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Home > People > Interviste > Max Chiesa: un percorso di successi e fondamentali difficoltà
Il luogo designato per l’incontro è ovviamente Kensho (via dei Mercanti, 16), quello che per noi è oggi uno dei migliori ristoranti in città, lo “stellato” dell’offerta gastronomica giapponese di Torino. A mezzogiorno siamo tranquilli, perché il servizio sarà poi di sera, per la cena, quindi abbiamo Kensho tutto per noi. Non poteva esistere condizione migliore per la nostra intervista a Max Chiesa.
Alla chiacchierata si è aggiunto poi anche Alex, fratello e oggi socio di Max. In ogni storia esistono un prima e un dopo. Kensho: cosa c’era prima e come ci si è arrivati?
«Io sono nato nel mondo della ristorazione, perché i miei genitori erano ristoratori, li ho visti per trent’anni lavorare in questo mondo, in Valle d’Aosta, dove siamo cresciuti. Ho poi avuto la fortuna di poter viaggiare, vedere il mondo; Shanghai, il Giappone… È stata un’occasione per aprire la mente, conoscermi conoscendo altre realtà. Nel 2013 è arrivata la possibilità di rilevare questo locale storico della città, e l’investimento è stato veramente di tutta la famiglia, cosicché nel 2015, dopo la ristrutturazione, abbiamo ufficialmente aperto. L’idea dell’inizio ovviamente non era il Kensho di oggi, non poteva esserlo; volevamo “semplicemente” fare un bel locale, secondo le conoscenze che avevamo all’epoca. Dalla nostra avevamo una sana “arroganza imprenditoriale”, quella ci ha dato una bella spinta».
Ecco, probabilmente, ai tempi, immaginare il Kensho di oggi sarebbe stato perlomeno complicato. Cosa è cambiato?
«In realtà è cambiato tanto ma allo stesso tempo non è cambiato nulla. La vision è sempre stata la stessa: rendere Kensho un luogo di incontro per imprenditori, per quella fascia di popolazione che vive Torino in una determinata maniera. Kensho voleva essere prima questo: incontro, scambio, crescita; e poi un business. Questo da allora non è mai cambiato. Poi c’è stato necessariamente il percorso, che è la parte più bella del viaggio, e che tutt’ora fortunatamente scorre. La vocazione è la medesima, ieri come oggi: aprire le porte a chi intuisce l’anima vera di Kensho. Questa volontà, ostinata per certi versi, ci ha fatto conoscere persone incredibili, imprenditori pazzeschi che si fermavano fino a tardi a chiacchierare, consigliare, raccontare. Abbiamo imparato molto da chi ha creduto nella nostra missione».
Accanto a questa “missione”, Kensho ha sempre portato anche un’offerta food veramente di livello; probabilmente la migliore cucina giapponese della città.
«Ringraziamo per il complimento, l’hanno detto in molti, preferiamo siano sempre gli altri a dare i giudizi. Quello che possiamo dire è che la cucina non può essere separata da ciò che Kensho è. Anche per la proposta food siamo partiti prima dall’emozione e siamo arrivati al prodotto, l’idea era costruire l’esperienza da sogno che avremmo voluto portare al cliente. Ci siamo semplicemente posti una domanda di base: perché le persone escono a cena? Cosa cercano? Esistono mille posti in cui andare a mangiare e molti meno in cui provare emozioni. Spesso sono i ristoratori a dimenticare questo passaggio. Il piatto buono è la base del mestiere, poi c’è altro: ci sono la musica, i profumi, le atmosfere, le persone che abbiamo attorno. Kensho vuole essere oggi un luogo in cui le persone si possano rispecchiare; un posto in cui sentirsi a proprio agio e di cui sentirsi parte. La stessa via dei Mercanti ha queste caratteristiche, è un angolo felice, in cui varchi una porta e ti ritrovi in un’altra realtà. Le grandi aziende funzionano così: entrare a Disney World significa essere solo e solamente lì, in un mondo a parte, inconfondibile, studiato per essere così, magico e a sé stante».
Una linea aziendale non classicissima: come incrocia la clientela di oggi e domani?
«Lo abbiamo visto nel post pandemia: il cliente del futuro non è superficiale ma sceglie con accuratezza. E spesso interessa più l’esperienza che il cibo in sé. Tanti ci scelgono per occasioni importanti, anniversari, compleanni… Per noi è una grande dimostrazione di stima e anche una responsabilità. Le persone ci affidano dei momenti che per loro hanno un valore significativo: è un onore. E quindi cerchiamo di rendere queste situazioni più speciali possibile. Torniamo quindi al discorso precedente: il prodotto è importante sì, ma è il “pacchetto completo” a essere fondamentale. E riesci a curarlo al massimo solo se realmente ami questo mestiere».
L’abbiamo detto: il bello è il percorso. Quali sono le sliding doors fondamentali di questo viaggio?
«Ce ne sono tantissime. Le più importanti probabilmente sono state le difficoltà. Nasciamo immersi in una cultura che fin da piccoli ci insegna a puntare il dito verso chi sbaglia, a sottolineare l’errore. E questo genera un perenne stato di paura. Molte persone non agiscono in virtù di questo timore, ed è estremamente limitante. Bisogna trovare la forza per rovesciare certi paradigmi, indicando la direzione corretta ma senza “crocifiggerci” a ogni sbaglio. È importante sbagliare, se no non esiste lezione o miglioramento, se no il risultato sono soggetti governati dalla paura costante di fallire in ogni cosa. Invece ogni giorno è una sincera possibilità di crescita. Questi princìpi ci sono anche nel Buddhismo, che mi ha accompagnato in parte in questo percorso, e la cosa che mi piace è che alla fine tutte queste vite e lezioni si sono incontrate, completandosi. Per tornare alla domanda e alle difficoltà, specie all’inizio non conoscevamo molte cose e sbagliavamo parecchio, e per la nostra crescita è stato veramente un periodo fondamentale. Una volta accettata l’evidenza che ogni sbaglio va guardato negli occhi e utilizzato per evolvere, ecco, in quel momento abbiamo fatto il salto di qualità vero».
Kensho vuole essere oggi un luogo in cui le persone si possano rispecchiare; un posto in cui sentirsi a proprio agio e di cui sentirsi parteE qual è stato questo salto?
«Direi che fino a un certo punto sono stato convinto di gestire un ristorante, poi ho capito che era un’azienda. Un’azienda va seguita ascoltando i numeri, con lucidità; non è sempre stato così. Ho dovuto studiare e imparare che, senza dati in mano, è impossibile operare scelte strategiche. L’arrivo di Alex è stato un altro passo importante, abbiamo modificato il sistema di lavoro, dato equilibrio e sostenibilità a ogni scelta. È stato un cambio abbastanza drastico, abbiamo ricalibrato tutta l’azienda, per certi versi anche un po’ un salto nel buio. Ma ogni tanto bisogna saltare, no? A noi è andata bene, adesso il nostro progetto è in continuo divenire: qui a Torino, in Valle d’Aosta, il nuovo format Donburi House, una recente apertura a Como, in programma una Champagneria in via Andrea Doria… Insomma, il nuovo assetto ha dato i suoi frutti».
Un progetto aperto a nuovi orizzonti…
«Tendenzialmente sì. Ci siamo resi conto che c’era la necessità di creare un’agenzia di strategie aziendali, per il nostro mondo in evoluzione e per chi ne avesse avuto bisogno. Una sorta di società di consulenze che oggi tiene il filo di tutti questi progetti. L’esempio di Donburi è emblematico: abbiamo potuto raccogliere i dati, studiare i numeri, la marginalità, le statistiche sulle richieste… E così facendo abbiamo costruito una proposta che attualmente dà ottimi risultati. Nel nostro futuro c’è anche questo: mettere al servizio di chi li richiede esperienza, mezzi e autorevolezza, che ci provengono in buona parte dall’esperienza di Kensho».
Kensho è stato (utilizzando un termine un po’ inflazionato) un gamechanger del panorama food cittadino: come si cambiano le regole del gioco?
«Per cambiare le regole probabilmente devi essere leader del tuo settore. Nel mondo “grande” funziona così, e lo stesso vale per il nostro. Noi a un certo punto, dopo aver portato la nostra proposta di livello, abbiamo deciso di fare quel famoso salto, cambiare, incrementare l’esperienza al massimo potenziale. Tutti i giorni pensiamo a come soddisfare e in parte anche stupire chi ci sceglie, anche per onorare quella decisione. Se siamo diventati leader è perché le persone ci hanno condotto qui. Questo non è da dimenticare. Poi, come da cliché, chi si ferma è perduto, quindi l’obiettivo è lavorare e fare tanto. Io amo i progetti nuovi, credo si sia capito, e penso che finché mi darà tutta questa felicità, continuerò a pensare strade nuove. Ecco forse una delle basi per cambiare le “regole” è ricordarsi che bisogna cercare di essere sempre felici in quello che si fa».
E la squadra, in tutto questo dove la collochiamo?
«Le persone oggi sono la risorsa più grande che un’azienda possa avere. Anche su questo tema dovremmo ripensare un po’ quella nostra cultura del “nessuno è insostituibile”, o frasi simili. Ogni elemento ha un valore, deve poter sbagliare, crescere ed essere valorizzato nei suoi punti di forza. Quando i ragazzi parlano del “nostro” locale sento che ho in parte vinto la sfida. Per questo i nostri collaboratori più longevi diventano spesso soci del gruppo. Armonia, fiducia, prospettiva e una serie di fondamentali difficoltà da affrontare e superare insieme: ecco la ricetta».
(foto FRANCO BORRELLI)