Il 1939 è un anno per parecchi versi tragico, ma comunque colmo di avvenimenti epocali. Nel ’39 Benito Mussolini inaugura il nuovo stabilimento FIAT a Mirafiori, è il secondo dopo il Lingotto, varato nel 1922 da Vittorio Emanuele III. Non sono molte le visite del Duce a Torino, la maggior parte all’inizio degli anni ’30, gli anni del consenso, l’ultima proprio nel 1939. Per la verità, la cerimonia di inaugurazione non sarà un successo, anzi l’accoglienza operaia fu abbastanza fredda, ma Mussolini ebbe l’occasione di consolarsi a Palazzo Reale, invitato da Umberto di Savoia. Qui poté ballare con le sorelle Leschan, in arte Lescano, originarie dei Paesi Bassi ma con radici ebraiche, trio swing dell’epoca di cui era fan e pure un po’ invaghito. Umberto ordinò per loro cento rose rosse, il Duce apprezzò notevolmente l’esibizione. Un successo, insomma.
Sono gli ultimi anni di fermento di Palazzo Reale, bello, imponente ma mai completamente amato dai reali, che spesso gli preferivano altre dimore: Vittorio Emanuele II propendeva per la residenza all’interno della Mandria, mentre Vittorio Emanuele III prediligeva il Castello di Racconigi. L’unico vero innamorato di Palazzo Reale fu Umberto II, che qui venne ad abitare negli anni ’20 ancora principe. Il futuro re dei Savoia, più tardi nel suo esilio portoghese, ricordò gli anni torinesi come i più belli della sua vita. Trascorsi sulle piste da sci di Bardonecchia e in tribuna ai derby cittadini, da tifoso bianconero ma non ostile al Torino del suo amico e presidente granata Marone Cinzano.
Emanuela Moroni e Roberto Boselli parlano, ci immergono nelle storie, negli aneddoti che, prima che nella voce, portano negli occhi. Gli occhi di una guida che guarda le stanze vuote e vede Mussolini che balla e Umberto II che chiacchiera nel suo amato Palazzo Reale. Noi, invece, vediamo lo scalone che collega il Salone delle Guardie Svizzere al secondo piano; difficile immaginarlo ligneo, eppure un tempo era così. Anzi, lo è stato per molto tempo, fino al 1719, anno in cui Carlo Emanuele III, giovane erede al trono, è in procinto di sposare la principessa tedesca Anna Cristina di Baviera; il loro appartamento viene allestito al secondo piano e dunque serve una scala aulica per accogliere i giovani principi in modo adeguato. Vittorio Amedeo II assegna il progetto a Filippo Juvarra, architetto di corte, siciliano e geniale. La missione non è delle più semplici: un dislivello di quasi dieci metri da coprire in uno spazio molto limitato. Molti additano lo Juvarra come già sconfitto. Lui di contro si inventa un miracolo di tecnica, eleganza e leggerezza: uno scalone a tre rampe efficace, scenografico, decorato con dei medaglioni. Uno di questi, il più curioso, raffigura un paio di forbici che taglia la lingua di un paggio, neanche troppo velata rivincita di Juvarra sui propri detrattori. Da qui il nome ‘Scala delle Forbici’, utilizzato da tutti per indicare questo esempio di arte barocca e genio.
Umberto ordinò per loro cento rose rosse, il Duce apprezzò notevolmente l’esibizione. Un successo, insomma
Palazzo Reale, inoltre, era luogo di vita e occupazione, sin dai primi anni del ’600 qui si avvicendava un notevole numero di maestranze: cuochi, frutteri, pasticcieri, scudieri di bocca, credenzieri, maestri di sala… facenti tutti capo all’Uffizio di bocca. Diverse erano le cucine collocate nei sotterranei del palazzo in relazione ai vari appartamenti della famiglia reale, oltre a quelli della servitù; vi erano poi ghiacciaie, dispense e cantine. Grandi nomi si sono succeduti nelle cucine di Palazzo Reale, e tra i molti spicca quello di Giovanni Vialardi, che rimase al servizio di casa Savoia sino al 1853 e diede alle stampe il suo ‘Trattato di Cucina, Pasticceria Moderna, Credenza e Relativa Confettureria’ contenente oltre 2mila ricette e 300 disegni. Un paio di spunti culinari non guastano mai, specie a Torino. Palazzo Reale è uno dei palazzi cittadini più noti, inevitabile parlarne, sviscerarne qualche aneddoto, ma l’idea è quella di approfittare degli occhi delle guide e intraprendere un viaggio leggermente off-road, un ‘fuori pista’ dedicato ai palazzi meno mainstream di Torino, curiosi anche perché un po’ gelosi delle proprie storie. Per questo e altri motivi, ci incontriamo sotto la facciata di Palazzo Priotti, con alle spalle quel boulevard parigino che è corso Vittorio, alberato con i platani, che ci divide da San Salvario; da sempre e per sempre quartiere multietnico (e quindi multi-religioso), fin da fine ‘800 con la sinagoga, la chiesa valdese e quella di San Giovannino voluta da Don Bosco, frutti della liberalizzazione religiosa di re Carlo Alberto del 1848.
Come spesso succede, questa facciata racconta una storia, narra della Torino di più di un secolo fa, della nuova borghesia iper-emergente che fa l’industria e poi fa i palazzi. Il ferro si mescola al barocco delle conchiglie dei balconi e dei bow-window in uno stile eclettico che ben evidenzia la nuova vocazione industriale cittadina e rende Torino capitale del Liberty. La città, non più capitale d’Italia, non solo si lecca le ferite ma si prende le sue rivincite. Il progetto del palazzo è del conte Carlo Ceppi, già al lavoro nella progettazione della stazione di Porta Nuova; e successivamente, nei primi anni del ‘900, qui nasce il progetto della prima industria cinematografica italiana, che vedrà la luce nel 1913, anno in cui il Cinema Ambrosio apre le porte al pubblico in tutta la sua bellezza, paragonabile ai grandi cinematografi europei. Questo lungo corso è per certi versi luogo fondamentale della storia del cinema torinese e non solo, accanto a Palazzo Priotti domina infatti quello che viene chiamato Palazzo del Corso, in onore del Cinema Corso, bruciato miracolosamente senza vittime nel 1980, capolavoro dell’art déco, eclettico e raffinato coi suoi capitelli ionici. Qui, neanche troppi anni fa, vi era il passage per sbucare in via Pomba e giungere a un altro cinema, il Nazionale, luogo di proiezioni per chi ama il cinema di livello. Purtroppo oggi questa piccola galleria è chiusa e tocca fare il giro. Bisognerebbe individuare il modo migliore per renderlo nuovamente percorribile, riqualificandone storia e comodità. Ne approfittiamo e allunghiamo su via Lagrange, ci soffermiamo al numero 39 per osservare la ‘Casa senza finestre’; onestamente, non avevo mai alzato lo sguardo su questo edificio (vedi a cosa servono gli occhi delle guide). In effetti la facciata non mostra finestre ma solo porte-finestre.
Tanto ferro battuto da Belle Époque parigina, una delle opere più moderate dell’Antonelli certifica la morte del piano nobile. Giriamo a destra, uno sguardo a via Carlo Alberto, alla dimora di Giuseppe Pomba, editore e fondatore della UTET. Il palazzo aveva l’uscita per la carrozza su piazza Bodoni (un altro celebre editore e tipo grafo). La piazza un tempo non era l’elegante piazzetta che è oggi, era molto più estesa prima di lasciare campo al conservatorio, che ci accompagna con le note che valicano le finestre mentre ci avviciniamo a via Pomba. I palazzi gemelli ci guidano fino al Nazionale, in fondo e sulla destra, mentre i medaglioni raffiguranti personaggi famosi ci scrutano. Sono interessanti perché sono celebri, ma insolitamente non risorgimentali perché precedenti, come il santo sociale torinese Giuseppe Cottolengo. Si dice che lui e i suoi ‘colleghi’ nei medaglioni, le notti di luna piena, si animino e sussurrino discorrendo di storie di oggi e di ieri. Prima di proseguire porgiamo un saluto al lato sinistro dei portici, dove sorgeva un tempo la casa editrice clandestina Castagnone, ricordo del desiderio di libertà degli uomini insito in ogni epoca.
La nostra passeggiata, poi, ci porta nuovamente in via Carlo Alberto, alla sede amministrativa/istituzionale della Camera di Commercio, perché vogliamo riscoprirne il lato più antico, e per questo la chiamiamo col suo nome: Palazzo Birago di Borgaro.
Qui l’archistar Juvarra sfoga il suo sobrissimo barocco: il cortile accoglie con le finte quinte teatrali che scompaiono, lo scalone d’onore gioca con il finto marmo, le armature sono dipinte… insomma, a parte le nicchie, tutto è un gioco di ombre, colori e rilievi perfettamente incastonati in questa stanza delle illusioni che ospita lo scalone.
In questo palazzo si entra raramente (per ovvie ragioni), noi possiamo farlo ed Emanuela, insieme a Roberto, ci racconta l’esem Imbocchiamo via Maria Vittoria con i suoi ‘canzelli’, ovvero le porte della prigione che era il ghetto ebraico, aperto nel 1679 e chiuso a fine ‘800.
Gli ebrei avevano il coprifuoco e alla sera dovevano tornare tra queste mura, poi estese anche di fronte, alle spalle di piazza Carlina, e lo si nota dall’assurdo sovraffollamento di finestre. Da ogni appartamento, per farceli stare tutti, ne vennero ricavati almeno due, significa far di necessità virtù, ed ecco spiegate tutte queste finestre. Chiusa nei cortili la prima sinagoga torinese, quella cosiddetta ‘invisibile’. Su piazza Carlina, invece, si affaccia Palazzo Roero di Guarene (fratello minore di Palazzo Madama), alla cui sinistra vediamo il cupolotto della chiesa romena ortodossa e, in mezzo alla piazza, il monumento a Cavour.
Postumo, probabilmente indesiderato, non privo di polemiche, con un Cavour poco somigliante abbracciato da una donna quasi nuda, decisamente discinta, l’Italia. Personalmente fantastico, lo ‘scandalo’ di libertà con Cavour mattatore in mezzo all’antisemitismo e ai simboli di potere nobiliare e religioso. Composta nella sua divisa, la Caserma Bergia guarda la scena un po’ sconsolata; qui, nel 1814, venne fondata l’Arma dei Carabinieri.
A due passi, l’elegante piazza dedicata a Maria Teresa, moglie di re Carlo Alberto, ospita Palazzo Ponzio Vaglia, con le due inconfondibili colonne dell’Antonelli all’entrata.
Alternanza di volumi, colonne piatte e colonne piene, un amore smisurato per i templi e per l’architettura greca antica.
Irrimediabilmente Antonelli. Che ritroviamo in via della Rocca 21, a Palazzo Visconti, altra casa da reddito con una corte interna semplicemente incredibile. Un privilegio poter osservare questo cortile (che non si può neanche fotografare): immenso, elegantissimo, colori tenui pastello, la dimostrazione che si possono compiere operazioni di mantenimento di livello, perfino valorizzatrici. I ciottoli di fiume per terra stabiliscono un fil rouge emotivo con il Po, che virtualmente si apre di fronte a noi.
Dall’emozione al gossip sabaudo, che tanto piaceva e piace ai torinesi. Quando Vittorio Emanuele II si innamora della Bela Rosin, tutt’altro che nobile, ha con lei due figli: Vittoria ed Emanuele Alberto (consueta spiccata originalità dei Savoia). Nonostante le pressioni riguardanti la vergognosa relazione, re Vittorio decise di concedere a Rosa i titoli nobiliari nominandola Contessa di Mirafiori e Fontana fredda; in questo modo i due figli, non Savoia bensì Guerrieri, ottennero una loro continuità di titolo, nonché terreni e dimore. Uno di questi è proprio qui, in via della Rocca 20, Palazzo dei Conti Guerrieri, un’altra a Fontanafredda, luogo dal luminoso destino vitivinicolo.
Poco più avanti giungiamo alla nostra ultima tappa, il Palazzo dei Marchesi Gazelli di Rossana, una casa di ringhiera ristrutturata, con un cortile da visitare anche solo per l’immenso gelsomino profumatissimo, che in primavera sprigiona tutto il suo colore, bianco e meraviglioso. Anche qui i ciottoli di fiume ribadiscono il legame ancestrale con il vicino fiume.
(Foto di FRANCO BORRELLI)