SFUMATURE, SI TRATTA DI SFUMATURE, PIÙ O MENO INTENSE, PIÙ O MENO ESTESE. UN MODO DI VEDERE E SENTIRE LA CITTÀ CERCANDO QUELLE APPARENTEMENTE MENO EVIDENTI, MA CHE FANNO PARTE DEL VIVERE QUOTIDIANO E CHE, SE NON CI FOSSERO, ANDREBBERO INVENTATE. È COSì CHE NASCONO QUESTI RITRATTI DELLA NOSTRA ULTIMA PAGINA, PICCOLI E GRANDI PROTAGONISTI NEI QUALI OGNUNO PUÒ VEDERE UN PEZZO DI SÉ. OPPURE NO
Da bambino odiavo l’autunno. D’altronde, non e una stagione che sa farsi apprezzare in maniera semplice. E poi impari solo col tempo ad amare ciò che all’apparenza non vuole farsi amare. A dieci anni tornavamo a scuola, dopo l’estate, con l’unica consolazione di poter giocare a pallone nel pomeriggio. E invece i maestri ci portavano a raccogliere le foglie per farci strani bricolage, e questa cosa non mi ha mai convinto appieno. Immagino anche quanta voglia avessero di essere ritagliate, le foglie, tra l’altro male, specie da me, per essere messe un po’ a casaccio su dei fogli colorati. Poi, come spesso accade, ho cambiato idea. Col tempo scopri la poesia dell’autunno, dei colori dei parchi, del primo freddo, delle cioccolate condivise, dei cortili interni della Torino nobile, dei cappotti lunghi in passeggiate a vedere il fiume, dei ritorni in macchina tagliando a meta la città alle due di notte coi finestrini tenuti giù, un po’ a fatica, che magari e l’ultima volta prima dell’inverno.
A pensarci bene non e che odiassi l’autunno, pero, povero autunno, perdeva chiaramente contro qualunque altra stagione. Era sempre spacciato, mi viene da pensare ora. Mi viene anche da pensare a un’apologia dell’autunno, soprattutto ora che sono dalla sua parte. Torino d’autunno può essere un sacco di città insieme, che poi Torino e cosi: più non te l’aspetti, più lei ti piace; più cerchi nei posti usuali, più trovi il bello dove mai lo avresti immaginato. Nella poesia della pioggia che cade e neanche ti sfiora, sotto i portici, e puoi metterti li a osservarla, per una volta, come non ti capita mai. Ed e bella la pioggia, esteticamente, solo che raramente ce ne accorgiamo. Come e bello il vento, quando si alza dal Po e sferza piazza Vittorio, e puoi stringerti un po’ per provare a resistergli. Bella la commozione di chi il sabato sera trova parcheggio dietro piazza Carlina, e vorrebbe piangere dalla felicita, e chi l’avrebbe mai pensato di trovarla, la felicità, in un parcheggio. E chi l’avrebbe mai pensato che potessi essere felice a passeggiare tra il vintage e il vecchio del Balon, la domenica mattina, sotto un cielo grigio che pare d’essere a Copenaghen. Quante cose cambiano negli anni, in meglio o in peggio non saprei dire, si modificano e basta. Quello che non cambia e la mia avversione per quel bricolage d’autunno, le foglie continuo a preferirle per terra, per esempio a colorare gli angoli del mio parco Ruffini.
Ogni foto dopo trent’anni e bella. Ha sconfitto il tempo e può essere solo bella. Avevo un’amica che amava fare foto, non aveva seguito corsi o altro. Le avevano regalato una macchina fotografica e da li era partita. Autodidatta con una sensibilità naturale nel cogliere immagini di stati d’animo immobili che potessero finire in quelle foto che passano i trent’anni e poi sono belle per forza. Foto più che altro di persone, pochi paesaggi. Foto di ragazzi sul prato del Valentino, signore con il carrello al mercato di via Madama, studentesse che osservano le locandine fuori dal Massimo, cartoline di sguardi per orizzonti di marciapiedi attraverso finestrini di tram arancioni. A volte si vergognava, come solo le ragazze sanno fare, e non scattava; intuiva il potenziale di un momento e le bastava sapere che avrebbe fatto una bella foto. Che, a dirla tutta, per lei non era mai bella, passabile quando andava bene. A me invece piacevano sempre, e senza che avessero dovuto compiere trent’anni.
Conoscevo una ragazza che, mentre io ho il barista di fiducia, lei aveva il libraio fidato. Tornava da un viaggio in treno, si svegliava un po’ triste, conosceva un ragazzo, decideva di imparare a suonare… e poi andava in libreria. Non una a caso, la sua. Non ho mai visto nessuno utilizzare tanto tempo per scegliere un libro, raccontava tutto, di quei paesaggi di fiori in Olanda, del caffè rovesciato sul vestito nuovo e di quella Giulia che pensavamo di essere amiche e invece senti che ha fatto. Ne usciva un mix di emozioni, esperienze, argomenti che fornivano all’omino, ormai del mestiere, tutti gli elementi per il consiglio sul libro perfetto. Conoscenza reciproca, fiducia incondizionata. Funziona cosi con le cose che vanno bene. Poi lei si poneva un limite, non più di cinquanta pagine in un giorno, non dovevano essere divorati quei libri, troppa cura nel selezionarli. Serviva più tempo, e i colori del lungopò a distrarla prima o poi, per alzare gli occhi dalle pagine e posarli su altro che ne valesse la pena. Per avere altre sfumature da raccontare all’omino della libreria.