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Torino, autunno 2018
Fine agosto 2016, 73esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Sto per percorrere il red carpet della serata d’inaugurazione e un fremito di emozione mi coglie per il tempo di quel breve tragitto da condividere con i grandi del cinema. Il caso s’accanisce e mi riserva l’onore di accedere al celebre tappeto nel momento in cui arriva il signore indiscusso del cinema: Jeremy Irons. Elegante, elegantissimo, seppur criticato per una raffinata casacca dal colletto alla coreana che ricorda una tunica sacerdotale, cammina al mio fianco non lesinando un sorriso cordiale e un breve scambio di battute, come fossimo due conoscenti. Empatico e gentile, in un attimo m’ispira una dose massiccia di ammirazione da aggiungere alla sua proverbiale bravura shakespeariana. Eppure, indugiando con lo sguardo per più di un istante, scopro che anche su di lui il tempo non è trascorso invano. È più vecchio dell’uomo che mi fece sognare ne ‘Il danno’ di Louis Malle, più opaco del crudele protagonista de ‘La casa degli spiriti’ di Bille August, meno sensuale di Alex in ‘Io ballo da sola’ di Bernardo Bertolucci.
È in quell’intercapedine crudele di tempo che è emerso il dominatore del palcoscenico, l’artista completo. Come un bellissimo felino che aspetta di scattare, il suo corpo è rimasto in una posizione naturale quanto elegante, che ha reso quel passaggio un’interpretazione
Entro nella Sala Darsena per assistere al film di apertura, ‘La La Land’, lungometraggio destinato a 14 nomination all’Oscar, e scopro con piacere che a Jeremy Irons è stato affidato il discorso di apertura della serata d’inaugurazione. In quell’occasione, a lui è stato assegnato il compito di consegnare il Leone d’oro alla carriera al regista e attore Jerzy Skolimowski, che aveva diretto nel 1982 anche ‘Moonlighting’, pellicola che vedeva Jeremy protagonista. È un uomo colto e il suo discorso ne è la più fulgida dimostrazione. Il timbro di voce, perfettamente modulato, serve a ricordare che la voce è uno strumento e ogni attore dovrebbe saperlo quando pensa di bandire dalla propria carriera un lungo percorso di studio della recitazione. Indubbiamente, la scelta di Alberto Barbera, direttore della Mostra, di affidare a Jeremy Irons l’apertura di quella serata è lungimirante, e la platea, me compresa, ritrova in un attimo l’artista di grande caratura che per anni ha ammirato al cinema. Ma c’è un passaggio inaspettato, dopo, che mi folgora e che segna la netta distanza tra un attore e un inarrivabile artista: lo spazio intermedio tra il discorso e la consegna del premio, durante il quale Paolo Baratta, presidente della Mostra, fa il suo omaggio a Skolimowski.
Il tempo di quindici minuti da trascorrere su un palcoscenico vuoto, in attesa che qualcuno finisca di parlare, può rappresentare il baratro per madrine, artisti, presentatori, politici, autorevoli ospiti, comici nani e ballerine. Nessuno esce indenne da una situazione tanto ardua, durante la quale non sai dove mettere le mani, come muovere le braccia, dove guardare e quale espressione assumere senza sembrare un naufrago in cerca di uno scoglio. Ecco, è in quell’intercapedine crudele di tempo che è emerso il dominatore del palcoscenico, l’artista completo. Come un bellissimo felino che aspetta di scattare, il suo corpo è rimasto in una posizione naturale quanto elegante, che ha reso quel passaggio un’interpretazione. Nulla di inopportuno, lontano da ogni protagonismo. Plastico ma fluido. Bellissimo da vedere. Autorevole, irresistibile. In un attimo è emerso tutto: il carisma, la professionalità e la sensualità di cui ho potuto godere in ognuno dei film in cui Jeremy ha interpretato perfettamente il genere umano. Ecco, di quella bravura mi sono innamorata.