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L’anima della città

di Walter Comello

L’abbraccio della morte

Torino, primavera 2020

Non ho mai sopportato il nome che mia madre mi ha dato. Ogni volta che ci penso ricordo quella sua stridula voce che mi rincorreva per casa. Ogni volta che ci penso, ricordo di non aver mai sentito il mio nome pronunciato da mio padre, mentre ricordo le sue mani, quelle sì che le ricordo. Da quando avevo tre o quattro anni, le ricordo sul mio corpo, infilarsi sotto i miei vestiti e fare di me vergogna. Mia madre sapeva e ha sempre fatto finta di niente. Lavoro all’Ospedale Amedeo di Savoia da quasi vent’anni, passare da un padiglione all’altro camminando tra le siepi mi consente di respirare. Detersivi, alcol e ammoniaca sono i miei compagni di lavoro, la mia famiglia, gli unici amici di cui mi fido. Puliscono ogni cosa, le superfici e il corpo da questo sporco infinito che ricopre il mondo. Mi piace sentire l’alcol che brucia le mie ferite sulle braccia e sulle gambe dopo che le ho tagliuzzate con la lametta.

Passarono i giorni e le settimane, Margherita stava bene e così tutte le persone che incontrava ogni giorno in quegli abbracci. La persona ricoverata a cui aveva accarezzato le labbra era guarita.

Sono andata in quel padiglione laggiù in fondo, la mia divisa e i miei detersivi mi hanno permesso di oltrepassare la porta presidiata dai soldati con le mascherine bianche. Sono entrata in quella stanza in fondo al corridoio da cui tutti stanno ben lontani. Mi sono avvicinata a quella persona con gli occhi chiusi che respirava a fatica, le ho fatto una carezza e ho passato le mie dita sulle sue labbra e poi sulle mie, come in un bacio che non ho mai ricevuto. L’ho fatto più volte, lentamente, mi piaceva e volevo essere certa che avrei portato con me il virus. Non avevo mai toccato delle labbra, neppure le mie. Non ho mai accarezzato un viso, non ho mai provato cosa si prova in una carezza e detesto vedere chi lo fa. Ho tenuto in grembo per una settimana il mio virus, come il figlio che non avrò mai. Ora è pronto a nascere, a uscire da me. Lo accompagnerò come una buona mamma e lo aiuterò a diventare grande con me e dopo di me.

Tutti impareranno a vivere come ho vissuto io, e se questo comporta il mio sacrificio, ne sarà valsa la pena. L’unico rammarico e non poter abbracciare mio padre e mia madre, li avrei presi per mano per portarli con me all’inferno, ma andrò a dirglielo sulla loro tomba. È giunto il momento per l’abbraccio della morte. Avrò un po’ di tempo, non molto, ma quanto basta. Tutto si può prevedere, tranne un malato che nasconde la sua condizione per farne mezzo per il suo straordinario fine. La chiesa gotica di Santa Rita, a due passi da casa, fu il primo luogo prescelto. Al termine della messa, sui gradini della chiesa Margherita abbracciava, baciava sulle guance e augurava una buona domenica a tutte le persone che conosceva o pretestuosamente aveva occasione di avvicinare. Poi fece lo stesso per la strada verso casa e poi, dal giorno successivo, in ospedale con pazienti e colleghi.

Tutti coloro che la conoscevano da tempo si stupirono del suo cambiamento, ma incominciarono dopo qualche giorno ad andarle incontro per ricambiare il suo affettuoso saluto. Passarono i giorni e le settimane, Margherita stava bene e così tutte le persone che incontrava ogni giorno in quegli abbracci. La persona ricoverata a cui aveva accarezzato le labbra era guarita. Margherita era arrivata troppo tardi o al momento giusto per guarire dal suo virus. Ora Margherita e un’altra persona e tutti dicono di lei che e diventata un angelo.