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«Il mare d’inverno è solo un film in bianco e nero visto alla TV. E verso l’interno qualche nuvola dal cielo che si butta giù. Sabbia bagnata. Una lettera che il vento sta portando via. Punti invisibili rincorsi dai cani. Stanche parabole di vecchi gabbiani… Il mare d’inverno è un concetto che il pensiero non considera. È poco moderno. È qualcosa che nessuno mai desidera… Questo vento agita anche me». Grazie Enrico Ruggeri, grazie Loredana Bertè. I primi a cantare the other side of the sea, l’altra faccia del mare. Perché in inverno si varca un confine che cambia lo scenario: non solo il clima e la meteorologia, ma l’attitudine delle persone, il mood di questo limes (separazione tra due campi) che mette di fronte acqua e sabbia, onde e città.
In inverno le truppe dell’estate abbandonano il campo, e si spegne lo stunz stunz di effimere colonne sonore. Di fatto resta il meglio, resta chi ama davvero il mare. Si viene per scelta e non per inerzia. Ed è molto, perché si svelano i palazzi, ci si riconnette con la storia, la cultura, i sapori di qualità, con un’accoglienza meno frettolosa, con orizzonti sgombri da ombrelloni, con la vera bellezza altrimenti nascosta. Vi pare poco? A me no. Ed è a questa dimensione che dedico un reportage che unisce le due riviere, quella ligure e quella francese, come fossero una sola, perché una sola erano già ai tempi di Turner, che scrisse: «Genova e tutta la costa da Nizza a Spezia è notevolmente aspra e bella». Noi abbiamo colto alcuni frame per comporre il mosaico.
In Francia ci siamo allontanati poco dal confine, Cannes e due villaggi nell’immediato entroterra: Mougins e Biot. In Italia abbiamo puntato risolutamente su Genova, una delle capitali del mare italiano, che merita molto più di quello che si sa di lei. E abbiamo aggiunto le Cinque Terre, sconsigliabili d’estate, semplicemente fatate d’inverno. Siamo andati a vedere quello che non sempre si vede, ma che, soprattutto, si vede meglio quando si è in pochi.
Iniziamo con un appunto geografico, che poi è soprattutto mentale. Chi abita il limes della costa, di confini in realtà ne percepisce due: quello che lo separa dal mare e quello che si alza alle sue spalle, qualcosa di simile alla montagna, anche se ancora montagna non è. Il primo ci mette di fronte un mondo di acque, rassicurante fino a un certo punto; il secondo è protettivo, un riparo al quale ci si rivolge, anche con lo sguardo. I palazzi, con le facciate in barocco marinaro, gli hotel faraonici, come il Carlton e il Negresco, guardano il mare, e le case dei pescatori pure. Una sfida? Il tributo a un’alleanza? L’inchino alla bellezza? Forse tutto insieme, ma è così. E una città costiera si coglie solo arrivando in barca, Genova su tutte. C’è timore, ma anche tensione allo slancio.
Attraverso quella mobile distesa d’acqua ci sono sempre state prede da agguantare: il pescato per nutrirsi, le lande esotiche coi loro tesori. Jonathan Raban spiega molto bene l’ansia di chi alza le sue vele: «Le genti di terra pensano il mare come un vuoto, uno spazio deserto popolato da presenze mitologiche. Il mare segna la fine delle cose. È il limite dove la vita si ferma e incomincia l’ignoto. È un pensiero necessario e confortante concepire il mare come dimora di dei e di mostri – Eolo, le sirene, Scilla e Cariddi, la Goodwin Sands, il Triangolo delle Bermude – di fatto il mare è solo un’alternativa al mondo conosciuto. La sua topografia è intricata come quella della terra, i suoi toponimi particolari e suggestivi, le sue mappe e rotte assi più affidabili».
In Francia ci siamo allontanati poco dal confine, Cannes e due villaggi nell’immediato entroterra: Mougins e Biot. In Italia abbiamo puntato risolutamente su Genova, una delle capitali del mare italiano, che merita molto più di quello che si sa di lei. E abbiamo aggiunto le Cinque Terre, semplicemente fatate d’inverno.Fino ad ora il genius loci, e adesso i luoghi. Iniziamo con Cannes, la città più ambivalente della Costa Azzurra. Se vi mettete alle spalle il Palais des Festivals – emblema cittadino, un magnete – e guardate a sinistra vedrete la Croisette, i grandi palais, vetrine di brand dove è meglio non guardare il prezzo, i candidi edifici moderni con le vetrate rivolte al mare, tutto è un vessillo che segnala al mondo: questa è l’art de vivre, questa è la Costa Azzurra bellezza. Ma, se vi voltate a destra, tiene banco la Cannes coi colori pastello scelti dai pescatori, sostanzialmente un’altra città, che si eleva nelle strette viuzze del Suquet, la collina dove gli abitanti trovarono riparo dalle incursioni dei saraceni edificando il castello. Il Suquet aiuta a sopravvivere anche nelle ruggenti giornate del festival, dieci muniti a piedi e scatta la macchina del tempo. I numeri spiegano molto, ma non tutto. Cannes ha 75.000 abitanti e 3 milioni di turisti all’anno, gli eventi in programma hanno cadenza quotidiana, e il festival del cinema non è il solo, gli altri, alcuni di risonanza universale, sono più di trenta e spaziano dalla moda alle nuove tecnologie, dal marketing alla vela. Le istituzioni hanno lavorato tenacemente per eliminare ogni stagione morta, per dare al Palais des Festivals, agli hotel, ai ristoranti e alle attività commerciali, un anno intero di opportunità.
Qua, come nel resto della Costa Azzurra, gli alberghi non chiudono mai. Una lezione per la nostra riviera? Si. Ma la programmazione non ha trasformato Cannes in Las Vegas. Comunque vincono bellezza ed eleganza, una missione che i nativi conoscono bene, pena la perdita del loro tesoro. Certo l’inverno – torniamo al nostro tema – permette di apprezzare pienamente l’atmosfera: presenze diradate (ma non c’è mai il deserto), spazi fronte mare pienamente godibili, prezzi migliori, il vento del cinema soffia, perché tutto te lo ricorda, ma non ti travolge. Mai. Potrete addirittura concedervi un selfie sulla famosa scalinata delle star senza essere tormentati (o quasi) dagli onnipresenti giapponesi. Il lusso non è un sostantivo, ma un concetto, un luogo dove posizionare i propri desideri. E il costo non è che uno dei fattori in gioco, con l’esclusività (e in qualche occasione l’unicità) e la cultura, intellettuale o materiale. Per me l’Hotel Barrière Le Majestic di Cannes identifica a meraviglia quanto espresso. Siamo di fronte al Palais des Festival, dove la Croisette inizia il suo percorso, e questo gioiello non si svela al primo sguardo; preceduto dal giardino prospiciente che accoglie la piscina da una rotonda consacrata al rito degli aperitivi. Proprio la piscina è una icona della maison, riscaldata a 28 gradi può essere utilizzata 365 giorni l’anno. Il lusso, come lo intendiamo noi, si dipana nella mappa e nei servizi del Majestic: accoglienza garantita da un piccolo esercito con le risposte pronte prima che poniate le domande, una spa, la Diane, per ogni possibile trattamento, un mondo di sapori tutelato da due tristellati – Pierre Gagnaire e Mauro Colagreco – e il Bar Galerie, dove si impone un’alchimia della naturalezza senza riscontri altrove. Ai protagonisti del food & drink arriveremo più avanti.
Adesso un po’ di storia. Il Majestic nasce ufficialmente nel 1926 (vent’anni prima del festival del cinema), ad opera di un genio dell’hotellerie europea, fantasioso e visionario: Henry Ruhl, che concepisce un palazzo Art déco destinato a una continua evoluzione, pur senza perdere lo spirito originario. Le ultime trasformazioni risalgono al 2017 e oggi l’edificio accoglie 257 camere e 92 suite. Durante i 12 giorni del festival offrono alloggio ai grandi del cinema, con presentazioni esclusive dei film (nel piccolo teatro privato), cene, cocktail, trattative mirabolanti ed epici litigi, tutto quanto fa spettacolo e anche di più. Riservatezza garantita e blindata. A me hanno però confessato un significativo dettaglio: durante il festival vengono consumate 18.500 bottiglie di vino, metà delle quali champagne.
Vi avevo anticipato l’incontro coi protagonisti del food & beverage? Eccoci. Il Bar Galerie parla la nostra lingua, ne governano le sorti Emanuele Balestra, italiano al 100% e Guillermo Pittaluga, italiano a metà, per il resto uruguagio. I loro sono capolavori di mixologia, profumeria e botanica. Ne proponiamo qualcuno: Kefir Espresso Martini (Vodka Absolut Elyx, Kalua, caffè espresso, aroma al kefir del loro giardino, combava e fragranza di tuberose), Lavandou (30&40 Double Jus, Gin Monkey 47, aromi di lavanda e mandarino prodotti in maison, ginger ale), Safran Mule (Vodka Absolut Elyx infuso allo zafferano di Taliouine e patchouli, succo di limone verde, ginger beer, patchouli). E si potrebbe andare avanti così con gli altri cocktail in carta, tanto il mood lo avete colto: mediterraneo (porti, città, genti), profumi (di nuovo porti, città, genti), alchimia, gusto per la sorpresa e per l’azzardo. Il risultato, spiazzante, incanta. Tutto quanto non ci si aspetta da un bar di un hotel internazionale, solitamente consacrato ai grandi classici. «Invece noi facciamo a modo nostro – ci racconta Guillermo – creando non solo i cocktail, ma producendo gran parte degli ingredienti. Abbiamo un
giardino botanico all’ultimo piano, dove coltiviamo le varietà più rare e delicate, come il basilico del Kilimangiaro. Poi otteniamo i profumi in un laboratorio di distilleria, sempre qui al Majestic». C’è dell’altro? «Sì, le api, che servono per il miele, e per impollinare le nostre varietà, cosi completiamo il ciclo naturale. Ne abbiamo centomila, produciamo centotrenta chili di miele l’anno e confezioniamo mille vasetti. Sono anche un omaggio per i nostri clienti».
E adesso trasferiamoci da Fouquet’s, per conoscere chi governa i sapori di questo transatlantico dell’accoglienza. Nicolas Maugard è lo chef pasticciere: «Per noi i dolci non sono la conclusione del pasto, ma una portata significativa come le altre, se non addirittura di più. Al Majestic serve talento, ma anche grande capacità organizzativa, e in più adattabilità, per la levatura dei clienti e per la loro provenienza. Il mio percorso mi aiuta moltissimo. Ho lavorato alle Mauritius, a Shangai, Singapore, Abu Dhabi». Come evolve il gusto nella pasticceria: «Oggi si usa in assoluto meno zucchero. Lo richiedono i palati contemporanei e lo impongono le intolleranze alimentari. Quindi si lavora molto sulla frutta e i dolci sono concepiti spesso intorno ad essa. Ma non è una battaglia di retroguardia, ne guadagnano sapori e salute». Pierrick Cizeron, chef executive, è il condottiero di un esercito che scende in campo ogni giorno dell’anno. Da lui dipendono Fouquet’s, i ristoranti della spiaggia, la linea del breakfast, il servizio per gli eventi… «Lavorare con Pierre Gagnaire è un vero privilegio – ci spiega – perché ci garantisce presenza, ascolto, allineamento. Il brand Fouquet’s, nato nel 1899, è una grande una responsabilità. Io amo le proposte vegetali e uso esclusivamente prodotti del territorio, come la carne dei piccoli allevatori. Vorrei che ci si abituasse a consumare tutto l’animale, non solo le parti più nobili. Per una scelta sostenibile senza penalizzare il gusto».
Perché il Majestic ha scelto di puntare su Gagnaire e non su uno chef cresciuto in casa? «I motivi sono due. Per ragioni economiche: un ristorante stellato costa molto, ha un numero limitato di posti e raramente si rivela un buon affare. Poi, se si forma un giovane talento, c’è il rischio che se ne vada. E avremmo un ristorante stellato… ma senza la stella. Monsieur Pierre invece assicura la notorietà di uno chef con tredici stelle, ma il team resta fidelizzato». Lasciamo Cannes e il Barrière con negli occhi il Mademoiselle Gray, in bassa stagione l’unico ristorante aperto sul mare, da sempre il mio preferito: pesce che prima lo vedi e poi te lo cucinano, accenti libanesi e di viaggio, atmosfera decontratta e un DJ per la colonna sonora.
Mare d’inverno? Evviva. E ora due escapade nell’interno, verso due villaggi coup de coeur. Mougins ha 18.000 abitanti e il suo centro storico – organizzato a cerchi concentrici – si arrampica sulla collina a 260 metri di altitudine. Il mare è vicinissimo, ma la confusione è lontana, anche in alta stagione. Bella come un presepe, ha scritto tra le pagine migliori della ristorazione francese. Se il precursore fu Célestin Veran, memorabile figura di chef pescatore, l’icona, il padre fondatore, fu Roger Vergé, che arrivò a Mougins nel 1969. Cinque anni dopo la sua “Cuisine du Soleil” conquistò le tre stelle Michelin. Da allora la bellezza del villaggio, i prodotti d’eccellenza di mare e di campagna, si sono rivelati un attrattore formidabile. E nel 1992 Mougins vantava ben sette macaron, il villaggio più stellato di Francia! Passata la stagione dei patriarchi, oggi si contano cinquanta ristoranti, di cucina locale, bistronomica e gastronomica.
Nel 2006 altra svolta: viene organizzata la prima edizione de Les Etoiles de Mougins, festival internazionale salutato da Paul Bocuse, Pierre Troisgros, Roger Vergé e Alain Ducasse. La prossima edizione del festival, che ha cadenza biennale, sarà dal 15 al 24 settembre 2024. E adesso dove si mangia? Tappa d’obbligo la Brasserie de la Méditerranée, dove la giovane chef, Laela Mouhamou, di origini marocchine, stupisce per talento e fantasia. Nell’assiette ogni ingrediente è perfettamente accordato con l’insieme. Ci trovi la sua storia, la campagna provenzale, il pescato accompagnato con spezie e profumi, una cucina sempre generosa. Mai troppo, mai troppo poco. Le basi? «La famiglia e i gusti di casa. Anche se mio padre non voleva assolutamente che facessi la chef. Poi la “prima linea” nei ristoranti parigini. Dove ho anche passato sei mesi a pelare patate, dopo a cuocere centinaia di omelette tutte uguali. Mougins mi ha incantato, volevo proprio vivere in un posto così. Ma, chissà, un giorno mi piacerebbe portare la mia cucina in altre città, magari all’estero». Ai tempi delle scelte vegane come ti poni? «La cucina mediterranea è naturalmente vegana: verdure, legumi, spezie, profumi. Per me non è un problema».
Invece, per i carnivori privi di ogni pentimento, consigliamo il ristorante Bohème: pregiati tagli di carne, anche a lunga frollatura, selezionati dal macellaio Alexandre Polmard. In cucina lo chef peruviano Manuel Rondan, vero talento. La tappa culturale, imprescindibile, ci porta al Centre de la photographie de Mougins: elegante e prezioso spazio espositivo, sapientemente minimalista per esaltare le opere esposte. Fino al 4 febbraio 2024 potrete ammirare i lavori della finlandese Anna Niskanen: una natura in primo piano riletta con tecniche tradizionali e sperimentali, emozioni visive e quasi tattili, esaltate dal blu di Prussia. A dieci minuti d’auto dalla Croisette, e cinque dal centro storico, in una posizione che dire strategica è nulla, si trova l’Hotel de Mougins, immerso in un parco alberato di 5.000 metri quadrati, con una grande piscina all’aperto, ma riservata ai mesi estivi. Quattro stelle di charme e prezzi assai contenuti.
Biot, l’altra tappa della nostra escapade, dista solo 18 chilometri da Mougins e 17 da Cannes. Insomma, è tutto li: mare e campagna, arte e sapori d’eccellenza. Se il villaggio di Roger Vergé si è rivelato un magnete per gli chef, Biot ha esercitato il medesimo fascino sugli artisti. Van Gogh, Cezanne, Picasso, Vasarely, Peynet, Folon, Léger (a cui è stato consacrato un museo), hanno avuto tutti a che fare con Biot. Che non ti si offre subito col fascino manifesto (e un po’ ruffiano) di una Saint-Paul-de-Vence, dato che mescola alto e basso, piccoli gioielli che vanno scovati e case che meriterebbero diversa manutenzione. Insomma è genuino, vivo e vivace, con la sua tavolozza di sessanta botteghe artigiane: orafi, ceramisti, incisori e, soprattutto, maestri del vetro. Proprio a questi ultimi si deve l’attuale notorietà artistica.
Il vetro è uno tra i più antichi manufatti dell’uomo, concepito in Egitto attorno al 3500 a. C. Nasce dal fuoco, ed è quindi permeato di valori ancestrali. In loco arrivò nel 1956, grazie ad Éloi Monod, che fondò la Verrerie de Biot, marchio blindato e registrato. Alla maison si devono invenzioni decisive nel settore: nel 1956 il vetro “con le bolle” (anticamente un difetto, oggi elemento artistico), lo stesso anno il “turismo industriale” (come quello del vino, con accoglienza e visite in atelier), nel 1980 il “vetro smerigliato”, nel 1999 l’acrilico con bolle, nel 2012 il vetro luminescente (un prodigio, coi manufatti che si caricano di luce per liberarla al buio), nel 2018 il “vetro con resina”. Tra i grandi maestri ricordiamo Jean-Claude Novaro, il Maradona del vetro. Quando si valica l’ingresso della Verrerie il tempo si ferma e non si vorrebbe uscire più: si vedono gli artigiani al lavoro, si visita il museo del vetro, la galleria Serge Lechaczynski (dedicata ai maestri contemporanei, sbalorditiva) e quella intitolata a Jean-Claude Novaro. Infine l’imponente showroom (200 le creazioni della casa), dove ci si aggira come i bambini a Natale. Impossibile uscire senza uno di quei pacchetti confezionati alla perfezione. Di tutt’altro tiro il Centre du Verre Contemporain, collocato nell’ex frantoio di Biot. Qui le parole guida sono: creazione, sperimentazione, condivisione. Il centro collega una comunità internazionale di creatori e studenti che esplorano l’uso del vetro nell’arte e nel design.
Tornando in centro merita una sosta Santa Maria Maddalena, luogo di devozione per i templari (la loro croce è il simbolo di Biot), a metà strada tra la chiesa e la cripta, dato che si entra scendendo i gradini, con evidente effetto mistico. L’Hotel Les Arcades non è un posto come tutti gli altri: ingresso con bar tabaccheria (che ti catapulta negli anni Cinquanta), ristorante ruspante e goloso (piace ai miliardari e agli studenti, tutti allo stesso tavolo), un pugno di camere spartane (come nelle locande di Victor Hugo), gestione familiare, con la matriarca Mimì Brothier ad ispirare il clan. Loro ci sono da sempre, dando asilo a Picasso, Léger, Vasarely, Folon e tanti altri. Ognuno ha lasciato qualcosa, opere che farebbero la fortuna delle più celebri gallerie mondiali. I Brothier invece le hanno disposte in una sala sotterranea (bella e lustra come un museo contemporaneo), che fanno vedere solo se gli sei simpatico. Io, per fortuna, evidentemente lo ero.
E adesso cambiamo riviera. Dopo 230 chilometri siamo a Genova. «Ci sono giorni in cui la bellezza gelosa di questa città sembra svelarsi: nelle giornate terse, per esempio, di vento, quando una brezza che precede il libeccio spazza le strade schioccando come una vela tesa. Allora le case e i campanili acquistano un nitore troppo reale, dai contorni troppo netti, come una vela tesa. Come una fotografia contrastata, la luce e l’ombra si scontrano con prepotenza, senza coniugarsi, disegnando scacchiere nere e bianche di chiazze d’ombra e di barbagli, di vicoli e di piazzette». Lo scriveva Antonio Tabucchi, e questa immagine riappare anche oggi: in particolare in certe giornate d’inverno e nelle mezze stagioni. Genova inglese e levantina, marinaia e proletaria, nobilissima e “superba”. Tutto sotto lo stesso cielo, col mare di fronte e i suoi monti alle spalle. Ma anche la Genova di Cristoforo Colombo, Fabrizio De André, Paolo Villaggio, Eugenio Montale, Renzo Piano e Goffredo Mameli, autore del nostro inno. Tutti diversi, ma forse anche simili: esplorazioni contro ogni logica e canzoni memorabili, umorismo crudele e agrodolce, poesia che sembra scritta sulla pietra, architettura come arte dello stupire e la morte a ventuno anni, in nome della patria che doveva ancora nascere.
Genova si sa che c’è, ma la si frequenta poco. Un vero peccato. La nostra “mediatrice” e narratrice sotto la Lanterna è Sara Boero: genovese DOC, si occupa di editoria e digital storytelling. Ha curato due saggi su Fabrizio De André e ama “quasi” ogni angolo della sua città. Da dove cominciamo? «Partiamo da Spianata Castelletto. Se siete in centro e volete abbracciare la città dall’alto, senza andare sui bricchi, l’opzione più semplice è prendere l’ascensore che collega piazza Portello a spianata Castelletto. La corsa dura meno di un minuto ed è gratuita. Il panorama, incredibile, regala un bel colpo d’occhio sugli stili architettonici disordinati e stratificati del centro. Lì vicino, Don Paolo fa una granita siciliana commovente. Poi via del Campo 29 rosso. Una meta irrinunciabile per gli appassionati di cantautorato: dove una volta sorgeva lo storico negozio di musica Gianni Tassio si trova un’esposizione permanente dedicata a Fabrizio De André, in cui vengono organizzati concerti, eventi e incontri culturali. Lo spazio è il teatro della famosa canzone di Faber. Annotatevi che 29 rosso non è un errore. I numeri a Genova sono diversi dal resto d’Italia: i negozi a piano strada hanno il civico rosso e seguono una numerazione a sé».
E poi? «Il secondo è un itinerario serale. Volete vivere il centro storico by night come un vero genovese? La prima tappa è Maria, la trattoria aperta dal 1946 in vico Testadoro. Ne ha parlato il New York Times, ne ha parlato Le Monde, ma dall’esterno non lo direste mai: basso profilo, tovaglie di carta, tipica accoglienza ligure. Si spende pochissimo e si mangia il meglio della nostra tradizione: minestrone, pasta al pesto, coniglio, stoccafisso… è sempre pieno, dal ’46. C’è un motivo. Un capitolo a parte meritano i Vicoli. Se non vi sentite particolarmente avventurosi, limitatevi alla movida di Piazza delle Erbe e zone limitrofe: affollatissime di studenti nel fine settimana e a prova di GPS. Se vi guida un local, chiedete di fare un salto alla Lepre, o nei localini di piazza Lavagna. Un drink che trovate solo da noi? L’Asinello: il suo nome commerciale è Corochinato, un vino aromatizzato da sedici erbe, tra cui due qualità di assenzio, calissala, corteccia di china, rabarbaro e genziana. L’esperienza da genovesi DOC è andare a berne un bicchierino con scorza di limone al Bar degli Asinelli, in via di Canneto Il Lungo. L’atmosfera è la stessa di Maria: brusca, genovese e indimenticabile».
Nell’area del Porto Antico si “devono” visitare due imprescindibili strutture dedicate al mare: l’Acquario, concepito da Renzo Piano, e il Galata Museo del Mare, con il nome ispirato dallo storico quartiere di Istanbul, sede della comunità genovese fino al XV secolo. L’Acquario sorprende per la bellezza dell’allestimento e per la varietà delle specie ospitate: ben 400 con 15.000 animali. Indimenticabile l’osservazione dei lamantini, degli squali (amatissimi da Petra, nella serie televisiva omonima), dei pinguini (che si ammirano nelle vertiginose traiettorie subacquee), dei delfini e dei pesci tropicali. Nel 2001 l’Acquario è stato completato dalla Biosfera (firmata da Renzo Piano, 20 metri di diametro), dedicata alla foresta pluviale. Al Museo del Mare protagonista assoluta è la storia: quattro piani (l’ultimo ospita una spettacolare terrazza affacciata sul centro storico) e migliaia di oggetti, accurate ricostruzioni (imponente quella della galea genovese), mappe, quadri, video, installazioni. Emozionante la visita allo spazio dedicato ai migranti. Se avete un lontano parente imbarcato alla volta del Sudamerica potete consultare l’archivio telematico. Io, senza trattenere la commozione, ho rintracciato Maria Barosio, approdata a Buenos Aires il 29 settembre del 1929. La visita può essere completata dall’esplorazione del sommergibile Nazario Sauro, ormeggiato nella darsena di fronte al museo.
Seguendo il consiglio di Sara sono stato due volte alla Trattoria Da Maria – ambiente neorealista, clientela working class, ti siedi con chi ti capita in sorte – per lasciarmi ammaliare da una cucina genovese ancestrale, semplicemente buonissima. Medesimo mood si incontra scegliendo Da Mario: pochi minuti a piedi dal Porto Vecchio, ricette e formula identica, stesse frequentazioni e cucina casalinga da manuale. In riviera, solamente a Zena si trovano posti così: memorabili trattorie dove spendere meno di 20 euro a testa. Per me “lusso” è anche questo. Il calcio italiano è nato sotto la Lanterna, con la passione tramandata dal sano odio tra Genoa e Samp. In via di Scurreria 37R merita una sosta Meali: shop dedicato al “football che non c’è più”: riproduzioni di maglie storiche, t-shirt (bellissime, ottimi tessuti) che ricordano eventi epici e il mito di Maradona, ma non solo. Io ho comprato la divisa di Gigi Meroni, una meraviglia. Il racconto di una città può incontrare il design attraverso la produzione di tessuti unici e preziosi? Sì, grazie al talento e alla passione di Simon Clavière-Schiele, parigino trapiantato a Genova, autore di magnifici foulard, dove i luoghi e le storie sono protagonisti. Sorprendenti le versioni in seta, e quelle in seta e cotone: materiale esclusivo, leggero come le nuvole. Ma vengono anche prodotti (esclusivamente su misura) gli originali jeans (che nacquero in città, il nome lo ricorda), realizzati in cotone, indaco e lino. Il nome da mandare a mente è InJeans (www.injeans.it), gli shop si trovano in via Garibaldi 10R, e in via di Prè 120R. Ci sono passato con l’idea di fermarmi pochi minuti, e quasi non volevo più uscire: imprigionato dallo storytailor e da tanta evidente bellezza.
Ancora 88 chilometri verso ovest e arriviamo all’ultima tappa: le Cinque Terre. «La Commissione ha deciso di iscrivere…un sito culturale di valore eccezionale, rappresentante l’armoniosa interazione tra le persone e la natura che realizza un paesaggio di qualità scenica eccezionale, che illustra un modo di vita tradizionale esistito per migliaia di anni». Dal 1997 le Cinque Terre sono Patrimonio dell’umanità UNESCO, questa è la motivazione. E volendo ci potremmo anche fermare qui. «Le Cinque terre: dove il mare e la terra sono ancora padroni, l’uomo può solo cercare di ritagliarsi un piccolo spazio tra una scogliera e l’altra», scrive Fabrizio Caramagna. Mentre Eugenio Montale ci offre il dono della scoperta: «A guizzi, a spicchi, a frammenti fulminei e abbaglianti». I nomi dei cinque borghi – pepite di case colorate compresse tra verde e blu – sono quasi una filastrocca della meraviglia: Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore. Ci vai col celebre trenino o a piedi. Stop. Qui l’uomo, prima dell’avvento del turismo, ha solo svolto due attività: pesca e agricoltura eroica, sui vertiginosi terrazzamenti. Sono paesi come li disegnerebbero i bambini, villaggi come presepi, la Liguria di cinquecento anni fa, ma anche quella, in versione Pixar, del blockbuster Luca.
Località che hanno incantato, uno dopo l’altro, Lord Byron, Mary Shelley, Charles Dickens, Henry James, Virginia Woolf, Willian Turner, Richard Wagner, Mario Soldati, Pier Paolo Pasolini, Indro Montanelli, e, ovviamente Eugenio Montale. Abbiamo lasciato le Cinque Terre per il finale, in quanto destinazioni che – a mio giudizio – vanno visitate in inverno, al massimo in qualche giorno di autunno e primavera. Estate bandita, ma per fortuna la geografia è il peggior nemico del turismo numeroso e vociante. Le Cinque Terre sintetizzano bene il concetto che si preserva meglio ciò che è più lontano, impervio, di complicato accesso. Per pochi e mai per tutti, come il lusso e la poesia. Come il mare d’inverno.
(Foto di MARCO CARULLI)