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Storie dal set

di Antonella Frontani

‘Notturno’, film capolavoro di Gianfranco Rosi

Torino, autunno 2020

È vero, non ha vinto il Leone d’Oro alla 77a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ma è indubbiamente un capolavoro: ‘Notturno’, di Gianfranco Rosi. Ha fatto discutere il verdetto della competizione ma la vittoria è un dettaglio quando tutto il mondo della critica ne è rimasto sedotto e, soprattutto, il pubblico in sala è rimasto senza fiato. Le riprese del film sono durate l’arco temporale di tre anni; il set transitava nei territori che delimitano i confini tra Siria, Iraq, Kurdistan e Libano; il cast è composto dalle popolazioni locali che in quella zona hanno vissuto e patito la riconquista di Mosul e Raqqa, strappate all’ISIS nel 2107, e l’offensiva turca contro il Rojava curdo-siriano nel 2019. Nulla di confortevole, dunque, per la troupe che ha dovuto girare quelle scene. Né da un punto di vista pratico né, soprattutto, da un punto di vista psicologico.

La scelta di Gianfranco Rosi, il regista, è stata estrema, senza condizioni. Tre anni confinato con i suoi collaboratori in quei Paesi in cui non diventi mai un ospite gradito, soprattutto se sei armato di una cinepresa. Sfuggire a un imminente rapimento, per fortuna scoperto in anticipo, Rosi deve averla considerata un’eventualità da mettere in conto. Invertire la direzione della barca su cui navigava per sfuggire quel rischio gli sarà sembrato quasi routine, per lui che concepisce il cinema come il megafono della realtà più cruda. Non è solo il grande coraggio il motivo per cui decido di parlare di quest’opera, ma anche tutto il resto. Non c’è musica nel mio film≫, mi disse Rosi qualche tempo fa, mentre lavorava al montaggio di ‘Notturno’. Mi sembrò una scelta difficile e un po’ crudele, per me che considero la musica un linguaggio universale e irrinunciabile; aveva ragione lui.

La bellezza di ‘Notturno’ sta nei suoi silenzi, nell’assenza di giudizi e commenti. Trasmette al mondo, intatta, la visione del confine tra vita e inferno

Il film è dominato dal silenzio, accentuato dalla semi assenza di dialoghi e il risultato è un lungometraggio sulla disperazione che ti penetra dentro senza filtri, come il sale sulle ferite aperte. Le marce notturne tra il fango scandite da urla inneggianti cadenzate in quattro quarti, lo sguardo claustrofobico dalle trincee, i confini semi deserti eppure presidiati da giovani vestiti di armi, lo sguardo dei bambini che emerge dai loro disegni tragici, il pianto inconsolabile di una madre a cui è morto un figlio, il viaggio solitario e notturno di un uomo su una canoa che attraversa un fiume rischiando la vita non sono belle scene di un set, è la vita lì, in quei territori ormai allo stremo delle forze.

Quel pianto era vero, non recitato. Quei disegni sono lo specchio dell’orrore che domina davvero lo sguardo dei bambini. Nessun attore ma gente che vive quell’orrore tutti i giorni imparando a non sperare più. La bellezza di ‘Notturno’ sta nei suoi silenzi, nell’assenza di giudizi e commenti. Non è un documentario ma un film dalla grande onestà intellettuale. Non pone domande e non offre risposte. Trasmette al mondo, intatta, la visione del confine tra vita e inferno. Nessun sentimentalismo ma, concedetemelo, un grande, grandissimo attestato di stima per Rosi che si è spinto nella confusione del Medio Oriente fino ai confini dell’umano.