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Torino, inverno 2018
Che luogo magico, il set di un film. Quale frenesia coglie l’ospite che s’appresta a calcare la scena e che muto aspetta le mitiche parole: «Ciak, si gira». Eppure, a volte, il set può essere anche un luogo convulso, caotico, freddo, all’insegna di un’organizzazione perfetta quanto disumana. Paradossalmente, può diventare un posto lontano dal cinema stesso e dall’idea di recitazione che domina il nostro immaginario. Cavi, binari, luci e telecamere dominano il set rendendolo un percorso di guerra mentre attrezzisti, truccatori e assistenti lo attraversano come dovessero espugnarlo. In un simile contesto diventa difficile percepire il pathos previsto nella sceneggiatura di un dramma o il trasporto emotivo di un dialogo d’amore.
A volte, il set può essere anche un luogo convulso, caotico, freddo, all’insegna di un’organizzazione perfetta quanto disumana. Paradossalmente, può diventare un posto lontano dal cinema stesso
Qualche volta il set diventa tensione allo stato puro ed è bellissimo vedere la trasformazione di tanto trambusto in un lungometraggio dalle atmosfere profonde e rarefatte. Silenziose e riflessive. Ricordo ancora la visita sul set di ‘Dove non ho mai abitato’, film di Paolo Franchi girato a Torino, in cui la scena era ambientata in ALTEC, società controllata da Thales Alenia Space e ASI (Agenzia Spaziale Italiana). All’interno di questa struttura bellissima – che rappresenta un’eccellenza nazionale a supporto delle operazioni e dell’utilizzazione della Stazione Spaziale Internazionale – era impensabile che si realizzasse un sottile, affascinante melodramma. Sembrava impossibile che lo stato di tensione che si aggirava sul set esplodesse in una storia di sentimenti implosi, silenzi prolungati ed emozioni trattenute. Ricordo ancora le innumerevoli difficoltà che incontrò la Film Commission Torino Piemonte, costretta a interrompere le riprese per organizzare la conferenza stampa di presentazione del film proprio sul set: un delirio.
Sembra assurdo, ma tutto quell’apparente disordine seguiva un programma di produzione ben preciso e le urla che si accavallavano erano ordini che seguivano un rigido schema. L’attore che girava quella scena era Fabrizio Gifuni: un elegante felino che aspettava impassibile l’urlo del ciak, da cui riprendeva con puntualità impeccabile il suo monologo. In quel momento, ho visto il professionista che nulla può scalfire e che domina la scena senza che alcuno possa turbarne la concentrazione e la capacità recitativa. Sarei impazzita se avessi dovuto interpretare un personaggio difficile come Massimo, l’architetto protagonista, mentre uomini, macchine da presa e cavi m’imbrigliavano come una preda. Fabrizio, invece, aveva l’aria di non percepirne neppure l’ombra, prestando invece la massima attenzione a ogni indicazione di regia.
Vedere la proiezione del film in sala è stato come assistere a un miracolo, dopo la visita sul set: i luoghi, protagonisti assoluti della storia, trasformati nel rifugio in cui dimora l’anima; Torino esaltata nel suo splendore di città d’epoca e di confine; la fotografia di Fabio Cianchetti valorizzata da luci e ombre; il montaggio di Alessio Doglione rigoroso e pudico, tanto da trattenere i sentimenti sull’orlo di un precipizio. Emmanuelle Devos intensa, profonda; Giulio Brogi splendidamente fragile nel ruolo di un eclettico, celebre architetto; Fabrizio formidabile interprete, capace di lavorare sulla sottrazione per rendere il suo personaggio affascinante e imploso. Di quella scena ricordavo un marasma, ma lui ha saputo cercare dentro di sé gli strumenti per interpretare la volontà del regista e dell’autore. Chapeau.