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Home > People > Editoriali > Storie dal set > “Jojo Rabbit” legge Hitler tra satira e dramma
Torino, primavera 2020
La tirannia è la peggiore condizione umana, che da secoli ispira le più grandi opere letterarie, pittoriche, scultoree. È come se l’arte fungesse da detonatore dell’orrore tracciandone il percorso, dalle origini alla sua sconfitta. Perché è questo il compito che affidiamo a un’opera: distruggere il male. Nulla può risultare più difficile che provarci di nuovo, tenendo conto del numero sconfinato di tentativi artistici nella storia. Alcuni sono diventati capolavori assoluti, altri esempi sono stati dimenticati. Cosa si può ancora dire a proposito del nazismo? Come affrontarlo senza rischiare la ripetizione, la banalità, l’analisi imprecisa? È proprio ponendomi questa domanda che sono entrata in sala per vedere ‘Jojo Rabbit’, il film di Taika Waititi che ha inaugurato la XXXVII edizione del Torino Film Festival. Il pubblico non lo conosceva ancora, quello era il debutto, e io ho preferito arrivare impreparata a tutto, dalla sinossi all’intenzione. Ed è stato un piacevole shock.
La leggerezza del personaggio creato da Waititi ha qualcosa di sofisticato: è leggero, non superficiale. Hitler non sembra solo buffo, ma ridicolo, e questo è ben peggio di qualunque accusa. Dal ridicolo nessuno può salvarsi e passare alla storia, non c’è possibilità di riscatto
Il film è la storia di un bambino tedesco, interpretato da Roman Griffin Davis, che coltiva il fanatismo della razza nel grande equivoco che lo circonda: sua madre, Scarlett Johansson, finge di assecondare la cultura nazista ma salva una ragazza ebrea, Elsa Korr, nascondendola nella mansarda di casa, all’insaputa del bambino. Poi, tutto accade quando il piccolo nazista e la rifugiata ebrea si scoprono vicendevolmente. Molto coraggio da parte del regista, che sceglie l’arma più efficace per tramortire la figura di Hitler, soprattutto tenendo conto che, nell’immaginario della storia del cinema, quell’operazione imbattuta fu di Charlie Chaplin con ‘Il grande dittatore’. Troppo facile, però, cristallizzare la recensione al solo paragone. Il film è costruito sulla figura di Hitler, interpretata proprio da Waititi, che nel racconto compare come amico immaginario del piccolo protagonista. Tutta la prima parte del film è oggettivamente divertente, satirica e ben congegnata. La seconda parte diventa drammatica, pur conservando una sottile vena ironica. Arduo mettere in connessione satira e dramma ma, proprio per questo, l’ho trovata un’operazione interessante.
Si potrebbe pensare che la figura di Hitler sia stata trattata con superficialità, senza la necessaria opera di distruzione e riflessione che la storia impone, ma la leggerezza del personaggio creato da Waititi ha qualcosa di più sofisticato: è leggero, non superficiale. Hitler non sembra solo buffo, ma ridicolo, e questo è ben peggio di qualunque accusa. Dal ridicolo nessuno può salvarsi e passare alla storia, non c’è possibilità di riscatto. Il linguaggio di Walt Disney Studios Motion Pictures, tra fumetto e racconto, è stato più efficace del rancore puro, e il film è ben recitato: Scarlett è indiscutibile, ma anche Roman, il piccolo nazista, diventato attore a dispetto di due provini bocciati. Fisiologico che un film così bello abbia vinto il premio del pubblico al Toronto International Film Festival e abbia ottenuto la candidatura a sei premi Oscar.