L’inglese, si sa, è la lingua più parlata al mondo, con oltre 1,3 miliardi di madrelingua e non. È la lingua ufficiale in 53 paesi e viene utilizzata nelle principali organizzazioni internazionali, dal business alla diplomazia. Inoltre, circa il 60% dei contenuti online è in inglese, rendendolo essenziale per chi vuole accedere a informazioni, formazione e opportunità globali.
Ma tutti questi dati alla fine vanno a rimarcare qualcosa che in fondo già sapevamo: conoscere l’inglese è un plus abbastanza irrinunciabile. Per il lavoro, per viaggiare, per avere una linea di comunicazione efficace ed efficiente con chiunque si incontri e sia di un altro Paese diverso dal proprio. E in quest’ultimo caso va benissimo anche se maccheronico, basta essere in grado di interagire con tutti alla fine. Volenti o nolenti quindi, “questo inglese s’ha da imparare”.
Ma come farlo? Nell’era della digitalizzazione, nel 2025, è davvero semplice trovare e provare metodi diversi di studio: c’è chi si affida a corsi tradizionali, chi ad app interattive o immersioni linguistiche, chi vivendo per qualche tempo in un Paese anglofono… E poi ci sono i social media, che ormai fanno parte a pieno titolo dei canali attraverso cui è possibile apprendere una nuova lingua. Alcuni docenti/appassionati/testate hanno infatti utilizzato i social come strumento di divulgazione, cultura e apprendimento.

Un esempio di “docenti influencer” è quello di Davide Patron, content creator e insegnante di inglese che ha trasformato la sua passione per le lingue in una carriera di successo. Sui social media, dove ha costruito una community di quasi un milione di followers, Davide condivide ‘pillole’ di inglese: brevi lezioni focalizzate su pronuncia, espressioni idiomatiche, differenze tra inglese britannico e americano e trucchi per migliorare la comprensione e la comunicazione. Il suo approccio innovativo e accessibile ha rivoluzionato il modo in cui molti italiani imparano l’inglese, rendendo l’apprendimento più divertente e meno intimidatorio. Lo abbiamo intervistato per saperne di più.
Hai studiato finanza all’Università di Dundee in Scozia, concludendo con ottimi risultati. C’è stato un momento preciso in cui hai capito che la tua vocazione era invece quella di insegnare inglese? Un episodio particolare che ti ha fatto cambiare direzione?
«È stato tutto un processo in realtà. Io ho sempre amato le lingue fin dalle superiori. Ho studiato inglese, spagnolo e russo… Erano le mie materie preferite perché mi riuscivano facili, mi appassionavano. Però facevo anche economia e ho deciso di proseguire con questa. Diciamo che sembrava la strada più sicura, anche se non ho mai smesso di amare e imparare l’inglese. Sono quindi venuto in Scozia (dove attualmente risiedo, ndr) per proseguire i miei studi e, proprio mentre ero all’Università, ho iniziato a pubblicare sui social. In quel periodo vedevo tanti contenuti utili che non si insegnano a scuola, così ho pensato di provare anche io a realizzare video-pillole utili all’apprendimento dell’inglese. E ha funzionato: questa attività sui social si è sviluppata quasi spontaneamente , semplicemente pubblicando online, e il riscontro positivo è arrivato in modo genuino, perché il prodotto piaceva davvero al pubblico».
La tua community è enorme: 900mila follower su Instagram e un milione su TikTok. Come riesci a mantenere un rapporto diretto ed efficace con i tuoi studenti, facendoli sentire sempre coinvolti?
«Tutto ruota attorno al format. Nel corso degli anni ne ho creati diversi, ma nessuno può durare per sempre. All’inizio, ad esempio, realizzavo molti video in cui spiegavo semplicemente la pronuncia di una parola; poi ho sviluppato il format con la “parola del giorno”, che funzionava benissimo ed era stato accolto con grande entusiasmo. Con il tempo, però, le cose si sono evolute: ripetere sempre lo stesso schema alla lunga perde di efficacia, quindi cerco costantemente di innovare. Ho attraversato diverse fasi, come quella delle liste di frasi utili o dei modi di dire. Ultimamente, invece, sto sperimentando format nuovi, come la ricreazione di scene di film. La chiave è ascoltare la community, leggere i commenti e interpretare i feedback per capire cosa interessa davvero alle persone. Da lì nasce il piano editoriale: provo nuove idee, analizzo le reazioni, valuto cosa funziona e vado avanti. È un processo dinamico e in continua evoluzione».
Qual è, secondo te la criticità più forte, quel problema tipicamente italiano nell’imparare l’inglese? C’è qualcosa che facciamo, o sbagliamo sempre, quando impariamo l’inglese?
«Noi italiani commettiamo spesso errori dovuti alla tendenza a tradurre letteralmente dall’italiano all’inglese. Nella nostra testa, queste traduzioni sembrano avere senso, ma in inglese risultano innaturali o addirittura incomprensibili. La difficoltà principale sta proprio nel fatto che non basta tradurre parola per parola: serve un vero adattamento del pensiero alla logica della lingua inglese. Un altro grande ostacolo è la pronuncia. In italiano leggiamo le parole esattamente come sono scritte, mentre l’inglese segue regole molto meno rigide, con numerose eccezioni e suoni che non esistono nella nostra lingua. Questo crea difficoltà nell’articolare correttamente le parole e nel comprendere chi parla. È però importante buttarsi. Molti italiani, temendo di fare brutte figure, evitano di parlare e di mettersi in gioco. Ma è proprio l’errore che permette di migliorare. Gli errori si fanno, è naturale, l’importante è continuare a comunicare e piano piano migliorare».
Considerando anche la tua esperienza personale, c’è qualcosa che cambieresti o rivoluzioneresti nel sistema scolastico italiano per quanto riguarda l’insegnamento delle lingue?
«Dipende. Parlando con tantissime persone del settore, il sistema scolastico ha vincoli difficili, se non impossibili, da eliminare. In un programma scolastico, ci sono argomenti che i docenti devono trattare per forza, anche se poco utili nella pratica. Tuttavia, molto dipende dagli insegnanti: ci sono quelli che sanno davvero spronare gli studenti e fare la differenza. Un buon insegnante incoraggia chi prova a migliorare la pronuncia e a sperimentare suoni non naturali per un italiano. Questo crea un circolo virtuoso: più uno studente si sente supportato, più si butta, più migliora. È un ciclo che si autoalimenta. Un altro elemento che però non è controllabile più di tanto sono i compagni di classe che possono scoraggiare chi cerca di parlare in modo più autentico, magari prendendolo in giro. Ma spesso, con il tempo, sono proprio loro a chiedere: “Ma come hai fatto? Mi spieghi?”. Fortunatamente, qualcosa sta cambiando. Collaborando con chi realizza libri di testo, vedo che già dalle scuole medie si stanno introducendo sezioni specifiche sulla pronuncia, e questo è un passo avanti fondamentale».
Ti capita mai di dover spiegare a un madrelingua una parola italiana che non ha un perfetto equivalente inglese? Succede anche a te di trovare parole o espressioni italiane particolarmente difficili da tradurre?
«Mi succede tutti i giorni! Non perché io pensi alla parola italiana e non sappia come dirla in inglese, ma perché spesso i miei amici mi chiedono come dire qualcosa, mi chiedono di spiegare una frase, una parola, un’espressione in italiano che magari hanno sentito guardando un film. Tutte le lingue hanno frasi o parole che non possono essere tradotte letteralmente. Ad esempio, il nostro “mi raccomando” come lo traduci? Semplicemente a volte non si può, non esistono opzioni capaci di trasmettere esattamente lo stesso concetto. Ed è qui che entra in gioco l’adattamento: non basta tradurre parola per parola, bisogna trasmettere l’intenzione dietro la frase».
Hai qualche progetto per il futuro che vuoi anticiparci?
«Ho lavorato molto negli ultimi tempi. I miei corsi e libri continuano a uscire periodicamente, ma proprio la scorsa settimana ho lanciato un nuovo progetto: un podcast di inglese pensato specificamente per italiani. I podcast stanno diventando sempre più popolari come strumento di apprendimento, quindi ho deciso di unirmi a questa tendenza. Il mio obiettivo è offrire contenuti utili, con frasi ed espressioni pratiche, inserite in dialoghi e storie interessanti».
