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Pier Franco Quaglieni

50 anni di cultura e giornalismo

di ALESSIA BELLI E ANDREA CENNI

Estate 2018

STORICO, SAGGISTA E DIRETTORE DEL CENTRO PANNUNZIO, ASSOCIAZIONE CULTURALE CHE HA FONDATO A TORINO INSIEME AD ARRIGO OLIVETTI E MARIO SOLDATI. UN’ANALISI DIRETTA DEL MONDO DI IERI E DI OGGI IN UN DIALOGO A PIÙ VOCI

Il Centro Pannunzio ha compiuto 50 anni. Il primo mezzo secolo di attività di un punto di riferimento a Torino che dal 1968, anno della sua fondazione, promuove iniziative ispirate alla cultura e al dialogo con la società, in armonia con la tradizione culturale de ‘Il Mondo’ di Mario Pannunzio. Ma in questo 2018 ricorre anche un altro importante anniversario: i 50 anni di giornalismo di uno dei suoi fondatori, oggi direttore generale, Pier Franco Quaglieni, che incontriamo in redazione. Figura di spicco della comunità intellettuale torinese e italiana, docente e saggista di Storia Contemporanea, ha da poco dato alle stampe il suo ultimo lavoro ‘Grand’Italia’ (Golem Edizioni, 2018) che segue il percorso iniziato con ‘Figure dell’Italia Civile’ (Golem Edizioni, 2017) dedicati ai grandi personaggi del più recente passato che, con le loro idee, hanno saputo caratterizzare la storia italiana contemporanea.

Gli eventi importanti promossi dal Centro Pannunzio sono tantissimi. Ne ricordo uno per tutti: la grande mostra torinese dei disegni di Leonardo, nel 1975, con 150 mila visitatori. Un record

50 anni di cultura e di giornalismo. Possiamo dire che questo 2018 rappresenti per lei un momento di soddisfazione e bilanci…

«Di soddisfazione senz’altro, ma soprattutto di impegni. E sento anche un po’ d’invidia tipicamente torinese che mi cade addosso. Avevo lasciato la direzione del Centro Pannunzio, ma l’ho ripresa per coordinare le manifestazioni del Cinquantenario e per affiancare gli amici in questo momento di grandi eventi che hanno visto partecipi migliaia di persone: posso dire che il Centro Pannunzio è entrato a far parte non solo della vita culturale, ma della storia di questa Città. E non solo. Le manifestazioni si stanno tenendo in tutta Italia. La Città di Alassio ci ha simpaticamente dedicato una panchina del Lungomare. Bilanci personali non ne azzardo. Sono e resto un uomo controcorrente, un malpensante, direbbe Jemolo. Dovrei registrare, oltre alle amicizie consolidate, anche le inimicizie. Io convivo con ambedue. E guardo avanti».

Nel corso della sua carriera come docente e saggista di storia risorgimentale e contemporanea, oltre che conferenziere in Italia e all’estero è entrato in contatto con diverse personalità del Novecento. Prendendo spunto dai titoli dei suoi libri, quali sono, secondo lei, le figure che hanno contribuito a costruire una ‘Grande Italia’?

«Ho descritto nei miei due ultimi libri oltre 60 personaggi importanti, espressione di una concezione eticopolitica che mi sembra sia ormai dispersa. Dovrei citarli tutti, indistintamente, ma non è possibile. Mi limito ad alcuni torinesi di cui sono stato amico: Norberto Bobbio, Franco Venturi, Carlo Casalegno, Sergio Pininfarina, Mario Soldati, Giuseppe Saragat, Valdo Fusi, Vittorio Chiusano… L’elenco sarebbe lungo, come sarebbe breve quello dei torinesi d’oggi che stimo e apprezzo».

Come vede invece oggi la nostra società?

«Sono molto pessimista. Con le obsolete ideologie novecentesche, sono caduti anche gli ideali e le idee. Predomina un pragmatismo rampante e disinvolto, viviamo immersi in una ‘società liquida’ in cui rischiamo di affogare».

A 47 anni è stato insignito della Medaglia d’oro di I classe di Benemerito della Scuola, della Cultura e dell’Arte. Dal suo autorevole punto di vista, quali sono i valori ai quali ci si dovrebbe ispirare oggi per ottenere un futuro migliore domani?

«Sono quelli legati più ai doveri che ai diritti. E mi riferisco in primis alla scuola, che deve tornare a educare e istruire seriamente, andando oltre i miti perniciosi del ’68 che imperversano da 50 anni».

La nomina a Cavalier di Gran Croce della Repubblica nel 1999

Tornando al Centro Pannunzio, cosa ha spinto lei, Soldati e Olivetti a fondare l’associazione che porta il nome di Mario Pannunzio?

«Volevamo offrire a Torino un’associazione laica, cioè non ingessata dai fondamentalismi ideologici trionfanti nel ’68 di cui vedemmo subito i pericoli. Io avevo allora poco più di vent’anni, ma guardai – per sintetizzare – alla lezione liberale di Pannunzio, e non a quella di Mao che dominava nei cortei studenteschi. Questo lo ritengo un merito. Ma un allievo di Garosci e di Venturi non poteva comportarsi diversamente. Riuscimmo a vedere le possibili degenerazioni del fanatismo che avrebbero dato vita alla violenza verbale e fisica, a sua volta degenerata nel terrorismo armato».

Quali sono stati i momenti più significativi di questo primo mezzo secolo di attività?

«Gli eventi importanti promossi dal Centro Pannunzio sono tantissimi. Ne ricordo uno per tutti: la grande mostra torinese dei disegni di Leonardo, nel 1975, con 150 mila visitatori. Un record, ottenuto con mezzi davvero poverissimi, cui aggiungemmo l’entusiasmo».

Come immagina invece le iniziative future?

«La strada è in salita. Nell’ultimo quinquennio le associazioni libere non sono state aiutate: piuttosto, se possibile, ostacolate. Le grandi concentrazioni rischiano di soffocare le iniziative culturali che non accettano di essere vassalle. Ma la nostra testardaggine, tipicamente torinese, come diceva Alda Croce che fu presidente del Centro Pannunzio, resta inalterata. Noi continuiamo a sperare nell’appoggio dei torinesi, anzi, speriamo di meritarci il loro consenso».

Aldo Cazzullo ha scritto di lei che è «un cavaliere solitario che tiene viva la memoria di una grande tradizione culturale, spesso misconosciuta». Lei cosa ne pensa?

«È un giudizio che scrisse sul Corriere della Sera e che mi lusingò molto. Non sono così solitario, perché posso contare su tanti amici sinceri. Senza di loro, avrei combinato poco».

Guardando la città da un punto di vista culturale, può farci un confronto tra la Torino di ieri e quella di oggi?

«La Torino di 50 anni fa era caratterizzata da grandi figure, oggi non ci sono eredi di quegli uomini. Era anche una città chiusa, un po’ provinciale, in cui la FIAT aveva un ruolo dominante. Oggi è una città che cerca nel turismo la sua nuova vocazione. Quasi tutti dicono che le Olimpiadi invernali del 2006 hanno cambiato Torino. In parte è vero, ma c’è anche molta esagerazione. Oggi io vedo una città dubbiosa persino rispetto alle grandi opere come la TAV».

Come la vede nel futuro?

«La vedo in termini ottimistici solo se ritroverà una classe dirigente capace, esperta, non rissosa: poche parole e tanti fatti, com’è nel modo d’essere dei veri torinesi».

In occasione dei festeggiamenti per il Cinquantenario, il 22 maggio avete inaugurato una mostra dedicata a Mario Pannunzio. Qual è la sua eredità culturale e civile?

«È un’eredità fatta di rigore, appunto, culturale e civile. Pannunzio, con il suo giornale ‘Il Mondo’, ci ha offerto un modo di intendere la cultura in cui non c’è spazio per gli improvvisatori e i dilettanti. Oggi Pannunzio viene spesso citato da chi è molto distante dalla sua concezione austera di vita. Pannunzio era considerato dai suoi amici un ‘laico direttore di coscienze’».

Durante l’intervista

Lei è un laico, come si pone di fronte alla religione?

«Della religione ho grande rispetto, ritengo che sia una forza indispensabile nella generale crisi di valori in cui ci dibattiamo. Sono un laico credente e ho un rapporto importante con il Cardinal Gianfranco Ravasi».

Alla fine non ha parlato della sua attività di giornalista …

«Ho scritto migliaia di articoli su quotidiani e riviste, molti dei quali raccolti in volume. Non posso fare a meno di ricordare i miei amici e maestri: Ferruccio Borio, redattore capo de La Stampa e Giovanni Giovannini, inviato speciale in mezzo mondo. Borio riscrisse il mio primo articolo ed eliminò aggettivi, avverbi, frasi inutili. Mi insegnò come farsi capire anche affrontando temi culturali. L’Ordine dei giornalisti era nel 1968 molto elitario, ed esservi entrato a 21 anni compiuti da appena un mese fu un traguardo importante».

(Foto di FRANCO BORRELLI e ARCHIVIO PIER FRANCO QUAGLIENI)