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Torino, Speciale Territorio 2024
Nel mondo in cui viviamo, un film come Past Lives sembra un gesto di ribellione, quasi rivoluzionario. Sopravviviamo a stento, vittime della frenesia che domina le nostre giornate. L’ansia da prestazione, l’immediatezza delle comunicazioni, l’assoluta mancanza di una parvenza di pudore riduce i rapporti tra umani, anche quelli amorosi, a nevrotici confronti fallimentari.
Nel mondo occidentale la dittatura del linguaggio imposta dai social rende usuale la pubblicazione di una dichiarazione d’amore che, in tempo reale può, paradossalmente, essere letta da uno sconosciuto dall’altra parte del mondo. In questo contesto, il nostro Celine Song, drammaturga al suo primo lungometraggio, ha scritto una storia d’amore tanto potente quanto inespressa.
È la storia, ambientata a Seul, di Na Young e Hae Sung che fin da bambini hanno iniziato ad amarsi in silenzio, senza mai confessarselo, fino al momento in cui vengono costretti alla separazione per il trasferimento a New York della famiglia di Na Young. Il loro addio è silenzioso e potente come il sentimento senza filtri che solo due bambini possono nutrire. Solo dodici anni dopo, attraverso Facebook, Hae Sung rintraccerà Na Young (che in Occidente è diventata Nora) intrecciando con lei una relazione virtuale a distanza.
Il pianto disperato e liberatorio di Nora dopo l’ultimo, definitivo addio al suo grande amore mai vissuto
Grande maestria nella scrittura di questo film in cui i dialoghi sono composti da timide esternazioni alternate a lunghi silenzi. Eloquenti gli sguardi pieni d’amore senza che nessuno accenni mai al possente sentimento che li lega da sempre, eppure, non si incontreranno neppure questa volta perché Nora deve partecipare a un ritiro di scrittori a Montauk, e Hae Sung è in procinto di partire per la Cina per imparare il mandarino.
Straordinariamente contemporanea, la storia prevede che sia la donna l’elemento pragmatico della coppia, e sarà proprio lei a chiudere la relazione resa impossibile dalla distanza e dalle carriere. Dodici anni dopo, di nuovo, Hae Sung decide di partire per New York tentando l’ardita impresa di rivedere il suo indiscusso, impossibile amore, Nora, che ormai vive nella metropoli americana con suo marito Arthur, scrittore statunitense di origini ebree. L’incontro tra loro è etereo, sognante, colmo di quel sentimento trattenuto che hanno mantenuto intatto nel tempo. La narrazione si fa ancor più raffinata e contemporanea quando tra i due uomini s’instaura un rapporto di profonda solidarietà. Non un bacio tra Hae Sung e Nora, né una esplicita dichiarazione d’amore, secondo i dettami della temporalità e del destino concepiti dalla filosofia orientale.
Geniale ed estraniante il prologo ambientato in un bar di un luogo non ancora identificato mentre due voci fuori campo ipotizzano il ruolo dei tre protagonisti, prima che la storia si dipani. In un mondo di narcisisti compulsivi, il nostro, questa delicata storia mostra il fascino e la potenza del sentimento arginato, iperbole dell’anima a noi sconosciuta. Solo nell’ultima scena un piccolo gesto è bastato a sprigionare tutto il pathos che la platea aveva accumulato: il pianto disperato e liberatorio di Nora dopo l’ultimo, definitivo addio al suo grande amore mai vissuto.