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Storie dal set

di Antonella Frontani

Open. Il non film

Torino, primavera 2021

Il cinema ha raccontato il tennis con qualche film di rilievo, come ‘Borg McEnroe’ di Janus Metz, ma, in questa sede, vorrei parlare di un ‘non film’, l’autobiografia letteraria di un grande campione che non è mai stata tradotta in linguaggio cinematografico: ‘Open’, la storia di Andre Kirk Agassi. Il libro fu pubblicato nel 2011, irrompendo nel mercato editoriale come un’esplosione. Un vero successo, non solo per il pubblico, ma anche per la critica e per tutti quei lettori che, come me, sono poco interessati a un libro che tratti di sport. La storia del tennista punk dalla criniera leonina è molto più del racconto di una brillante carriera sportiva. È un lungo percorso fatto di tortura psicologica, anaffettività, stress da obiettivo: solitudine. Quel libro è l’urlo di un bambino a cui è stata sottratta l’infanzia, trascorsa a lottare contro una macchina infernale che suo padre, allenatore taciturno e tirannico, aveva fatto costruire per costringere Andre a respingere lo sproporzionato numero di palline che l’aggeggio mostruoso sparava a ripetizione.

Quell’allenamento ossessivo, quanto disumano, era stato studiato per trasformare il bambino nel numero uno del tennis mondiale. E per rendere più efficace quel metodo, allo ‘sputapalle’ era stata data l’immagine spaventevole di un mostro. Il suo aspetto terrificante avrebbe esercitato sul bambino la necessaria dose di paura e reazione di cui avrebbe avuto bisogno per combattere la precisione di tiro della macchina. Tutto questo per trasformare Andre in eterno vincitore. Un’atrocità… Non mi ha stupito scoprire che il campione statunitense dal look ribelle, che infiammava le gradinate dei fan e il cuore delle fanciulle, odiasse il tennis. «Odio il tennis, lo odio di una passione oscura e segreta, l’ho sempre odiato. Quando quest’ultimo tassello della mia identità va al suo posto, scivolo sulle ginocchia e in un sussulto dico: fa che finisca presto».

Vorrei parlare di un ‘non film’, l’autobiografia letteraria di un grande campione che non è mai stata tradotta in linguaggio cinematografico: ‘Open’, la storia di Andre Kirk Agassi, un libro che ha fatto irruzione nel mercato editoriale come un’esplosione

Non mi ha stupito la scelta di sposare e condividere la vita con Steffi Graf, ragazza condannata a diventare la migliore tennista della storia: anima gemella che deve aver conosciuto e compreso l’angoscia del successo e della sua fine. Difficile raccontare la contraddizione profonda che può attanagliare il cuore di un campione, votato al podio della vittoria ma anche all’angoscia della sconfitta. Sì, difficile raccontare tutto questo se non si padroneggia la scrittura con maestria e con una buona capacità di analisi introspettiva. J. R. Moehringer, premio Pulitzer che ha scritto ‘Open’, è stato in grado di rendere la storia di Andre Agassi un capolavoro. Nessuna concessione alla banalità, affascinante racconto di tutte le partire cruciali, perfetta alternanza di pathos e rigore, tanto da non rendere mai il linguaggio ordinario o approssimativo.

‘Open’ non è mai diventato un film, nonostante il desiderio di Steven Spielberg. Mi sarebbe piaciuto capire come un grande regista avrebbe immaginato il finale della storia di Andre, che non può finire con una serena redenzione, unica nota debole del libro. Un bimbo ferito difficilmente supera brillantemente i suoi demoni, come dimostra il rifiuto di Agassi di procrastinare il dibattito sulla sua vita anche attraverso un film, dopo averlo fatto con un libro dal successo planetario. Ha sentito il bisogno di far calare il silenzio sulle ferite. Abbiamo perso un bel film ma rassicurato un bambino.


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