati dei veri torinesi dovrà farsene una ragione: nell’800 anche il chierese don Giovanni Bosco era considerato un immigrato.
Poi gli immigrati sono stati i veneti. Poi i pugliesi, poi i marocchini e i rumeni, poi i peruviani. Si dirà che per i magrebini la vera differenza è la religione. Non dimentichiamo che l’Unità d’Italia l’hanno fatta i dirigenti massoni dello Stato Sabaudo, e che la chiesa cattolica ha impedito ai fedeli di votare nello Stato unitario. Integrare queste culture non è stato facile, ma alla fine la città ci è riuscita. Il secondo aspetto è quello della giovinezza momentanea di alcune aree della città. Sono quelle abitate dagli studenti fuorisede: alcune decine di migliaia, una fetta significativa dei 120mila studenti degli atenei torinesi. L’impegno della città dovrebbe essere quello di trattenerne il più possibile, perché l’immigrazione dei giovani cervelli è uno dei fattori di sviluppo più importanti. Per avvicinarci all’obiettivo occorre aumentare le agevolazioni fiscali e gli sconti per studenti e giovani. Si è fatto molto ma si potrebbe fare di più. Per i partiti politici non è un percorso facile: la maggior parte degli elettori appartiene alla popolazione anziana, e rende di più aprire una nuova RSA che un residence per universitari. Ma è solo rompendo l’inerzia che favorisce i residenti con i capelli grigi che si riesce ad attrarre i giovani a Torino. Naturalmente tutto questo non basta. Una città per giovani, come diceva Domenico Carpanini, è una città dove vale la pena crescere i nostri figli. E dove, naturalmente, vale la pena farne. Avere i servizi necessari è essenziale, come avere collega menti che rendano la città più raggiungibile e dunque appetibile. Ci vorrà molto tempo, ma non è un’impresa impossibile. Certo sarebbe molto utile ridefinire i confini di Torino: comprendendo i comuni dell’hinterland (che hanno una popolazione simile a quella della città), in cui l’età media è più bassa del capoluogo. Una città unica di un milione e mezzo di abitanti, meno ancorata alle esigenze della popolazione anziana, potrebbe diventare davvero un posto per giovani.
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Cover story dedicata ad Annalena Benini: dal Salone alla città
Il Salone del Libro è per Torino ciò che i tulipani sono per i Paesi Bassi. Ovvero un patrimonio bello e prezioso, fatto di energie locali (terra, tradizione…) e orizzonti globali, perché simbolo del Paese nel mondo. Tenendo calda la metafora dei fiori, c’è da dire che i torinesi non hanno sempre coltivato al meglio il proprio Salone, così come tante altre virtuose case history territoriali, ma perlomeno l’hanno sempre difeso a spada tratta. Negli ultimi anni ci sono poi state le edizioni della svolta, delle piccole e grandi rivoluzioni, dei record, dei sospiri di sollievo e dei pugni stretti della determinazione. Salutato Lagioia, ecco quindi una cospicua bagarre, che ha condotto poi fuori, “a riveder le stelle”, con la nomina di Annalena Benini, nuova direttrice del Salone. Donna di cultura, e soprattutto scelta giusta nel momento giusto (e questo non ha niente a che fare con il genere).
Chi è Annalena Benini? È giornalista, scrittrice, mamma, divoratrice di libri e nel cassetto ha un libro e un sogno di cui ci ha parlato. Da vent’anni scrive per Il Foglio (di cui dirige il mensile Review). Ha pubblicato libri con Einaudi e Rizzoli. Ha scritto programmi per Rai 3. È la perfetta incarnazione di quelle energie locali per orizzonti globali di cui sopra. Perché è sia una “nuova” innamorata di Torino che un simbolo di internazionalità e contemporaneità. Perché è il merito che vince, ma anche la poesia e la cultura mai dome, mai abdicate, e che anzi vanno di moda, fanno giri immensi e poi ritornano, come certi, famosi amori.
Per questi e tanti altri motivi trovate Annalena Benini in copertina, e nella ritmata intervista, qui di seguito, di Guido Barosio.
Tra le diverse forme di giornalismo, l’intervista è l’unica be to be, dove l’ingaggio tra i due soggetti è auspicabile senza essere scontato. L’intervista è una porta che va aperta facendo un passo indietro, un invito a uscire dalla comfort zone, permettendo all’interlocutore (che non sempre conosciamo personalmente) di entrare in confidenza. Se tutto ciò avviene avremo un ritratto attendibile e complice, altrimenti ci si arresta alle trascurabili apparenze. Il merito o la colpa sono sempre di entrambi.
Poi ci sono soggetti, come Annalena Benini, che nell’intervista si accomodano come un gatto davanti al caminetto. A lei piace essere lì, si vede, ma le sue risposte non travolgono mai le domande. Si racconta, ti osserva e si osserva, senza mai eludere, anzi, aggiungendo dove serve. Un tennis piacevole che parte dall’inizio, da quella passione per la lettura (e poi scrittura) che ha tracciato tutte le sue rotte.
«Più che una passione per me la lettura è sempre stata un bisogno, fin da bambina. Ricordo che un anno, a Natale, mi regalarono un libro con le fiabe dei fratelli Grimm. Mi piacque al punto che il 26 dicembre lo avevo già finito. Per il disappunto dei miei genitori, che speravano in un approccio più graduale. In realtà quel libro ebbe una presa irresistibile su di me, lo lessi e lo rilessi decine di volte. Perché sono cresciuta, fin da piccola, come una lettrice vorace. Dedicavo tantissimo tempo a questa passione crescente, formativa, totalizzante».
Nel tuo caso sembra esserci un rapporto con sequenziale tra lettura e scrittura. Me lo con fermi?
«Esatto. Il mio desiderio di scrivere, la mia voglia di scrivere, nasce dall’essere sempre stata una formidabile lettrice. C’erano poi libri nei quali mi immedesimavo, che avrei voluto scrivere io. Oggi vivo profondamente entrambe le dimensioni. Scrivo per il bisogno intimo di farlo, e di base resto una accumulatrice di libri, libri che leggo anche contemporaneamente».
Il cartaceo o anche altro?
«Anche altro. Leggo per esempio gli eBook, e mi piace anche ascoltare audiolibri e podcast. Per gli audiolibri avverto il fascino, quasi teatrale, di chi con duce la lettura. Ritengo un vero privilegio ascoltare gli autori che propongono la propria opera. Recentemente ho ascoltato la Fallaci leggere “Lettera a un bambino mai nato”. Un’esperienza emozionante, che mi ha con nesso profondamente con la scrittrice. Resta comunque che il libro tradizionale esercita un fascino superiore a ogni altro mezzo. Perché si tratta di un oggetto culturale, ma allo stesso tempo fisico e sentimentale».
Tornerai a scrivere un libro? Vivi ancora il sogno di fare la scrittrice?
«Assolutamente sì».
Sai già cosa?
«Sì, questo libro è dentro di me. Uscirà al momento opportuno».
Saggio o romanzo?
«Romanzo».
Prima ferrarese e poi romana, adesso torinese. Pensi che questa, in Italia, sia la città del libro?
«Certamente sì, per me è sempre stata la città di Einaudi e dell’Einaudi. Ma anche un luogo di romanzi, personaggi e grandi scrittori».
Tu come ti trovi?
«Mi piace vivere a Torino, dove sono stata accolta molto bene e con grande fiducia. La trovo una città molto viva e particolarmente vivibile. Dal punto di vista culturale ci sono grandi appuntamenti e un fermento costante: nell’arte, nel cinema, nel teatro, nella musica, nella scienza e nell’innovazione. Torino è una città che fa ricerca, che guarda avanti, ma che presta anche attenzione al mondo dei ragazzi. Ed è molto importante, perché si tratta di un profilo culturale che parte dalla base, dalle scuole, e che non sempre si nota, dato che i riflettori sono maggiormente puntati sulle eccellenze. Dal punto di vista artistico e scenografico Torino è indiscutibilmente bella, elegante. Un luogo dove ti senti accolta bene anche per questo».
Una caratteristica dei torinesi che apprezzi particolarmente?
«Sai, io vengo da esperienze cittadine molto differenti. Ferrara, la mia città d’origine, si può considerare un piccolo gioiello, ma ha i suoi limiti e i suoi pregi nelle dimensioni contenute. Quindi è inevitabilmente chiusa su se stessa. Roma è l’esatto opposto: imponente e smisurata, tanto accogliente quanto cinica. Torino è una città posata ma gentile. Quello che mi piace di più è la capacità di lavorare insieme e di lavorare bene. Quando si individuano gli obiettivi si raccolgono le forze e si procede con determinazione».
E la tua vita personale? C’è un luogo torinese che ami particolarmente?
«Io abito in piazza Vittorio, uno scenario magnifico che mi ha conquistata. Adoro la mia passeggiata quotidiana lungo via Po, un percorso particolarmente affascinante per chi ama la letteratura. Sotto i portici si susseguono librerie particolari, altre dedicate al vintage, tante bancarelle coi volumi di seconda mano, altri spazi in cui si trovano libri e vinili insieme. Sono luoghi di cultura diffusa, concepiti con affetto e competenza, dicono molto sull’anima di questa città».
Dopo la tua prima esperienza proviamo a immaginare il Salone del futuro. Finora l’evento ha sempre vissuto di due anime parallele: quella commerciale, della più grande libreria d’Italia, e quella culturale, coi grandi autori, con gli appuntamenti, coi dibattiti, col confronto serrato delle idee. Sarà sempre così?
«Tutto si evolve, ma non trovo queste due anime in contrasto. E, soprattutto, non si tratta di due anime snob. Il commercio e la cultura sono ciò che fa l’editoria. I libri si concepiscono e si scrivono, ma poi devono essere venduti. E poi il nostro compito ha un obiettivo rilevante: quello di proteggere la filiera e di prestare costante attenzione ai piccoli editori, una delle anime vincenti e portanti del Salone. Quando dico proteggere la filiera intendo dare il giusto rilievo alle tante professioni dell’editoria, in particolare a quelle meno visibili. Il libro è il risultato finale di un lungo processo, dove gli attori sono molti e tutti preziosi».
Guardando sempre al futuro, cosa ti piacerebbe migliorare nel Salone?
«Mi piacerebbe un Salone sempre più internazionale. Lo siamo già, ma si potrebbe fare meglio. E poi vorrei che fosse maggiormente aperto verso i nuovi generi, per correndo nuove direzioni, un luogo di anticipazione. Quindi un Salone ancora più grande, sempre più attrattivo e connesso con la città».
Di getto e senza pensarci troppo: quali sono i cinque libri che hai amato e che ami di più?
«“Anna Karenina” di Lev Tolstoj, quando lo rileggo ho l’impressione che la protagonista evolva con me. “Lessico Famigliare” di Natalia Ginzburg, il libro che mi ha fatto venire seriamente la voglia di scrivere, il libro che quando l’ho letto ho pensato che avrei voluto scriverlo io. E poi, tra i capolavori di fine Novecento, “Pastorale americana” di Philip Roth. Nella cinquina non può mancare un altro grande classico: “Madame Bovary” di Flaubert. Chiudo con un’opera contemporanea: “Olive Kitteridge” di Elizabeth Strout, magistrale raccolta di racconti strutturata in forma di romanzo, uscito in Italia nel 2009».
Nella tua rubrica per Il Foglio – Lettere rubate – e in altri tuoi interventi il tema della famiglia è rilevante. Oggi hai due figli, un nuovo lavoro particolarmente impegnativo, continui a scrivere e vivi a Torino, che non conoscevi. Come riesci a far coesistere tutto questo con la tua dimensione familiare?
«Ci riesco in modo naturale, senza particolari ansie. Anzi, vorrei lanciare un segnale: si può fare, questo scenario non è un casino. E io non ho alcuna nostalgia dei “bei tempi andati”, dove ruoli e mansioni erano separati. Dove ci si doveva dividere rigorosamente i compiti. Inoltre, nella mia professione, la tecnologia ha cambiato tutto: oggi posso scrivere, leggere e comunicare ovunque. Il mio lavoro dipende solo in minima parte dai luoghi dove lo svolgo: in ufficio, a casa oppure in viaggio. Certo serve che la città che ti accoglie sia tua complice, con servizi adeguati, spazi belli e piacevoli, atmosfera cordiale. Torino è tutto questo».
Un politico torinese tra i più amati, Domenico Carpanini, fece sua la frase di Gabriel Garcia Marquez “una città dove vale la pena crescere dei figli”. Pensi che Torino sia così?
«Ne sono convinta e me ne sto rendendo conto col passare del tempo. E parlo delle scuole, dei giardini, dei tanti progetti per i più piccoli nelle strutture comunali. E poi c’è il bello che ci circonda, quel grande fiume con attorno il verde dove connettersi con la natura e stare bene. Sicuramente coi propri figli».
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Intervista a Francesco Costa: da Torino a Detroit passando per un grande Salone
Ciao Francesco, com’è andato questo Salone?
«Sul piano generale parlano i numeri, le dichiarazioni dei partecipanti e della direttrice: è stato un bel successo sicuramente. Sul piano personale mi trovo a confermare ciò che dicono i numeri, ovvero che il Salone è una bellissima fiera culturale, in cui la gente compra borse di libri, e per uno come me che ama i libri, la cultura e il confronto, non può che essere una festa e un onore partecipare a tutto questo».
Una tua opinione su Torino dopo questa esperienza?
«Premetto: il Salone ha la capacità di assorbirti al suo interno e di isolarti dal resto, quindi non ho girato molto. È capitato prevalentemente la sera, e ciò che ho visto è stata una città sempre più a misura del suo Salone, e quindi bella e funzionante; anche nei momenti più “congestionati” non ho mai avuto impedimenti».
Se fosse una città americana, Torino quale sarebbe?
«Il paragone mi sorge spontaneo: Detroit, nel Michigan. Perché è stata la città dell’auto, come Torino, e perché dopo la grande crisi del settore automotive si è dovuta conquistare una nuova identità. Ora Detroit è una città in netta ripresa, non so se per Torino ha senso parlare di “ripresa”, in ogni caso vedo una città in salute e in costante crescita».
Il Salone, dati alla mano, è stato seguito da molti giovani: c’è voglia di comunicazione, o comunque di contenuti, di qualità da parte delle nuove generazioni?
«Direi di sì. Parto però da un ragionamento: siamo abituati spesso a guardare ai fenomeni come tanti puntini separati che non uniamo mai. L’incredibile successo dei concerti di Taylor Swift, il caso Barbenheimer, gli stadi di Serie A pieni… sono evidenze che ci mostrano quanto le persone abbiano voglia e bisogno di eventi e coinvolgimento, specie se sono di qualità. Il Salone, colmo di libri e di giovani, è un po’ un simbolo a portata di mano di questa necessità; che se indirizziamo bene è assolutamente positiva».
Esiste in Italia un hamburger come quelli che troviamo negli States?
«Assolutamente sì, e c’è un motivo specifico. La cultura americana ha una caratteristica fondamentale, che è anche uno dei motivi per cui è vincente, ovvero che si può riprodurre. E questo vale sicuramente per il cibo ma anche per tantissimi altri aspetti della cultura americana. L’hamburger nella sua semplicità di riproduzione è l’esempio perfetto, e in ogni città italiana c’è almeno un hamburger degno di questo nome; chiaro manca l’America attorno».
Tu parli molto di Stati Uniti, noi abbiamo spesso utilizzato un “claim”: energie locali, orizzonti globali. Quanto è importante guardare lontano per valorizzare ciò che siamo qui?
«È cruciale. E lo è in ogni ambito. Nella gestione delle aziende, nell’organizzazione del Salone, nella realizzazione di un giornale… ci confrontiamo inevitabilmente con il territorio, perché è qui che abbiamo l’impatto maggiore, e più evidente. Però com’è che operiamo le nostre scelte? In base a cosa predisponiamo le strategie? In breve: lo facciamo utilizzando le informazioni e le conoscenze che possediamo. È un principio naturale. E per recuperare e assimilare le informazioni, guardare altrove, anche lontano, è appunto fondamentale».
È uscito per Mondadori il tuo ultimo libro, Frontiera, che parla molto di America. Perché, come dice il sotto titolo, sarà un “nuovo secolo americano”?
«Anzitutto perché lo dicono i dati. Non è avvenuto il famoso sorpasso della Cina e tante altre cose che erano state preannunciate. E poi parlare di un nuovo secolo americano non significa che gli States saranno i dominatori del mondo. Nel ‘900 non sono stati un modello particolarmente “virtuoso”, hanno spesso fallito, hanno avuto molti rivali… Ma nonostante tutto questo, noi continuiamo a definire il secolo scorso come “americano”. E sarà così anche per il prossimo. Questo perché, semplicemente, quando dovremo operare delle scelte o commentare le vicende del mondo, continueremo a girarci da quella parte del globo, per vedere e capire che succede. Poi chiaramente nel libro lo spiego in maniera più approfondita…».
In chiusura: tornerai al Salone l’anno prossimo?
«In ogni caso tornerò come visitatore, come ho sempre fatto, perché il Salone non me lo perdo. Se la domanda è se tornerò nell’organizzazione, onestamente non ne abbiamo parlato. Abbiamo finito da pochissimo di lavorare all’edizione 2024, e dobbiamo ancora confrontarci sulla prossima. Ovviamente spero di sì».
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Intervista a Dalia Rivolta: Torino è come un tiramisù
Rompiamo il ghiaccio: il tuo rapporto con Torino?
«Quello di Culicchia, che in un suo libro (Torino è casa mia, ndr) ha detto di avere una stanza in ogni zona di Torino… Solo che io ho quasi ogni stanza a Porta Palazzo».
Tutte tutte?
«No, la “camera da letto” è al Quadrilatero, mentre il portafoglio in zona Aurora, ho comprato una casa là… È un’abitudine dei torinesi “gareggiare” sull’individuare i quartieri “in fase di lancio”».
È sempre stato facile il rapporto con Torino?
«Non proprio. Da ragazza ho vissuto vicende scolasti che “complicate”, ho studiato a Chieri, poi sono stata otto anni all’estero… Diciamo che Torino me la sono dovuta conquistare».
C’è un episodio emblematico del “ritorno”?
«Sono tornata a Torino alla fine del Covid e prima di rientrare ho avuto un incontro con una sorta di chiromante. Ero da molto in Francia e non mi sentivo a posto con me stessa. Questa signora mi disse che il bacino del mio equilibrio era completamente spostato e che dovevo tornare alle mie radici».
Coincidenza o destino?
«Una cosa a metà. Poi penso che la pandemia per tanti di noi sia stata un’occasione di approfondimento interiore non scontata».
Una cosa che ti piace di Torino?
«Torino è un tiramisù in teglia: cambia tantissimo da quartiere a quartiere, e nonostante ciò ti permette di essere sempre te stesso, anche in posti molto diversi».
Cosa non ti piace?
«Che si sottovaluta, e noi facciamo poco per cambiare questa situazione. Chi cerca fortuna spesso va a Milano. Me l’hanno proposto, ma io voglio stare qui».
Come si racconta la “nostra” Torino?
«È come imparare una nuova lingua: devi trovartici dentro. Anche se Torino sta cambiando tantissimo, e quindi anche il suo racconto deve cambiare; quell’ombra di Francia onnipresente oggi è molto minore. Io percepisco solo cose positive in realtà».
Un vizio torinese da toglierci?
«Abbiamo un’inossidabile senso di discrezione. Che può essere bello e pure esasperato. Dobbiamo imparare a raccontarci un po’ di più, a farci pubblicità, ad approfondirci. C’è tanta ricchezza non esplorata».
Infatti in un video dici che i torinesi non sono “schivi” come si pensa. Lo credi davvero?
«Lo penso davvero. Certo abbiamo una tendenza a essere freddi in maniera un po’ superficiale… ma quando rompi il primo strato c’è tanto calore».
È quello che hai provato a fare nel tuo famoso format di cucina in strada?
«Lo studio di quel contenuto, poi diventato virale, è durato parecchio. Non volevo fare le ricette sui social come tutti, ma non sapevo che altro fare. Sono stati amici e colleghi a suggerirmi di “andare tra la gente”, e così è nato un format fortunatamente di successo».
Quanto ti sei divertita e quanto hai imparato?
«Divertita molto, ma soprattutto ho imparato. Il cibo lì è quasi una scusa, una porticina che apre a un mondo di storie incredibili; alcune sono state molto impegnative da affrontare».
I torinesi come si sono comportati?
«Direi bene. Non dimentichiamoci che siamo un territorio “di confine”, e quindi fatto di tanta gente diversa, spesso anche “dura” e sulla difensiva. Dietro a queste “protezioni” ci sono racconti veramente toccanti».
Energie locali, orizzonti globali: come si affronta il mondo a partire dalle nostre radici?
«In realtà è un moto perfino involontario. Il patrimonio di energie locali da cui proveniamo ci accompagnerà sempre, anche inconsciamente, e a volte si manifesta in maniera evidente. Il problema vero è che, localmente o globalmente, facciamo fatica ad accettare i cambiamenti».
E quindi?
«E quindi “la generazione successiva sarà sempre peggiore”, per fare un esempio. Ma solo perché è diversa, perché magari fatichiamo a capirla, perché ci passa davanti e non possiamo sopportarlo. Se le energie lo cali, fatte di radici e conquiste, ci aiuteranno a far pace con noi stessi e con l’altro, meglio ancora».
Uno sguardo al futuro?
«È uno sguardo ottimista. Le prossime generazioni sa ranno le prime realmente libere dai pregiudizi inutili, dai limiti sociali, dalle architetture del pensiero che diventano gabbie. Credo che finalmente sarà possibile rag giungere una coscienza di sé in modo più naturale».
E per Torino?
«L’augurio è lo stesso: trovare equilibrio, autostima, consapevolezza. Raggiunti questi piccoli, grandi tra guardi, una città come una persona può essere semplicemente se stessa. E può esserlo ovunque».
Chiudiamo: se Torino fosse una ricetta?
«Sarebbe un filetto in crosta: con uno strato “difensivo”, un cuore tenero (se cotto bene) e con una salsa ai funghi, ottima, ma che non piace a tutti».
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Intervista a Annalisa Abdel Azim e i ragazzi delle cuffie
Annalisa, prima di tutto ci dici due cose di te?
«Sono nata a Torino, da genitori molto “meridionali”: mamma è campana, mentre mio padre è di Alessandria d’Egitto. Si sono incontrati qui, sotto i portici».
Cosa ami della città?
«Sicuramente i già citati portici. E poi tutto il centro, in cui sono cresciuta da bambina: via Po, il Museo Egizio, la Mole, Experimenta quando ancora la facevano…».
Quindi volevi già fare ricerca?
«In realtà volevo diventare medico, per aiutare gli altri. Poi mi sono resa conto che avevo scambiato la sensibilità umana per una predisposizione alla scoperta e alle discipline scientifiche».
Quand’è scoppiata la scintilla?
«Dopo il liceo scientifico mi sono iscritta a Biologia, che era un po’ un ripiego. Poi però lì mi sono innamorata della biochimica e non ne sono più uscita. Studiare in via Accademia Albertina mi ha riportato nel mio amato Centro e ho ricordi bellissimi dei miei studi».
Andiamo al progetto MyND, ma partiamo dal fondo: vi aspettavate questo riconoscimento?
«Diciamo che noi crediamo fortemente nel concept che abbiamo creato. Ci siamo praticamente innamorati di questo progetto, sentivamo le farfalle nello stomaco, proprio come quando ci si innamora. Quindi eravamo certi di essere sulla strada giusta».
Quindi ve l’aspettavate o no?
«Volerlo lo volevamo, aspettarselo poi è un’altra sto ria… Diciamo che il riconoscimento ci ha confermato che il percorso scelto era azzeccato».
Tu e i tuoi compagni studiate tutti in città diverse: per le “nuove” generazioni esiste ancora il concetto di “di stanza”?
«Il concetto di distanza è cambiato, specie dopo il Covid. Ma lo vedo come un cambiamento naturale, spontaneo. Oggi è nella quotidianità di tutti accendere il PC e lavorare, chiacchierare, confrontarsi… a prescindere da dove ci si trovi. Penso che accorciare le distanze sia un obiettivo che ricerchiamo da sempre, oggi però la tecnologia ha eliminato molti ostacoli alla connessione. Certo, quando ci siamo visti di persona e abbiamo toccato con mano le idee che avevamo creato assieme, è stato incredibile. E anche decisa mente utile».
Un ricordo particolare?
«Natasha a Roma mi ha portato a Porta Portese, a caccia di cuffie su cui lavorare; è stato molto bello. E non avremmo potuto farlo attraverso un video. Abbiamo la tecnologia sì, ma anche grandissimo bisogno di contatto».
Energie locali, orizzonti globali. Come si concilia questo rapporto? E come si comunica?
«Torno agli strumenti: oggi utilizziamo mezzi digitali che ci permettono di comunicare in modo super esteso; con tutto il mondo oserei dire. E il focus del nostro concept è chiaramente rivolto al mondo, perché la sostituzione delle plastiche è un tema globale; ma, come si evince da questo progetto, si può “affrontare” il mondo a partire da noi. Così orizzonti globali ed energie locali diventano praticamente una cosa sola».
Storytelling pop o tecnico: com’è il vostro racconto?
«Io sono chiaramente più ferrata sulla parte scientifica, e più abituata a platee tecniche; però sono rimasta col pita dall’accoglienza di questo progetto, soprattutto in contesti più “pop”. Il messaggio arriva, a volte in modo più approfondito, a volte meno. Siamo diventati “i ragazzi delle cuffie” o “dei funghi”, che sicuramente è un modo un po’ “grezzo” di calarsi nel tema, ma comunque efficacie. L’importante è che passi il concetto che si possono cambiare le cose».
E passa?
«Sì, se si riesce a raccontare la “magia” dietro a questo concept. Il regno dei funghi è qui da tantissimo tempo ed è straordinario che oggi, per risolvere un problema contemporaneo, stiamo prendendo ispirazione da un mondo vivo e antico, che è sul pianeta da ben prima di noi. La natura ci ispira e può farlo ancora tanto».
Progetti futuri?
«Ci riteniamo un team in costante fermento, e molto entusiasta. Siamo felicissimi e concentratissimi su questo progetto, ma chiaramente non ci fermiamo mai. Non saremmo noi».
Un flash in chiusura: voto al contesto accademico torinese?
«Io parlo da ricercatrice, quindi un po’ esterna rispetto al contesto puramente accademico. Direi “benino”. Ci sono tanti punti positivi, ma c’è da migliorare, soprattutto nel l’eccessiva distanza tra docenza e messa in pratica, tra cattedra e laboratorio. C’è una sorta di gap tra questi mondi che certamente non fa bene a nessuna delle parti, che io immagino molto più connesse e vicine».
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Intervista a Jouvin e Sandri: il racconto della nuova stagione del Regio
Il 15 maggio è stata presentata la nuova stagione del Teatro Regio dal titolo La meglio gioventù; un nome che richiama chiaramente il bel film di Marco Tullio Giordana del 2003 (girato in parte a Torino), e anticipa scenari e pensieri che hanno composto un calendario 2024/25 ricco di appuntamenti interessanti.
Noi, per farci raccontare idee, ideali e aspirazioni dietro alle scelte di questo palinsesto, abbiamo interrogato i diretti protagonisti della sua costruzione, ovvero Mathieu Jouvin e Cristiano Sandri, rispettivamente sovrintendente e direttore artistico del Regio.
Partiamo da una premessa: prendere in mano la scansione delle opere che saranno protagoniste al Regio in questa nuova stagione, significa osservare un manifesto. Le scelte operate da Jouvin e Sandri raccontano un’idea di mondo e teatro non scontata, fatta di classici e spettacoli meno noti al grande pubblico, che spiegano anche la grande voglia che il Regio ha di esplorare, fidelizzare, crescere. In un contesto ovviamente torinese, ma allo stesso tempo giovane, inclusivo, internazionale. Il cartellone di un teatro è molto più che un semplice calendario: è il volto di una macchina della cultura complessa e ricca di sfumature. Mathieu Jouvin e Cristiano Sandri ci hanno accompagnato alla scoperta di tutto questo.
Partiamo, com’è auspicabile, dall’inizio, e quindi dal già citato titolo. Ce lo racconta il sovrintendente Jouvin…
«Ogni stagione deve avere un tema, un fil rouge, un titolo che provi a rappresentarne tutte le parti. Noi vogliamo che questa sia una stagione sempre più “giovane”, che coinvolga davvero tutte le generazioni, anche quelle magari meno “avvezze” al teatro. Da qui “La meglio gioventù”».
E poi strizza l’occhio anche al cinema…
«Sì, questa è una piacevole coincidenza, e ce la teniamo stretta. Il film di Giordana ha avuto grande successo in Francia, e io personalmente lo adoro».
Ecco, quanto è presente la vostra “firma” in questo calendario?
«È presente, come è giusto che sia. Il dialogo tra Francia e Italia è forte, ma c’è anche tanto gusto personale… Senza essere mai invasivi, o condizionare, ma io e Cristiano dobbiamo donare la nostra identità a queste scelte».
Passiamo al direttore Sandri. Anche la grande attenzione dedicata ai giovani è parte di questa “firma”?
«Probabilmente sì. È un tema che abbiamo a cuore. E quindi è sì una scelta artistica, che riguarda le opere della stagione, ma anche un leitmotiv che coinvolge il Regio a 360°. Prima ancora del mio arrivo il sovrintendente aveva inserito questa missione all’interno del suo modo di intendere il teatro, allargando notevolmente il target del pubblico, soprattutto verso le nuove generazioni».
I numeri dicono che il numero dei biglietti venduti aumenta, con forte accento sugli under 30, quindi un “impegno” non esclude l’altro?
«Ovviamente no. Io dico sempre che questo progetto va conciliato con la tutela del nostro pubblico storico, che infatti continuiamo a coccolare come sempre fatto».
Ed è complicato?
«Desideriamo far sentire a proprio agio chi per la prima volta varca questa soglia. Un’operazione non scontata, ma siamo fermamente convinti che non bisogna essere per forza “colti” per godere del teatro: la magia che qui si respira non è limitata dalla “preparazione”. Poi chiaramente sarebbe bello portare giovani a teatro e renderli tutti degli habitué. Ma iniziamo con il portarli qui…».
Uno specchio in questo senso sono state le Anteprime giovani forse?
«Assolutamente. E sono state un successo. Con tanti giovani preparati, entusiasti, curiosi che si sono goduti opere anche non semplici. Dimostrando che molte volte siamo noi “adulti” ad alimentare pregiudizi inutili. L’affluenza, ma soprattutto la passione di quegli appuntamenti, è stata una delle soddisfazioni più grandi della stagione».
A proposito di stagione, in attesa degli appuntamenti del calendario ’24/25 al via a novembre, a ottobre il Regio si animerà con un’iniziativa molto speciale, in programma per tutto il mese: Manon Manon Manon (i biglietti sono online da marzo, ndr). Un inedito in Italia perché al Regio verranno portate in scena tre opere di tre compositori differenti (Puccini, Auber, Massenet) dedicate però a un unico soggetto, appunto Manon Lescaut. Un progetto ambizioso affidato al regista Arnaud Bernard. Direttore Sandri, si parte forte insomma?
«Speriamo di sì. Anche se anticipa la stagione vera e propria, questa idea si inserisce perfettamente nel tema della gioventù che caratterizza poi tutto il calendario. E poi crediamo sia un progetto coraggioso, testimone della volontà del Regio di posizionarsi in una certa maniera rispetto al panorama internazionale dei teatri. Portando in scena operazioni sicuramente non banali o addirittura inedite come questa».
Un’operazione a cui il sovrintendente Jouvin tiene particolarmente, non è vero?
«È verissimo. Il nostro impegno è di offrire al pubblico una varietà di opzioni, da opere più celebri a titoli meno conosciuti, creando un dialogo sia con gli appassionati sia con tutti coloro che si avvicinano per la prima volta alla lirica per rinnovare costantemente l’interesse e suscitare curiosità».
Una volontà che si vede anche nella determinazione dei prezzi?
«I prezzi sono un linguaggio. Una politica di prezzi più inclusiva non è solo “comoda”, ma è un segnale. Poter assistere oggi a spettacoli di alto livello, in un teatro magnifico come il Regio, con biglietti anche da 30-40 euro è una testimonianza precisa dell’idea di teatro che coltiviamo».
Una cosa che ci ha colpito è stata la scelta di molte opere che raccontano protagonisti o coprotagonisti giovani. E quindi affrontano, in modi anche molto diversi, il tema del dialogo tra generazioni. Quindi la gioventù non solo si porta a teatro, ma con il teatro la si racconta?
«Quando uno pensa alla gioventù pensa spesso alla felicità. Sembra che non esista infelicità giovanile; non è così, anzi è un tema cruciale del nostro presente. C’è una bella frase di Paul Nizan che dice “avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. È giustissimo. Mi piace pensare che il teatro sia uno spazio in cui portare avanti riflessioni contemporanee».
Sovrintendente, degli esempi?
«La stagione ne ha tanti: dalla ribellione di Figaro e di Susanna, alla sofferenza di Nemorino o di Gilda fino alla tormentata lotta per l’indipendenza di Hamlet o alla follia di Hermann… Sono universi senza tempo, per questo sono utili».
E sono utili anche perché organizzati in un calendario studiato bene, che coniuga scelte classiche e originali, come già detto. Che immagine dà il Regio di sé con questa stagione al mondo e ai torinesi? E che immagine deve comunicare?
«Confidiamo che la differenza sia minima. Ma farei un passo indietro. Torino è unica e allo stesso tempo è tante città. O almeno è l’impressione che mi ha sempre dato. Penso che la sfida più interessante per noi sia riuscire a trovare il linguaggio giusto per comunicare sia con la Torino che ci sente come più vicini, sia con quella più “lontana”».
E come ci si riesce?
«È fondamentale ricordarsi che oggi esistono tanti metodi di comunicazione. Penso soprattutto ai social. E su questi temi ci sono grandi riflessioni, specie in chiave turistica, perché Torino non è percepita come una città di lirica, e noi vorremmo cambiare questa impressione».
In questo senso quanto è importante il legame con la Francia e il suo teatro? E lo chiediamo, insospettabilmente, al direttore Sandri.
«Abbiamo un sovrintendente francese sì, ma le nostre stagioni vedono una fortissima presenza francese nei propri filoni artistici e musicali perché amiamo queste opere. E poi perché vicinanza geografica e affinità culturale collegano strettamente Torino alla Francia. È per tutti una connessione fruttuosa».
E convincente: infatti i numeri dell’anno passato confermano che la direzione sembra quella giusta. Un commento del sovrintendente?
«Occupazione dei posti al 78%. Questo è per me un dato molto importante. Specie considerando il numero di spettacoli (oltre cento) e la dimensione di sala (oltre 1.500 posti). Per la media europea siamo in una fascia alta, è un bel segnale».
Potremmo definire la stagione ’24/25 come un anno zero?
«Sarà la stagione del rilancio definitivo del teatro. Sia da un punto di vista dei numeri che dell’offerta artistica. La nuova stagione, con la propria identità, forza e originalità è simbolo di un Regio che vuole essere inclusivo, sostenibile (anche per chi ci lavora), stimolante, classico e innovativo. Uno dei teatri più affascinanti d’Europa».
Complice anche la sua unicità architettonica?
«Carlo Mollino era un genio. Lo abbiamo celebrato nei 50 anni dalla ristrutturazione. E credo che sì, complice anche la sua unicità, il Regio abbia tutte le carte in regola per essere uno splendido ambasciatore di Torino nel mondo, un vero punto di riferimento».
Direttore Sandri, un augurio per questa nuova stagione 2024/25?
«Il più scontato di tutti: sale piene, tanta passione, tanto divertimento».
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Viaggio in Vallonia, al centro d’Europa
Chissà se Napoleone Bonaparte, all’alba del 18 giugno 1815, poco prima della battaglia di Waterloo, quando pronunciò la frase “Abbiamo novanta probabilità su cento” (non certo un felice presagio), aveva la consapevolezza di trovarsi esattamente nel centro d’Europa. Quel continente che aveva conquistato per poi perderlo, e che ora stava tentando di conquistare nuovamente.
La storia nega ogni casualità, e una delle più grandi battaglie mai combattute non poteva che celebrarsi in Wallonie (in italiano Vallonia, ndr), dove se piantiamo un compasso tracciando un grande cerchio, notiamo in piena evidenza l’assoluta centralità di una regione piccola, di soli 16.844 chilometri quadrati (il Piemonte ne ha 25.387), ma bellissima, dipinta dal verde smeraldo di prati e foreste, solcata da argentei fiumi serpeggianti, con la maggior concentrazione di castelli d’Europa, punteggiata da centri d’arte vivibili e qualche volta maestosi, dove si mangia bene e si beve ancora meglio, con birre dal medioevo entrate nella leggenda. Ottimi sapori di una ricerca che parte dai prodotti più genuini del territorio, e orgoglio per la tradizione, come nel caso delle onnipresenti “friteries”, dedicate alle frites, le patatine a bastoncino nate da queste parti.
Ma la Wallonie ha dato anche i natali alla genialità, eccentrica e sorprendente, di personaggi che hanno segnato la storia della scienza e delle arti. La sua posizione, e la mancanza di confini naturali, ha concesso spazio a una storia a volte cruenta, ricca di episodi e dinastie, con influenze che si sono susseguite attraverso duemila anni, dall’epoca romana in poi. Così sono andate in scena le tribù germaniche e le legioni di Cesare, i franchi (merovingi e carolingi), i duchi di Borgogna e gli Asburgo di Spagna, di nuovo i francesi e infine gli olandesi.
Poi, nel 1830, nasce il Belgio, con le sue due anime, fiamminga e vallona. Unità sostanzialmente federale, che esiste tuttora, attraverso complessi equilibri istituzionali. Cerniera d’Europa, la Wallonie dimostra evidente fierezza per un passato strategico, che ha riempito i libri di storia: quando i suoi signori alzavano le saracinesche la rotta maestra tra Francia e Germania si interrompeva di netto, in attesa degli eventi. Forse stanca di tanti appuntamenti col destino, oggi questa è una terra tranquilla, dove nessuno ha fretta, assai propensa all’accoglienza, ideale per un turismo di scoperta e di ricerca, lontanissimo dalle frenesie metropolitane.
Napoleone si è fermato a Waterloo
Il nostro viaggio inizia, simbolicamente, proprio dal sito della battaglia di Waterloo, tappa imprescindibile per ogni amante di storia. Ora, rendere comprensibile, e magari affascinante, un campo da battaglia non è certo impresa facile. Perché il rischio è quello di trovarsi di fronte a un grande prato, e magari qualche collina, niente di più. Ma i valloni sono riusciti nell’impresa, creando uno scenario emozionante, storicamente attendibile ed esplicativo, tecnologicamente avanzato e ricchissimo dal punto di vista dei reperti esposti.La località è dominata dalla Butte du Lion, aguzza collina artificiale alta 40 metri, dove “ruggisce” la statua del grande leone, emblema della vittoria delle monarchie alleate. Venne fatta erigere da Guglielmo I nel 1826, la sua sagoma domina la pianura circostante ed è il più evidente richiamo per raggiungere il luogo della battaglia.
A poche decine di metri si trova il Musée du Memorial, che è un vero capolavoro. Ci si immerge in una scenografia narrativa e multisensoriale, che accosta preziosi reperti (armi, divise che rivestono manichini, bandiere…) a scenari dettagliatissimi, arricchiti con effetti speciali. L’impressione è quella di procedere in un mondo di fantasmi, dove nelle riproduzioni dei quadri si alza il fumo e si muovono i soldati, dove veniamo circondati dai rumori della battaglia, dove l’ultimo combattimento ci viene restituito con un filmato 4D, dal realismo mozzafiato.
Altrettanto sorprendente è Le Panorama, edificio circolare dove trova posto la tela realizzata nel 1012 da Louis Dumoulin. Coi suoi 110×12 metri è il più grande dipinto militare al mondo. La sua esposizione è circolare, coi visitatori che osservano il capolavoro da una torretta centrale.
Ecco, non conoscevate nulla o quasi della battaglia di Waterloo? Dopo una visita al Domaine de la Bataille, questo il nome del sito, sarete conquistati anche voi dall’epopea napoleonica. E scriviamo così perché è l’unico caso nella storia dove lo sconfitto, Napoleone, è universalmente più amato di coloro che lo sconfissero. La storia dell’ultima tappa militare dell’Imperatore resta beffarda, con le sue truppe vicine alla vittoria e poi battute dall’arrivo dei prussiani a tempo quasi scaduto. Se fosse andata diversamente oggi la seconda lingua del continente sarebbe probabilmente il francese, con la lingua di Albione confinata tra le sue isole.
Waterloo è una pagina di storia che va ben oltre lo scontro armato, del quale non abbiamo ancora oggi un conteggio preciso delle vittime. Furono probabilmente 40.000, fatte sparire in fosse comuni per evitare epidemie. La loro sepoltura ha purtroppo un risvolto orribile, nel 2022 resi noto che le ossa di molti soldati vennero riesumate e utilizzate come polvere per lo zucchero. A testimonianza del mito perpetuo di una parola, di un luogo, di un evento bellico, segnaliamo la curiosa esposizione Waterloo, che non celebra la battaglia, ma l’omonima canzone degli Abba, che vinse l’Eurofestival nel 1974, giusto cinquant’anni fa.
Tintin e Louvain-la-Neuve
Tappa successiva il Musée Hergé di Louvain-la Neuve, cittadina creata dal nulla per ospitare l’omonima università. In Italia neanche per Dante Alighieri abbiamo mai concepito una simile struttura dedicata a un singolo artista. Il volume del museo, consacrato all’autore di Tintin, emerge da una zona alberata ed è un prisma allungato con una facciata bianca, che rafforza la sensazione di leggerezza dell’edificio, e ampie vetrate che rimandano le vignette. Il complesso è collegato al resto delle città da una passerella. All’interno una vasta area reception ospita i quattro (uno sopra l’altro) volumi dedicati all’esposizione. I colori utilizzati – giallo, verde, salmone e quadri in bianco e nero – sono arricchiti da disegni astratti e costituiscono un omaggio simbolico alle avventure di Tintin. Il percorso espositivo, 3.800 metri quadrati complessivi, si dipana su tre livelli di conoscenza dell’artista, da principiante a “Tintinologo”, dove si possono ammirare disegni, filmati, fumetti e fotografie. Ludici e fantasiosi gli allestimenti.
Dopo la visita ci si confronta con una certezza: il capolavoro dell’architetto francese Christian de Portzamparc è il miglior museo al mondo dedicato al fumetto. Ma a noi Louvain-la-Neuve non è piaciuta per una sola ragione. Questa è una città universitaria costruita da zero nei primissimi anni Settanta, quando dall’ateneo fiammingo di Louvain vennero allontanati gli studenti francofoni. L’urgenza portò diversi architetti e urbanisti a confrontarsi sul tema dell’innovazione, e il design urbano si ispirò alle città italiane del medioevo. Oggi il colpo d’occhio presenta spazi ben concepiti – la Grand Place, la Place de l’Université, le vie pedonali e ciclabili, gli edifici universitari – dove il tema dei mattoni rossi a vista domina la tavolozza cromatica. La vivacità è quella di un colossale ateneo, con oltre ventimila studenti su trentamila abitanti.
Una fiaba sull’acqua: Dinant
Perla del turismo fluviale vallone, Dinant sembra concepita per la bellezza. Una bellezza “ben disposta”, con due sequenze di case colorate che si affacciano dai lati opposti della Mosella, con la trecentesca chiesa di Notre Dame e la sua vetrata celeste, tra le più grandi di tutta Europa, col ponte Charles de Gaulle, decorato dai sax che ricordano il cittadino più celebre. Già, perché in questa cittadina fiabesca di 13.143 abitanti nacque nel 1814 Antoine-Joseph Sax, detto Adolphe, ideatore di uno degli strumenti che rivoluzionarono la storia della musica universale, imponendosi nella classica, nel pop, nel rock e soprattutto nel jazz. Qualche nome da ricordare: Charlie Parker, Sonny Rollins, Jan Garbarek, Gato Barbieri, Stan Getz, Clarence Clemons, l’italiano Gianni Basso… Oggi decine di sax coloratissimi alti tre metri arricchiscono il contesto del centro storico con un pizzico di follia. I primi vennero eretti nel 2010 per celebrare l’Unione Europea, poi se ne aggiunsero altri, come testimonianza del mondo intero.
Per ammirare Dinant a volo d’uccello la soluzione ideale prevede di salire alla Cittadella, edificata nel 1040 sullo sperone roccioso che domina la città. Cento metri per un balzo verso il vuoto, e tutta Dinant sotto i vostri occhi, esposta come un’antica mappa. Per un soggiorno immerso nel verde della Wallonie consigliamo il Castel de Pont-à-Lesse. Siamo a pochi minuti d’auto dal centro storico, ma il contesto muta radicalmente: il verde della foresta domina il panorama, la natura si riprende i suoi spazi e i suoi silenzi (se siete fortunati incrocerete i cervi della tenuta), una tortuosa stradina porta alla meta. L’hotel è ricavato nel castello ottocentesco, e mette a disposizione grandi camere accoglienti, sale comuni, verande e boiserie, ristorante, una bella piscina riscaldata. Personale cortesissimo, che rimanda a un’accoglienza fuori dal tempo.
E ora due tappe gourmand a Dinant, fortemente caratterizzate dai sapori del territorio. Le Confessional è il regno dello chef Philippe Berard: sapori ancestrali, ricette recuperate dalle “grand mere” e dalle famiglie del posto, eccellenze scovate con minuzia dai migliori produttori locali. In carta, sempre, spalla d’agnello, sanguinaccio, tête de veau, lingua… e altre meraviglie ascritte al capitolo frattaglie. L’ambiente è un viaggio nel tempo, tra oggetti, quadri e attrezzi di cucina rigorosamente d’antan. Le Jardin de Fiorine si trova sulla riva della Mosella ed è seminascosto da un portone piuttosto ordinario. Ma, superato l’ingresso, si scopre una bella casa padronale del 1855 con giardino. Lo chef Jean-Luc Henroteaux propone una cucina del posto di assoluta eccellenza, reinterpretata e alleggerita. Assai apprezzabile il menu “Iniziazione alla gastronomia”, concepito per coinvolgere i più giovani ai piaceri della buona tavola. Vi avevamo accennato alla composta tranquillità dei valloni, ecco, questo concetto si esprime pienamente a tavola: coppie e gruppi di amici accomodati in piena serenità, anche perché è praticamente impossibile alzarsi prima di due ore. Noi abbiamo atteso, ad esempio, un semplice antipasto quaranta minuti. Niente di grave, basta saperlo, e programmarlo. Sono ritmi che fanno parte di un modo specifico di accettare la vita, in cui si privilegia lo slow in ogni sua forma, con pieno godimento del tempo che passa, soprattutto se dedicato ad attività edonistiche. Difficile pensare che abbiano torto.
Namur: la capitale della Vallonia
E ora Namur, 110.632 abitanti, la capitale della Wallonie, romanticamente posta alla confluenza tra la Mosella e la Sambre ci racconta duemila anni di storia, sovente segnata da cruente vicende militari. Una bella città col centro storico intatto, dove sono molti gli edifici in mattoni rossi a vista. Così, come in molti altri centri della Wallonie, si ha la sensazione di trovarsi in Gran Bretagna, per queste architetture domestiche, e in Francia, per la lingua e l’art de vivre. Namur è dominata dalla sua cittadella, di epoca romana, poi ricostruita e adattata col passare dei secoli. Oggi si raggiunge con una spettacolare funivia ed è suggestiva location per eventi, concerti e spettacoli teatrali. Colta e raffinata nelle sue proposte culturali, la città conta dieci musei, che spaziano dall’informatica all’arte antica.
Il nostro preferito è il seducente, ma più che altro sulfureo, Musée Félicien Rops, che prende il nome dal più trasgressivo artista locale, vissuto tra il 1833 al 1898. Anticipatore del fumetto, del manga e della più cruda arte mitteleuropea, Rops inizia la sua carriera con opere satiriche e caricaturali, per approdare ai temi del macabro, del sesso esplicito, dell’anticlericalismo e del satanismo. Il tutto realizzato con eleganza stilistica senza pari e sorprendente eclettismo: disegni, acquarelli, grafiche, dipinti a olio. La sua opera più celebre ritrae una donna nuda e bendata, con un maiale al guinzaglio, accompagnata da tre angioletti volteggianti.
Scendendo a piedi dalla Cittadella, merita senz’altro una tappa l’atelier della Parfumerie Delforge. Consigliata la visita nell’edificio che la ospita, ricavato direttamente nei bastioni. Spenderete assai bene un’ora del vostro tempo per comprendere come nasce un profumo, dalle sue materie prime naturali alle preziose essenze che se ne ricavano. Arte antica e manualità, fantasia e rigore nei processi produttivi, questa oggi è una delle migliori realtà europee del settore. Delforge ha una clientela di estimatori, che comprano solo in loco oppure online, non è prevista nessuna distribuzione in profumeria. La visita si conclude provando questi eterei capolavori, impossibile resistere alla tentazione dell’acquisto.
Ed ora le nostre due tappe gourmet di Namur. La prima è al Bistro Bisou, in pieno centro, a pochi isolati dal Museo Rops. Atmosfera vivace e conviviale, eccellenti birre spillate di fronte a voi e alcune golose suggestioni locali, come le croquettes, coi minuscoli gamberetti di fiume, o le polpette di carne, con quattro differenti tipologie di salse. Chi avesse nostalgia della nostra cucina può ordinare la carne italiana (ottima in tartare), oppure la pasta fresca fatta in casa. Sorprendente Wallonie! Si esce, si attraversa la strada, e ci si immerge in una minuscola cioccolateria, Pralinez Moi, dove la sorpresa è in agguato. Romain Detré, 25 anni, è un genio. Le sue praline, fatte a mano, una per una, sono gioielli edibili, con dieci diverse variazioni: caramello, lampone, fragola alla vaniglia del Madagascar, fior di rosa, mango, fava d’oro, zenzero, ananas e cardamomo, London Earl Grey, fiore di violetta.
Tournai e i castelli della Wallonie
Intorno all’anno 450 Tournai (oggi 69.554 abitanti), bella città sulle rive della Schelda, la più antica della Wallonie, divenne la prima capitale dei Merovingi e, di conseguenza, la prima capitale di Francia. Oggi il suo passato religioso e nobiliare si rivede in un centro storico di evidente impatto medioevale. Il Beffroi (72 metri) è la torre civica più antica del Belgio, iscritta al Patrimonio Mondiale dell’UNESCO come la maestosa cattedrale di Notre Dame, detta “dei cinque campanili”, vertiginose torri verso il cielo alte 83 metri. La costruzione del monumento durò talmente a lungo che si nota l’impronta di tre stili: romanico, gotico e protogotico. Di grande impatto la Grand Place, celebre per l’inconsueta forma triangolare. Il momento più magico per ammirarla è quello della luce blu, quando il cielo cambia colore mentre le luci della piazza si accendono.
A questo punto il nostro viaggio punta verso i due castelli più celebri della regione: le Château de Beloeil, la Versailles belga, e Vêves, il maniero medioevale per eccellenza. Ma prima una sosta in trattoria, ma che trattoria! Una di quelle da non dimenticare assolutamente programmando il viaggio. E prevedendo almeno un paio d’ore di sosta. Ma questo ve l’ho già spiegato… Il nostro avamposto del gusto si chiama Taverne Saint-Géry, ed è sostanzialmente un minuscolo villaggio (avete presente quello degli hobbit?) a dieci minuti d’auto da Beloeil, nel cuore del Parc Naturel des Plaines de l’Escaut, tra praterie ingoiate dall’orizzonte fino all’infinito. Qua sembra che tutti si conoscano (e forse è proprio così), il menu, buonissimo, probabilmente non è mai cambiato negli ultimi cento anni: così il rigore della tradizione non è una scelta, ma un obbligo autoimposto. Se il cielo propone una di quelle giornate dove il vento scompiglia le nuvole ed esalta i raggi del sole, potreste pensare che il paradiso è qui, nel centro esatto d’Europa.
Il castello di Beloeil, coi suoi giardini alla francese (25 ettari di parco), e il grande specchio d’acqua, offre le prospettive di un rinascimento belga non poi così lontano – nelle architetture e nelle scelte estetiche – da quello francese di Versailles e della Loira. Quando lo si ammira dall’esterno il cinematografico maniero di Vêves ci trasporta risoluta mente in un medioevo di assedi e battaglie, di misteri e di intrighi, forse anche di streghe e sortilegi. Issato su un colle, circondato dalla foresta, sembra sia stato ultimato ancora ieri e invece ha ottocento anni. All’apparenza pare inespugnabile ma, per singolare contrasto, presenta un interno elegante e ricercato, merito delle scelte di Luigi XV di Francia. Ambivalenza architettonica dunque, col cuore severo e gentile, figlio del Rinascimento, protetto da bastioni pronti a fronteggiare ogni esercito ostile.
Dai castelli il nostro sguardo passa ai giardini, quelli fatati di Annevoie, tra Namur e Dinant. Creati 250 anni fa sono particolarmente teatrali, e tutto quel disegno di siepi, specchi d’acqua, laghi e fontane sembra nato apposta per ospitare commedie e concerti, Shakespeare e Lully, in un continuo gioco di incanti e incontri. Aggiungiamo, che i giardini sono gestiti all’insegna della più assoluta sostenibilità: i giochi d’acqua non prevedono macchinari e vengono alimentati seguendo i progetti originali. Inoltre, dal 2015, per rispettare la fauna e la flora di Annevoie, i lavori sono eseguiti in modo naturale e biologico, senza alcun prodotto fitosanitario.
Imperdibile Mons: arte, cultura e Google prima di Google
La visita a Mons inizia nel rispetto di un antico rito: si percorrono le vie del centro medioevale per sbucare nella Grand Place, fulcro della vita cittadina, con l’ininterrotta sequenza di locali e birrerie lungo tutto il suo perimetro. Si punta dritto il municipio per trovare quello che si cerca: il singe du Grand Garde, la piccola statua in ghisa (realizzata a metà ottocento, da chi non si sa), raffigurante per l’appunto una scimmia, con la mano sinistra sollevata. Accarezzarle la testa porta fortuna, convinzione assai radicata tra nativi e viaggiatori.
Ecco, ora siamo pronti ad esplorare una delle capitali culturali del Belgio, che lo fu anche dell’Europa nel 2015. Mons va scoperta con calma, e va studiata prima con una certa attenzione, perché cela i suoi segreti, che si rivelano solo se abbiamo occhi attenti. La Grande Place, con le sue facciate fiammeggianti, e l’Hôtel de Ville, si rivelano facilmente da sé, ma dopo inizia l’esplorazione. La vista migliore del centro storico si ottiene salendo (ascensore o scalini) dal seicentesco Beffroi (la torre civica, l’unica barocca del Belgio) che domina l’abitato coi suoi 87 metri di altezza. La fede degli abitanti di Mons si coglie invece nei grandi spazi dell’incompiuta collegiata di Sainte Waudru, la patrona. All’interno splendide statue e sculture di alabastro, ma anche il carro d’oro utilizzato durante la processione del Doudou di Mons. Già il Doudou, mirabolante rito medioevale che si celebra da 657 anni il 31 di maggio. Nel cerimoniale, un carro con le reliquie della santa chiude il corteo in costume che raggiunge la Grand Place. Qui, di fronte alla folla, avviene il combattimento detto Lumeçon, dove si affrontano San Giorgio e il drago. Questa eterna lotta tra il bene e il male ha meritato il riconosci mento come Patrimonio Immateriale dell’Umanità dall’UNESCO. Al Doudou, che poi sarebbe la colonna sonora dell’evento, è dedicato un museo: l’occasione migliore per vedere foto e filmati di questa irresistibile follia popolare.
La vita culturale di Mons è attiva tutto l’anno, con mostre, concerti ed eventi. A questo proposito va segnalato l’appuntamento clou dell’anno: l’esposizione Rodin, un rinascimento moderno, al Museo delle Belle Arti fino al 18 di agosto. Si tratta di una formidabile immersione nell’arte del massimo scultore della sua epoca. Sono proposte duecento opere dell’artista, con alcuni dei suoi capolavori iconici. L’allestimento, per luminosità e spazio, esalta le statue, permettendo di osservarle da differenti punti di vista. Una mostra che, da sola, giustifica il viaggio. E siamo arrivati al momento del Mundaneum, la massima scoperta culturale e umanistica del nostro percorso. Questo istituto, che è anche museo visitabile, raccoglie oltre sei chilometri di documenti che rappresentano il primo, e formidabile, repertorio iconografico universale. Concepito dalla mente visionaria di Paul Otlet, riconosciuto come uno dei padri di internet, ed Henri La Fontaine, premio Nobel per la pace. Obiettivo di questo immenso lavoro, interamente scritto a mano, con quattrocentomila schede accuratamente catalogate, era quello di fornire le coordinate (bibliografiche) per ogni possibile attività del genio umano: letteratura, storia, medicina, architettura, scienza nelle diverse discipline… Il presupposto, filosofico ma soprattutto politico, era che la felicità e l’affermazione dell’individuo potesse passare solo attraverso la cultura. Utopia che precorre i tempi, una Google di carta 100 anni in anticipo su quella odierna.
Si percorrono silenziosamente corridoi affacciati verso la grande sala centrale, dove un immenso globo luminoso, sospeso dal soffitto, ruota su se stesso. Da rue de Nimy 76 non si vorrebbe più uscire. Sarà per la parentela con questo luogo che Google ha deciso di collocare uno dei suoi data center proprio nelle vicinanze di Mons? Forse si, e non è certo un insediamento qualunque, trattandosi del primo data center Google al mondo a funzionare completamente senza refrigeratori meccanici ad alto consumo energetico. E siamo all’anima contemporanea della città.
Oltre alla multinazionale americana di tecnologia specializzata, Mons ospita, dal 1967, il Supreme Headquarters Allied Powers Europe della NATO (abbreviato in SHAPE, ndr), praticamente il cuore pulsante dell’Alleanza atlantica. Sul fronte archi tettonico e della vita civile, questa capitale culturale di 95.229 abitanti espone due opere di assoluto livello: la spettacolare stazione ferroviaria di Calatrava, che però deve essere ancora completata, e l’International Congress Xperience firmato da Daniel Libeskind. In questo caso si resta ammirati da un’astronave aliena atterrata nel cuore d’Europa: forme geometriche contrastanti, 12.500 metri quadrati di superficie, tre auditorium, una sala eventi e tante altre cose… L’architetto lo ha presentato con queste parole: «Abbiamo utilizzato gesti progettuali semplici ma drammatici, materiali locali e un programma flessibile per questo modesto gioiello d’edificio».
E adesso prendiamo fiato per esplorare due tappe della Mons gourmet. La Table du Boucher è un tempio della carne consacrato dallo chef Luc Broutard. Il suo è innanzitutto un lavoro di ricerca, per scovare quei tesori nascosti che sono alle base delle proposte che ogni giorno mette in tavola, con variazioni sul menu pronte ad assecondarlo. Poi, dalla cacciagione alla griglia, la carne resta regina, prodotto ancestrale sempre pronto a rinascere. L’Art des Mets è il ristorante che si vorrebbe incontrare in ogni viaggio: cucina di ricerca solidamente appoggiata sulla tradizione, quindi piatti unici, ben pensati, diversi da tutti gli altri. Un soggiorno a tavola con tante belle sorprese. E poi un personale caloroso e simpatico senza essere invadente. Così ci si lascia andare alla curiosità reciproca e si completa la serata. I miei highlights: il foie gras de canard spadellato con verdure di stagione, la tajine de ris de veau con il tartufo fresco e, per finire, uno champagne gourmand dove le bollicine sono di Edmond Roussin.
E adesso il luogo dove prendere alloggio. L’antica abbazia delle Sorelle di Belian è stata trasformata, in hotel di charme a quattro stelle (il Martin’s Dream Hotel, ndr), pur mantenendo molti elementi dell’architettura originale. Potrete soggiornare a Mons in quella che è l’atmosfera caratterizzante della città: la fusione, qualche volta azzardata, tra antico e contemporaneo. In questo boutique hotel, gli arredi di design si affacciano verso l’esterno, oltrepassando le antiche finestre a rosone, comfort ottimale e suggestione allo zenith. Appena fuori Mons merita una sosta il Grand-Hornu, l’antico complesso industriale per l’estrazione del carbone. Questi grandi spazi – impressionante il cortile circolare– rivivono attraverso un’attività culturale basata sull’arte contemporanea. Archeologia industriale rivitalizzata con approccio visionario.
L’ultima tappa del nostro viaggio si trova alle porte di Charleroi, ed è il più grande museo d’Europa dedicato alla fotografia, con un’estensione di ben 6.000 metri quadrati. Possiede un patrimonio di 100.000 fotografie, 800 delle quali costituiscono l’esposizione permanente, un vero viaggio nel tempo dalle origini ai maestri, dalle diverse tematiche alle pubblicazioni d’epoca. Solitamente si possono ammirare almeno tre mostre temporanee, di insindacabile levatura internazionale.
Questo viaggio nel cuore d’Europa ci ha fatto comprendere che la qualità di un territorio si misura con la sua capacità di sintesi: tra il patrimonio della storia e la propensione al futuro, tra lo studio delle arti e la necessità di comunicarle, tra il rispetto delle tradizioni e il piacere dell’accoglienza, tra l’immutabile e la creatività. Così la Wallonie si rivela una continua sorpresa oltre la calma. Perché a volte sono i piccoli viaggi a fare l’uomo grande.
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Viaggio nel mondo dell’izakaya, con Donburi House
Hirayama quando finisce il suo lavoro ai bagni pubblici di Shibuya, si gode un bicchiere di shochu al solito izakaya, legge un libro di seconda mano sul suo futon e poi si addormenta. Arisu nei suoi ricordi felici è seduto affianco a due amici, al bancone di un locale in cui progettano il loro riscatto sociale, ridendo delle sfortune, e mettendo in tavola i propri sogni. Jiraiya e Tsunade, uno di fronte all’altra, sul tavolo piatti vuoti e un avanzo di yakitori, insieme a un passato nostalgico e a un presente colmo di responsabilità. Perfect Days, Alice in Borderland, Naruto… L’importanza del cibo, e in particolare del concetto di izakaya, ci viene raccontata in maniera evidente da alcune delle principali forme espressive nipponiche: anime, manga, cinema. Questo perché l’izakaya è molto più di un locale: è un tratto del DNA del Giappone.
Ma facciamo un passo indietro: cosa significa izakaya? Partiamo dunque dal termine in sé, che una volta scomposto ci racconta del suo significato: i (sedersi), saka (bevanda alcolica), ya (negozio). Quindi, letteralmente, quel negozio/locale in cui ci si siede per bere. In realtà il predecessore dell’izakaya era il tachinomiya, altro termine composto (tachi fa riferimento allo stare in piedi e nomi al gesto del bere) che ci illustra un format di locale in cui si beve stando però in piedi. In quest’ottica troviamo grandi somiglianze con il rito dei pub inglesi, luoghi in cui, una volta terminato il lavoro, si va a bere con amici e colleghi, stando appunto in piedi. Nel linguaggio quotidiano i locali di izakaya che non appartengono alle grandi catene (sempre più diffuse) vengono chiamati akachōchin, in richiamo alle lanterne rosse che campeggiano all’esterno del locale stesso, e che rappresentano una delle caratteristiche tipiche degli izakaya. Peculiarità a cui dobbiamo sicuramente aggiungere le tendine noren e i classicissimi banconi con sgabelli spesso affacciati sui cuochi intenti a preparare le portate.
Ecco, cosa si mangia in un izakaya? In realtà esistono varie tipologie di izakaya, che si differenziano spesso anche dalla scelta dell’offerta culinaria. Per esempio gli Yakitori-ya si caratterizzano per i già citati yakitori, ovvero i tipici spiedini giapponesi. Oppure i Robatayaki, che hanno al loro interno uno spazio in cui gli chef grigliano frutti di mare e verdure di fronte ai clienti. O ancora gli Odenya, delle bancarelle in stile street food, che servono principalmente oden, una zuppa calda super tipica del Giappone. Ma ovviamente uno dei maggiori protagonisti della cultura food nipponica è sua maestà il ramen: una ciotola di noodles in brodo, la cui particolarità sta proprio nel brodo che ha una preparazione laboriosa e una cottura lunghissima, e nei topping che completano il piatto (spesso in modo molto colorato) e che hanno contribuito a rendere il ramen uno dei piatti simbolo del Paese.
Cosa si beve negli izakaya? Principalmente birra e sakè (a cui dedicheremo più avanti un box ad hoc), bevande che i giapponesi adorano, e con cui capita che esagerino… L’izakaya d’altronde è anche il luogo della “distensione” e di una certa libertà (termine che dobbiamo pesare con grande attenzione in quanto la nostra cultura e quella nipponica sono comunque molto diverse), e spesso il gesto del bere diventa un vero e proprio rito. Tradizione vuole che, concluso il turno di lavoro, i colleghi si rechino in un izakaya per mangiare e bere insieme.
Così l’izakaya diventa occa sione per conoscersi, socializzare, raccontarsi. Spesso è il senpai (ovvero il maestro, o capo dell’ufficio) che offre ai più giovani, e in generale i “veterani” sono chiamati a spiegare ai novellini, attraverso storie e insegnamenti, come funzionano lavoro e vita. All’interno del percorso di crescita di un giovane giapponese l’izakaya diventa dunque un momento fondamentale di formazione e ingresso in società. Poi chiaramente c’è anche spazio per divertimento, lamentele della giornata lavorativa e altro. Vista così, oltre che con i pub britannici, viene spontaneo anche il paragone con le nostre osterie di un tempo, ma vi è una differenza fondamentale: gli izakaya sono un fenomeno che in Giappone non è solo di moda, ma in crescita. Specie per l’aumento della popolazione di donne indipendenti, studenti che vivono da soli e per un certo stress lavorativo cui molti lavoratori sono costretti.
Per chi è affascinato dalle usanze del Sol Levante (e anche delle sue, per noi, stravaganze), gli izakaya sono più che un locale, in quanto veri e propri spaccati di una cultura vastissima e interessantissima. E chi segue in modo aggiornato le serie animate made in Giappone non potrà che pensare a quanto, per esempio in Chainsaw Man (citando un prodotto recentissimo), le tavole degli izakaya siano autentici spartiacque di rapporti, amicizie, amori. Proprio per valorizzare questa fascinazione, e sfruttando un know-how profondo, è nata l’idea di Donburi House, uno dei primi (e real) locali in stile izakaya d’Italia, oggi presente a Torino e ad Aosta.
Noi abbiamo incontrato Max Chiesa, creatore di questo progetto, per farci raccontare dietro le quinte e sviluppi alla base di questa particolare avventura.
Partiamo dall’inizio: come nasce l’idea di Donburi House?
«L’idea iniziale era quella di portare il format dell’izakaya qui da noi. E quindi un locale molto informale, in cui mangiare sì, ma soprattutto in cui conoscersi, stare vicini, sentirsi a casa».
Una formula un po’ diversa da quella a cui siamo abituati?
«In parte sì, l’izakaya è molto importante per la società giapponese: è il luogo della socialità, in cui ci si ritrova dopo lavoro, e in cui si va anche da soli per fare due chiacchiere con il nostro vicino di bancone».
Si creano legami insomma?
«La cultura giapponese è meno espansiva della nostra, c’è più “distanza”, meno contatto… L’izakaya è il posto che avvicina le persone, anche fisicamente, perché questi locali sono spesso piccoli».
Il primo Donburi House quando e dove nasce?
«A gennaio 2020, in via Maria Vittoria a Torino, dove si trova tuttora».
In un momento non semplicissimo…
«Per nulla. Infatti all’inizio grande focus era sul delivery e il ramen non era protagonista assoluto. La svolta è invece poi avvenuta quando il ramen è diventato il principale attore di Donburi. Siamo andati un po’ in controtendenza (come spesso ci capita), e abbiamo fortemente creduto in un format di locale che unisce e mette a proprio agio».
All’inizio infatti il piatto principale di Donburi House era, e non è difficile intuirlo, il donburi, poi sostituito dal ramen (di cui abbiamo già parlato) che oltre a essere un piatto cult della cultura nipponica, è anche un vero e proprio trend per noi italiani. In base a cosa lo diciamo? Semplice, guardando i dati: negli ultimi 20 anni di ricerche su Google, il termine ramen (e quindi ricette, storie, video tutorial…) è passato da essere praticamente sconosciuto a uno dei più ricercati dagli italiani. Un’evidenza che riassume perfettamente la sempre maggiore influenza che il mondo nippo-asiatico esercita su noi italiani. Quella per il Giappone è ormai una vera e propria passione, che passa soprattutto per una cultura pop (cinema, anime, manga) sempre più rilevante nel nostro Paese; e non a caso siamo partiti proprio da lì per il nostro viaggio nel mondo dell’izakaya.
Quanto è importante questo “fascino” nella storia di Donburi House?
«Credo che per troppo tempo la cucina giapponese sia stata per gli italiani solo sushi; mentre invece un po’ alla volta sta venendo fuori la profondità di questo mondo. Grazie anche a una curiosità che è sicuramente legata alla voglia di scoprire il Giappone a 360°».
Però da voi si mangia soprattutto ramen…
«I giapponesi nella loro cultura sono molto “specialisti”. Individuano ciò che sanno fare bene e continuano a perfezionarsi. Gli stessi izakaya sono specializzati in qualcosa, e anzi cambiano perfino nome in base alla specializzazione».
Perché il ramen?
«Intanto perché io lo adoro. E poi fa subito casa… è veramente un piatto speciale, conviviale, quasi spirituale. Noi oggi ne proponiamo cinque versioni, in un menù che aggiorniamo ciclicamente».
Le persone come hanno accolto la “novità”?
«Con tanta curiosità, ed entusiasmo. Devo dire che nel giro di un anno c’è stata una crescita veramente importante, e soprattutto costante. Di tanti clienti affezionati e anche di tanti concorrenti. Abbiamo aperto un “campionato” e ora c’è da essere bravi».
Tutti inizieranno a fare ramen?
«Tutti non credo, ma tanti sì. È un fenomeno in forte crescita e apriranno molte attività di questo tipo. A noi va benissimo, anzi, più cultura si fa sul tema, più siamo felici. L’importante è tenere alta la qualità, rispettando l’izakaya, senza rovinare un modo di pensare la ristorazione veramente unico».
Il secondo Donburi House ha aperto a breve distanza dal primo, ad Aosta, a dicembre 2021, con caratteristiche praticamente uguali al primo, inaugurando un progetto di franchising/catena con l’obiettivo di raccontare anche fuori Torino il mondo dell’izakaya. Un universo che a novembre 2023 si è ulteriormente allargato con un altro Donburi House, nuovamente in città, in via Stampatori 12.
Ogni apertura è un successo fin da subito, perché?
«Perché facciamo le cose bene. Perché ogni anno andiamo in Giappone per restare “aggiornati”. Perché pur allargandoci manteniamo tutto centralizzato: dalle produzioni al design è tutto deciso dal board che ha creato Donburi House».
Siete mai scesi a compromessi per accontentare il pubblico italiano?
«No, e in realtà credo sia una delle scelte vincenti. I clienti vogliono autenticità. Il periodo del “fusion” è finito. Donburi House è affascinante perché autentico, e stimolante perché nuovo».
Adesso qual è il sogno?
«Ovviamente continuare a crescere. E poi arrivare a far parlare di ramen, yakitori, izakaya… quando si tratta di cucina giapponese, e non solo di sushi. Siamo un po’ ambasciatori del patrimonio culturale ed emotivo che questi termini rappresentano».
Il progetto “pratico” invece?
«Quello è già in cantiere, e prevede prossimamente quattro nuove aperture tra Rivoli, Cuneo, Torino e Milano».
Donburi House è una case history interessante, perché prima di essere un piccolo universo di ristorazione in espansione, è uno specchio su una cultura, quella dell’izakaya, allo stesso tempo affascinante e un po’ lontana. Una storia di studio, scommesse vinte e intuizioni che collega Torino al Giappone; e che ci racconta di quanto le persone oggi cerchino ottime proposte food, ma soprattutto idee nuove e curiose.
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La Ristoguida in breve: 50 tra i migliori ristoranti di Torino e dintorni
Al Cacimperio
in via Lamarmora 17
Ottimo posto per mangiare carne su griglia a Torino. Al Cacimperio è un grande classico, con tagli di carne pregiata italiani e dal mondo, e la griglia a centrotavola.
Andirivieni
in via Edoardo Rubino 43
Socialità, inclusione, buona cucina. Questo ristorante all’interno di Cascina Roccafranca è un’ottima osteria etica in cui mangiare ricette contemporanee e ben fatte.
Antonio Chiodi Latini
in via Bertola 20
Uno dei migliori ristoranti in città per degustare cucina vegetale d’alto livello. Complice la mano di chef Antonio Chiodi Latini, il cuoco della terra. Prezzi un po’ elevati, ma vale l’esperienza.
Azotea
in via Maria Vittoria, 49
Il miglior abbinamento cocktail-piatti d’Italia. Lo dice il Gambero Rosso. La cucina nikkei, ovvero giapponese-peruviana di chef Robles è già un cult torinese.
Barbagusto
in via Belfiore 36
In San Salvario una piola gestita da giovani, un luogo di risate e belle accoglienze, di cucina semplice e spontanea. Una trattoria urbana di cucina piemontese, con il giusto mood.
Bifrò
in via Mazzini 23
Tra le 21 migliori steakhouse d’Italia una è a Torino, ed è Bifrò. Prezzi medio-alti, ma qualità della carne veramente spaziale.
Caciucco
in via Amedeo di Castellamonte 2 a Venaria Reale
Il ristorante Caciucco si è spostato a Venaria, ma la formula vincente è sempre la stessa. Menù degustazione originale, divertente, con tanto pesce e soprattutto tante idee.
Caffè dell’Orologio
in via Morgari 16
Altra piola in San Salvario, un luogo da vivere tutto il giorno, con una cucina schietta e per certi versi d’altri tempi. Prezzi e cucina onestissimi: un’ottima idea per una trattoria semplice in cui mangiare bene.
Cannavacciuolo Bistrot
in via Umberto Cosmo 6
Antonino Cannavacciuolo non ha bisogno di presentazioni. Questo è il suo bistrot torinese. Emanazione della leggenda che ormai avvolge lo chef campano. Ha una stella Michelin, e quindi merita l’esperienza.
Carignano
in via Carlo Alberto 35
Una stella Michelin per il ristorante Carignano e quel geniale chef che è Davide Scabin. Uno dei più talentuosi chef italiani di sempre. Fiore all’occhiello di Torino.
Coco’s
in via Bernardino Galliari 28
Una delle ultime piole vere e veraci di Torino. Affianco al mercato di piazza Madama. Una trattoria urbana capace di attraversare le epoche e affascinare con la propria poetica semplicità. E con il gusto.
Condividere
in via Bologna 20
Condividere è stato sicuramente per un po’ di tempo uno dei più interessanti ristoranti in città. Un format nuovo, di condivisione appunto, curato dall’estro di chef Zanasi. Una meritata stella Michelin.
Contesto Alimentare
in via Accademia Albertina, 21
Ristorante piccolo, intimo, in centro città, che Francesca e Matteo hanno portato nel tempo a essere uno dei più amati dai torinesi. Piatti semplici ma curatissimi, e tanto gusto. Un cult? La panna cotta alla lavanda.
Cucina cinese
in via Madama Cristina 113
Cucina cinese di nome e di fatto. Vera, verace, a prezzi onestissimi. Niente a che vedere con la cucina cinese commerciale che si trova solitamente in giro. Per gli amanti del genere è un posto top.
Da Gino Pizzeria
in via Monginevro 46
Dovevamo scegliere una regina delle pizze al padellino di Torino. Non è facile. Ci sono Cecchi in via Nicola Fabrizi. C’è Da Michi in via San Donato. Il Cavaliere in corso Vercelli. E tanti altri. Ma per noi la pizza al tegamino, gloria e vanto di Torino, è da Gino in via Monginevro. Dove anche la farinata è spettacolare.
Del Cambio
in piazza Carignano 2
Forse una delle location più belle della città. Qui veniva a mangiare Cavour. E qui oggi cucina Matteo Baronetto, chef con una stella Michelin, e fiero alfiere della cucina piemontese d’alta classe.
Dolce Stil Novo
in piazza della Repubblica 4 a Venaria Reale
Dal 1994 chef Alfredo Russo è stellato Michelin, e dentro la Reggia di Venaria da trent’anni propone una cucina d’alta gamma, curata, intelligente e innovatrice quanto basta.
Felicin alla Consolata
in piazza della Consolata 5
Affianco al caffè del Bicerin. Venite qui per mangiare a pranzo i tajarin al ragù. Oppure per un aperitivo con calice di vino e crostini piemontesi. Felicin a Torino è la Langa in formato bistrot.
Gardenia
in corso Torino 9
Mariangela Susigan è una chef geniale. Con grande attenzione alla cucina green, e soprattutto con notevole talento, che le è valso una stella verde Michelin. Vale l’esperienza, specie per il menù degustazione.
Griglio
in via Lanzo 57
Capostipite del format delle macellerie con cucina. Per gli amanti della buona carne cotta su griglia (spiedini, costine, bistecche…) questo posto è praticamente il paradiso.
Il Barbabuc
in via Principe Tommaso 16
Ristorantino intimo di cucina piemontese, con qualche incursione da altre culture gastronomiche. In cucina chef Alberto, giovane, bravo e giramondo. Un posticino dai gusti molto interessanti.
Kadeh Meze Wine Bar
in via della Basilica 1
Meze e wine significa tipo mangia e bevi. Ecco quindi un tapas-bar turco nato dall’estro e della determinazione del giovane chef Stefan Kostandof, che ha consegnato a Torino un locale nuovo, fresco e intrigante.
Kenshō
in via dei Mercanti 16
Secondo noi il miglior ristorante giapponese di Torino. Prezzi un po’ alti ma nel complesso giusti per una cena che diventa non solo un’occasione di gusto, ma una vera esperienza di sensazioni che una volta almeno bisogna provare.
Kirkuk Kaffe
in via Carlo Alberto 16
Approdo sicuro per chi volesse gustarsi un po’ di sana cucina curda. Un bel viaggio tra sapori e soprattutto profumi del Medio Oriente. Tra spezie, tante verdure, ottimo tè e dolci sfiziosi.
L’Ancora
in via della Rocca 22
Andate qui per la buona cucina di pesce. Specie se crudo. Ma anche per gli ottimi primi o le spadellate di gamberi e piatti simili. Prezzi medio-alti, ma L’Ancora non si discute. Sempre un ottimo consiglio.
La Credenza
in via Cavour 22 a San Maurizio Canavese
Una stella Michelin per uno dei ristoranti stellati più famosi e storici della città. Un breve fuoriporta vi porterà in un vero tempio dell’alta cucina del territorio.
La Ferramenta del Gusto Emiliano
in via Giacosa 10
Il miglior posto in città in cui mangiare cucina emiliana. Quindi lasagne, tagliatelle, salumi… Un nome, una garanzia, che nel tempo si è ritagliato parecchio spazio a Torino.
La Taverna di Frà Fiusch
in via Beria 32 a Moncalieri
In realtà questa taverna è a Revigliasco. Ed è un bel ristorante, con una mentalità da trattoria. Quindi piatti curatissimi, ma autentici, e quasi tutti della tradizione di campagna piemontese.
Le Ramine
in via Isonzo 64
La definiremmo una bella trattoria torinese di classe e di quartiere. Che esalta al meglio dimensione “popolare” e allo stesso tempo una naturale eleganza. Il tutto non propriamente in centro città.
Madama Piola
in via Ormea 6
Piola di lusso in San Salvario. E non perché sia cara, anzi il rapporto qualità-prezzo è eccellente. Ma perché porta le ricette delle piole torinesi in una veste e con una cura un po’ più alta. Un ottimo esperimento ben riuscito. E non era scontato.
Magorabin
in corso San Maurizio 61
Marcello Trentini, una stella Michelin, è stato per tanti anni lo chef più punk della città. E nonostante il tempo passi è sempre lì, tra nuove idee, ottima cucina e ambiziosi progetti.
Mollica
in piazza Madama Cristina 2
Questi panini sono stati nominati miglior street food del Piemonte nel 2022. e probabilmente quelli di Mollica Piccoli Produttori sono tra i panini oggettivamente più buoni della città. Componeteli da soli, o lasciatevi guidare da loro.
Opera
in via Sant’Antonio da Padova 3
Stefano Sforza è uno chef di quelli bravi. Che cucina con estro ed eleganza. In questo ristorante d’alta classe che strizza l’occhio alla stella Michelin.
Osteria Antiche Sere
in via Cenischia 9
Obbligatoria la prenotazione per quella che è una delle migliori trattorie della città. Premiatissima e con merito. I prezzi si sono un po’ alzati, ma tutt’ora sono in pochi a riuscire a raccontare il Piemonte così bene attraverso dei piatti.
Osteria Rabezzana
in via San Francesco d’Assisi 23
Luogo di vino (perché è anche enoteca), buona cucina e musica. Tanti concerti all’Osteria ed eventi interessanti, ma soprattutto l’ottima cucina del territorio di chef Giuseppe Zizzo, ormai piemontese d’adozione.
Pescheria Gallina
in piazza della Repubblica 14
Trovate Gallina anche in San Salvario, ma noi vi consigliamo il luogo in cui tutto è iniziato. A Porta Palazzo, per comprare o degustare pesce freschissimo. Beppe Gallina è oggi un vero cult cittadino.
Piola Da Celso
in via Verzuolo 40
Piola autentica in zona Cenisia. Popolare nei piatti e nei prezzi, ma sempre curata. Un successo da sempre, e infatti la folla ne è chiara dimostrazione. Necessario il giro di antipasti.
Ristorante Consorzio
in via Monte di Pietà 23
Storico Tre Forchette della guida del Gambero Rosso. Questo è il classico posto in cui mandi qualcuno se vuoi raccontargli la cucina piemontese fatta per bene. Consigliata la prenotazione.
Ristorante La Pista
al quarto piano del Lingotto
Si tratta del ristorante sul tetto del Lingotto. La cucina di chef Alessandro Scardina strizza l’occhio alla stella Michelin con menù degustazione da fuochi d’artificio. Lui è bravo, giovane e consigliato.
Ristorante Larossa
Via Sabaudia 4
Chef Alessandro Larossa è giunto a Torino portandosi la stella Michelin. Uno dei re dei risotti del Piemonte si è piazzato a in città dunque, con tanta voglia di fare bene.
Scannabue
in largo Saluzzo 25
Sicuramente nella top 5 dei ristoranti in cui mangiare il buon Piemonte a Torino. Laurea ad honorem per la guancia brasata, la battuta di fassona e il bunet.
Sestogusto
in via Mazzini 31
Non la solita pizza, non le solite farine o le solite offerte. Ecco una delle poche pizze che possiamo orgogliosamente definire gourmand. Per una pizza speciale Sestogusto è un’ottima idea.
Suki
in via Amendola 8
In realtà ha due sedi: quella più da ristorante è in via Ormea. Ma noi segnaliamo la formula pranzo in stile bento del Suki di via Amendola; perché è divertente, sa stupire e ha un prezzo onestissimo.
Sushi del Maslè
in via Mazzini 37
Il sushi di carne a Torino ha un nome: Sushi del Maslè. Qui è nata questa moda, che poi si è espansa (vedi il Sushi del Manzò di via Gramsci), ma il Maslè resta un solido punto di riferimento.
Taverna Greca
in via Monginevro 29
Nota di merito per Greek Food Lab in via Berthollet, ma per noi la cucina greca a Torino è la Taverna Greca in via Monginevro. Piatti ricchi, clima rustico, prezzi giustissimi. Proprio come in Grecia.
Trattoria della Posta
in strada Mongreno 16
Una delle trattorie più antiche di Torino, con la famiglia Monticone che dagli anni ’50 se ne prende cura. Cult il giro di antipasti, imprescindibili gli agnolotti, speciali i formaggi.
Trattoria Lauro
in via Airasca 13
Chi l’ha detto che la piola a Torino deve proporre solamente insalata russa, vitello tonnato e battuta al coltello? Lauro è la piola torinese in formato cucina di pesce. Dagli spaghetti alle fritture. Meglio prenotare.
Unforgettable
in via Lorenzo Valerio 5
La tavola del talentuoso Christian Mandura vale la stella Michelin. Al centro c’è la cucina vegetale, ma soprattutto l’estro di un giovane chef prodigio diventato ormai grande. Unforgettable è un’esperienza sensoriale a tutto tondo.
Vale un Perù
in via San Paolo 52
La cucina peruviana a Torino si mangia in molti luoghi meritevoli di nota. Ma se dobbiamo sceglierne uno, diciamo il papà di tutti gli altri. Per noi il top del top: Vale un Perù. Ceviche, pisco e maracuja al massimo della forma.
Vintage 1997
in piazza Solferino 16
La stella Michelin più longeva di Torino, da oltre vent’anni. A volte è uno snobbato, ma se il Vintage si riconferma ogni anno è perché se lo merita. Un grande classico della cucina torinese.
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A spasso per Torino: uno scorcio su piazza CLN
Troppi spunti per una piazza sola, piazza San Carlo, dunque è l’ora di effettuare un salto metafisico in piazza CLN che arrivando dal salotto di Torino ci regala uno shock visivo degno dell’opera di De Chirico. Un’atmosfera (specie la sera) alla Edward Hopper che convinse Dario Argento, per il suo capolavoro ‘Profondo Rosso’, a scegliere come location questa piazza senza alcun tipo di compromesso o alternativa. Siamo meravigliati nello scoprire come, a distanza di 100 anni, le linee e le forme dell’architettura neoclassica e razionalista del Piacentini, anche se molto probabilmente non rispecchiano i canoni della divina proporzione di Luca Pacioli, siano ancora di una modernità e fascino fuori dal comune, rivelando ad alcuni di noi il segreto dell’armonia delle cose visibili.
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