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Home > People > Interviste > Giampiero Leo, la politica come superpotere
Nel piccolo ufficio di Giampiero Leo, al piano rialzato di un palazzo in zona Cit Turin, pochi oggetti sembrano disposti per raccontare i tratti salienti del padrone di casa. Una fotografia autografata del Dalai Lama, un copricapo donatogli dal maestro buddista Daisaku Ikeda. Lungo gli scaffali volumi sul Giappone: «È un paese che amo, perché ha saputo mantenere un certo senso dell’onore e dell’eleganza». Sulla scrivania, ingombra di carte, c’è un libro di Fiorenzo Alfieri, indimenticato protagonista della vita politica di Torino tra gli anni Settanta e Duemila: «Con lui ho avuto un rapporto straordinario. Ai tempi delle giunte Novelli mi affidò il progetto Informagiovani, creando un certo scandalo, perché lui era amministratore tra le file del PCI mentre io ero un giovane consigliere comunale della DC». Politico di lungo corso, uomo di cultura, motore del dialogo interreligioso, Giampiero Leo è nato a Catanzaro nel 1953. Trasferitosi a Torino nei primi anni Settanta per studiare giurisprudenza, Leo non ha più lasciato la città della Mole, dov’è stato per 15 anni consigliere comunale, assessore alla Gioventù tra il 1985 e il 1990, prima di diventare consigliere regionale e assessore regionale a Cultura, Istruzione, Ricerca e Innovazione nelle giunte di centrodestra guidate da Enzo Ghigo, tra il 1995 e il 2005. Oggi è consigliere di indirizzo della Fondazione Crt, di cui è anche presidente della Commissione arte, cultura, welfare e territorio, portavoce del Coordinamento Interconfessionale del Piemonte “Noi siamo con voi”, vicepresidente del Comitato Regionale per i Diritti Umani.
L’anno prossimo compirà 70 anni, ma si può dire che abbia vissuto molte vite in una. Qual è il tratto distintivo che ha caratterizzato tutta la sua esperienza?
«Ho sempre cercato di fare andare d’accordo tutti, di provare a indicare un punto di incontro comune. Anche per questo mi sono guadagnato il soprannome “Dalai Leo”, al quale sono molto affezionato. Contrariamente a quanto si può immaginare, questo approccio non deriva tanto dalla mia fede cattolica, quanto da alcune letture, in particolare quelle dei romanzi del ciclo Arturiano e dei fumetti coi supereroi della Justice League di DC Comics. Mi hanno fatto appassionare alla lotta contro le ingiustizie, alla difesa dei più deboli, alla creazione di sistemi ordinati. Tutto questo si è tradotto in una passione molto precoce per la politica. A 7 anni, in terza elementare (aveva iniziato la scuola con un anno di anticipo, ndr), scrissi in un tema che da grande sarei voluto diventare un politico nella Democrazia Cristiana e salvare il mondo. E dire che venivo da una famiglia di sinistra. Mi portarono da uno psicologo; poi, finito il liceo, mi spedirono a Torino per fare il Politecnico e diventare un buon comunista. Invece scelsi giurisprudenza, mantenni la fede, mi impegnai in politica con la DC e incontrai Comunione e Liberazione. La politica è stata il superpotere con cui ho superato le mie fragilità».
Veniamo a oggi. Terminata l’esperienza con la politica attiva, lei continua a essere protagonista della vita della città. In particolare con il suo impegno in Fondazione CRT che, assieme alla Compagnia di Sanpaolo è, ormai da molto tempo, uno dei motori di Torino. Pensa che le fondazioni manterranno questo ruolo anche in futuro, a partire dal prossimo anno?
«Credo di sì, anzi penso che il loro ruolo diventerà sempre più determinante. Intanto perché hanno bilanci estremamente solidi e hanno dimostrato di avere una capacità imprenditoriale straordinaria. Sono luoghi di elaborazione culturale che hanno sviluppato un elevato livello di collaborazione con le istituzioni. Per dirla come il presidente di Fondazione CRT, Giovanni Quaglia, dobbiamo essere sussidiari e aiuti registi delle istituzioni. Il clima di lavoro in Fondazione CRT è molto sereno e i risultati si vedono: nel 2023 aumenteremo le erogazioni per cultura e welfare mediamente del 10%».
A proposito, lei rappresenta Fondazione CRT anche nel consiglio del Teatro Regio, che esce da anni travagliati. È ottimista sul futuro di un’istituzione così importante per la città?
«Sì, lo sono, a maggior ragione dopo aver conosciuto i colleghi del consiglio di indirizzo, tutti determinati a ridare al Regio il suo ruolo naturale. In particolar modo, va riconosciuto al sindaco Lo Russo di essersi prodigato per risolvere i problemi. Per primo ha accolto la proposta, rivelatasi poi vincente, di scegliere il nuovo sovrintendente attraverso una manifestazione di interesse internazionale. È la formula che ha portato alla scelta di Mathieu Jouvin, un uomo che nessuno di noi conosceva, ma che si sta confermando come la miglior scelta possibile. L’intero processo ha richiesto impegno, ma oggi può diventare un modello per altre realtà simili in Italia. Serve continuare così per il futuro, ogni passo dovrà essere fatto d’intesa coi lavoratori del teatro e comunicato efficacemente ai cittadini».
Innanzitutto serve tornare a concertare tutte le forze vive, serve ritrovare il dialogo, perché dal dialogo nascono le idee migliori e si evitano le contrapposizioni
Parlando di futuro, Torino è da tempo alla ricerca di una sua dimensione. Cosa deve fare la città per ritrovare se stessa e definire un proprio ruolo?
«Innanzitutto serve tornare a concertare tutte le forze vive, serve ritrovare il dialogo, perché dal dialogo nascono le idee migliori e si evitano le contrapposizioni. Poi bisogna individuare i punti strategici sui quali investire. Sui giovani, sulla formazione a tutti i livelli, sull’innovazione e sulla ricerca, sulla cultura. E sull’università, che rappresenta una speranza per il futuro. In Fondazione CRT abbiamo ascoltato in audizione i tre atenei torinesi. Tutti e tre sono in crescita di iscritti, in controtendenza con la media nazionale. D’altra parte, che l’università fosse strategica lo avevamo già capito 20 anni fa, quando la giunta regionale di cui facevo parte erogò 55 milioni per il consolidamento degli atenei piemontesi. Non a caso, in quegli anni, l’approccio piemontese alla cultura era un caso studio in Europa».
Andrea Macchione, Filippo Fonsatti, Valerio Binasco, Lamberto Vallarino Gancia, Giovanni Quaglia, Giampiero Leo e Camilla Nata
In cima alla sua agenda c’è il dialogo tra le fedi religiose e il rispetto dei diritti umani…
«È vero, sono mie grandi passioni, assieme alla cultura e alla libertà. Credo che le religioni debbano essere forze di bene. La religione, in un certo senso, è come l’energia nucleare: può dare energia pulita, come in un reattore, o diventare una bomba e seminare morte e distruzione. Con “Noi siamo con voi” crediamo che religione e spiritualità possano avere un effetto benefico sulla società. Per far questo serve che nessuno si consideri migliore dell’altro, che ci si tenga lontani da faziosità che portano a un clima da crociata. Quando ci si riferisce al rapporto tra fedi diverse, si parla spesso di tolleranza e integrazione. A mio avviso sono concetti riduttivi, la parola d’ordine dev’essere fraternità. E fraternità significa anche essere sempre dalla parte degli oppressi, contro i regimi totalitari e le teocrazie, significa lavorare per la pace».
Chiudiamo con un desiderio personale per il 2023 e un augurio alla città di Torino.
«Chiedo che la salute sorregga me, mia moglie e i miei cari, in modo da avere l’energia per continuare a fare questo lavoro. Alla città e alla società tutta auguro di sviluppare più empatia, ragionevolezza, rispetto per gli altri, capacità di discernimento. Tutte cose che concorrono a creare il bene comune».
(foto FRANCO BORRELLI)