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Torino, inverno 2019
Quando un regista vince il Premio Oscar tocca l’apice della sua carriera. Dopo di allora, è durissima. La sfiancante aspettativa che non flette mai per il resto dei suoi giorni sottopone ogni nuovo lavoro alla più severa, implacabile critica universale. È quanto accade anche a Gabriele Salvatores, da qualche giorno protagonista nelle sale cinematografiche con il suo ultimo film, ‘Tutto il mio folle amore’. Ridotto ai minimi termini, è la storia di un padre che torna a cercare il proprio figlio sedicenne dopo averlo abbandonato, scoprendo solo in quel momento che è affetto da autismo. Tutto il resto gira attorno al tema principale.
La potenza di un road movie, la bellezza del paesaggio dominato dalle pianure rocciose dei Balcani, l’atmosfera dei circhi itineranti e dei brutti night di una cultura lontana, seppur così vicina, e una scelta musicale raffinata, tra rock e classici di Modugno. Più di tutto, però, la narrazione dell’amore assoluto, quello per un figlio, in questo caso ‘diverso’
Partendo dal presupposto che il mio giudizio sul film di Salvatores non ha alcun peso, ammetto di aver pensato che non si tratta del suo film migliore, anche se non ho esitato ad apprezzarne gli aspetti più salienti: la potenza di un road movie, la bellezza del paesaggio dominato dalle pianure rocciose dei Balcani, l’atmosfera dei circhi itineranti e dei brutti night appartenenti a una cultura lontana, seppur così vicina, e una scelta musicale raffinata, tra rock e classici di Modugno. Più di tutto, però, la narrazione dell’amore assoluto, quello per un figlio, in questo caso ‘diverso’. Ciò che suscita il mio disappunto è quel sottile diniego, tipico di un certo intellettualismo, che addebita al film la sua colpa maggiore: aver parlato di amore toccando le corde più profonde. Facile, scontato, prevedibile sono gli aggettivi che sembrano d’obbligo quando un film o un libro affrontano temi di questa portata, come la malattia. Difficile, ardito, impegnativo, invece, sono gli aggettivi che merita l’opera di un artista che sfida le insidie di un mondo così duro per cercare di carpirne la poesia, la creatività, il folle amore che può contenere. Cosa c’è di così prevedibile nella disperazione di un genitore che non riesce a codificare il linguaggio di suo figlio per capire da quale verso amarlo? Cosa c’è di così scontato nel racconto di una madre single che lotta ogni giorno contro i pugni del figlio autistico, contro i suoi silenzi e il continuo fallimento nella ricerca dei suoi desideri?
È così snob omologarsi a quelli che rifiutano l’intimità, è così noioso sentir parlare di prevedibilità da parte di quel mondo intellettuale che sembra, a sua volta, affetto da autismo emotivo. Sì, forse la sceneggiatura del film di Salvatores a tratti scricchiola, ma non si può negare che sia stato bravo, oltre che coraggioso. E nessuno può negare che Giulio Pranno sia stato formidabile nella parte di Vincent, fragile e forte al contempo. Buffo scoprire che questo giovane talento è stato bocciato all’esame del Centro Sperimentale di Roma… Strepitosa anche l’interpretazione di Claudio Santamaria nei panni di uno sgangherato, romantico Modugno della Dalmazia. Bello scoprire che è anche un ottimo cantante. Forse il piccolo rischio che ha corso il Maestro è stato quello di affrontare il tema con un moto di leggerezza che non gli è così congeniale nella narrazione, ma la sua lungimiranza gli ha fatto intuire che il dolore, quando è trattato poeticamente, avvicina il pubblico esortandolo a riflettere, piuttosto che a scappare. Ed è proprio per questo motivo che Diego Abatantuono, che interpreta il padre adottivo di Vincent, pur vestendo il personaggio più pragmatico e realistico è quello che, più degli altri, riesce a stabilire con il ragazzo un’intesa attraverso la fantasia. Dopo la sua ‘Educazione siberiana’, Salvatores approda all’‘educazione sentimentale’, in barba a qualunque smorfia di dubbio che corrucci lo sguardo quando s’impenna il sopracciglio. Ci vuole coraggio a fare un film così bello e anche a commuoversi guardandolo senza provare pudore. Non è cosa per mezze calzette…