Torino, speciale 30 anni
«Com’è bella la città, com’è grande la città, com’è viva la città, com’è allegra la città. Vieni, vieni in città, che stai a fare in campagna? Se tu vuoi farti una vita, devi venire in città… Piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luce, con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce, con le réclames sempre più grandi, coi magazzini, le scale mobili, coi grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più…», cantava Giorgio Gaber nel 1969. E allora, quarantanove anni fa, la maggior parte della popolazione mondiale non viveva ancora nei grandi centri urbani, oggi invece si. Ed è un movimento inarrestabile. Perché la città è il luogo di tutte le ricchezze, di ogni forma di cultura, di passaggio e di approdo, di ambizione e di intrattenimento.
In città nasce lo spettacolo, il cinema, la musica, l’arte, la cucina del futuro e quella del presente, il futuro di tutto. E io sono innamorato della città. E noi di Torino Magazine, siamo innamorati della nostra città, ma anche di tutte le altre. Giornalisti urbani per vocazione, perché la città va raccontata. Se qualcuno commenta che nell’era digitale basta un clic per fare tutto rispondo: quante volte quel clic ti inganna, appare e scompare, non si fa più rivedere, quante volte quel clic non resta nella memoria, non costruisce la storia, non offre profondità e non permette ricordi? Vorrei anche parlare del piacere della carta, del godimento che si prova a sfogliarla, e anche ad annusarla. Però non vorrei apparire feticista, quale forse sono, e vado avanti. La carta è cultura, raccontare un luogo usando la carta è civiltà. Chi come me (e anche il mio editore, lo so…) approdando in una qualsiasi città del mondo cerca rapidamente un magazine metropolitano, per informarsi e confrontarsi, mi comprende perfettamente.
La città ci ha dato la trama, i protagonisti e le location. Noi abbiamo provato a scrivere la sceneggiatura, voi ci avete assicurato la fedeltà
Ogni grande città ha sempre avuto il suo magazine e lo avrà sempre. E London Magazine inaugurò la serie a fine Ottocento. Il bisogno reciproco è evidente. Perché ‘narrare’ vuol dire cercare qualcosa che merita di essere narrato e solo nei maggiori centri urbani questo avviene quotidianamente. Nel suo vivere la città Joan Didion provava «la sensazione che da un momento all’altro potesse sempre succedere qualcosa di straordinario», e Suketu Metha completa il concetto aggiungendo: «Quando cammino per la città, i mei sensi sono tesi a percepire qualcosa, l’eccentrico, l’inatteso, anche il moderatamente rischioso». E allora il giornalista interpreta se stesso mettendo in scena il racconto, o, per usare un termine persino abusato, lo storytelling. Nell’arte del comporre un magazine le immagini integrano le parole e la confezione, le pagine, il format, la grafica, rendono ‘oggetto’ il pensiero e la narrazione. A questa consapevolezza ci siamo arrivati con gli anni, ma l’istinto, quello, c’era già dai primi numeri, dalla scelta del titolo, quel termine ‘magazine’ volutamente internazionale che, nel 1988, sembrava persino esotico. E dopo una storia lunga trent’anni, quella di Torino e quella del magazine che porta il suo nome. La città ci ha dato la trama, i protagonisti e le location. Noi abbiamo provato a scrivere la sceneggiatura, voi ci avete assicurato la fedeltà.
Un magazine metropolitano e la sua città sono legati da un percorso indivisibile. «Obiettivi: svelare personaggi, suggerire percorsi, curiosare tra opportunità e progetti che fanno di Torino una realtà viva, intrigante, molto più sorprendente di quanto si potrebbe immaginare. O perlomeno: molto più sorprendente di quanto non pensino buona parte dei torinesi. Si, perché stiamo parlando di una città che attrae architetti, fotografi e registi cinematografici. Tutti incuriositi, e magari anche stregati, da questo singolare intreccio di passato e futuro, di conformismo e creatività, che è oggi Torino. Un grande centro urbano dove 40.000 torinesi non sono di origine italiana e sono arrivati qui da 140 paesi diversi». L’ho scritto nel dicembre 1999, il mio primo editoriale. Oggi potrei usare le medesime parole.