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RISTORANTI ‘CHE VALGONO IL VIAGGIO’, CHE ‘MERITANO UNA DEVIAZIONE’. LA ‘ROSSA’ MICHELIN COME FATTORE IMPRESCINDIBILE PER IL RILANCIO DELLE DESTINAZIONI. IL RUOLO DI TORINO E DEL PIEMONTE. ÉRIC FRÉCHON, MATTEO BARONETTO ED ENRICO CRIPPA CI RIVELANO OPPORTUNITÀ E STRATEGIE
Stellato ha smesso da tempo di essere un aggettivo, per diventare sinonimo. Il firmamento ha lasciato il posto ai ristoranti e ai loro signori incontrastati, gli chef. Ma oggi stellato può essere anche qualcosa, o qualcuno, di universalmente apprezzato. Merito dei riflettori accessi sul mondo del food, che rendono prossimi al grande pubblico luoghi e personaggi che forse non si conosceranno mai di persona. Al di là di ogni luogo comune, il ristorante stellato, meglio se pluristellato, ha valicato i confini gastronomici per certificare la bontà di un territorio, implementando il turismo migliore, quello sempre alla ricerca di nuove motivazioni, disponibile anche a spese significative, attento all’esplorazione delle tradizioni e della cultura. Insomma, il ‘cacciatore di stellati’ è il viaggiatore che tutti vorrebbero. Il simbolo di questo fenomeno è la mitica Rossa: volumetto niente affatto tascabile, solido e compatto, fatto sempre uguale da decenni (ed è un formidabile punto di forza), emblema della competenza coi suoi ‘ispettori’, sapienti cultori del desco, figure mitologiche e anche un po’ misteriose. Quello che conta nella Michelin è un giudizio – inappellabile anche quando lascia comprensibili dubbi – da svelarsi annualmente nel rito dove sono snocciolati i nomi dei beati e degli sconfitti. Una stella, due stelle, tre stelle e il firmamento viene condiviso con una platea immensa, perché la Rossa – che analizza 37 scenari differenti – raggiunge 30 milioni di copie nelle diverse edizioni. Una leggenda editoriale nata nel 1900, ma che iniziò a esprimere giudizi solo 26 anni più tardi. Quanto vale la stella Michelin per un ristorante? E, soprattutto, quanto conta nella valorizzazione del territorio? Secondo un recente studio di JFC Taste Tourism, realizzato per conto di Michelin Italia, l’impatto economico della Rossa è fortissimo. La spesa media di un cliente è di 112,10 euro nei locali con una stella, sale a 178 euro quando le stelle sono due e arriva a 243,80 euro per i tristellati.
Il Piemonte, con numeri in costante crescita, è la seconda regione stellata d’Italia con 46 ristoranti
Il fatturato medio annuale evidenzia queste cifre: 708.247 euro per i ristoranti con una stella, 1.124.604 euro per quelli con due stelle e 1.540.328 euro per i tristellati. Trattandosi di uno studio nazionale, occorre tenere in considerazione fortissime varianti tra azienda e azienda, con locali che talora fatturano il triplo, o un terzo, rispetto alla media della medesima categoria. Se consideriamo i 374 stellati italiani come un soggetto unico, il fatturato annuo supera abbondantemente i 260 milioni di euro. E parliamo esclusivamente di ‘ristorazione diretta’, senza calcolare campagne pubblicitarie, esibizioni fuori sede, show cooking, iniziative editoriali, formazione, consulenze e catering: tutte voci particolarmente attive quando è presente uno chef dal forte appeal. Nei casi di maggiore notorietà, il protagonista può fatture oltre 600mila euro annui solo con l’indotto.
Da questo punto di vista, l’Italia registra ancora un forte handicap rispetto alla Francia, dove il sistema è più rodato, le manifestazioni come il Bocuse d’Or, veri eventi globali e lo ‘chef azienda’ è una figura consolidata. Ma veniamo all’impatto sul territorio, dove i dati sono persino sorprendenti. In un ristorante stellato è fortissima la presenza di non residenti: con il 26,2% di italiani e il 33,9% di stranieri. Mediamente, questi clienti si fermano 1,2 e 1,7 notti nel territorio e spendono ulteriori 256 euro, gli italiani, e 612 gli stranieri. Il fatturato complessivo dell’indotto supera i 290 milioni di euro, e oltre 200 milioni arrivano da turisti stranieri. Se sommiamo i dati si comprende bene il peso del fenomeno Michelin: stiamo infatti parlando di un segmento di mercato che supera i 550 milioni di euro all’anno ed è in continua crescita, come sono in crescita gli stellati italiani. Ma torniamo al ‘value brand’, perché la notorietà di un territorio cresce in maniera esponenziale quando è presente uno chef di forte notorietà. Questi i numeri. Se una località ospita uno chef tristellato, o di pari visibilità, il valore del brand cresce tra i 76 e i 214 milioni di euro. Un grande chef emergente, o un due stelle, porta tra i 7 e i 32 milioni di euro. La singola stella Michelin vale tra i 3 i 12 milioni di euro. Quindi, se si parla della Rossa, non è possibile ridurre il fenomeno alle sole valutazioni gastronomiche, o a un mito che tanti chiacchierano ma pochi conoscono. La Michelin è fatturato, promozione del territorio, applicazione scientifica (per chi ci riesce) di parametri che garantiscono risultati misurabili e ad altissima visibilità. Il confronto tra Francia e Italia è impietoso se ci fermiamo ai numeri – 628 ristoranti stellati transalpini contro i nostri 374 – ma più interessante a livello globale, dove siamo secondi al mondo precedendo Germania e Spagna.
Se confrontiamo i locali europei con i riconoscimenti più prestigiosi – tre e due stelle – la Francia copre il 34,8% del totale e l’Italia un lusinghiero 15,7%. Va comunque tenuto conto che questa è una guida francese, concepita e organizzata dai francesi e dove loro, detentori del brand, vinceranno sempre. La vera novità degli ultimi anni è l’inserimento dei locali con il miglior rapporto tra prezzo e qualità: i Bib Gourmand, nei quali deve sempre essere in carta un menù sotto i 35 euro. Nella Rossa francese le referenze sono 567 e in Italia 266. L’apertura verso questa fascia di prezzo permette di individuare moltissimi ristoranti attenti alle produzioni locali, testimonial del territorio dove si è acceso un eloquente riflettore di visibilità. E ora, inquadrato il tema, scendiamo sul territorio lasciandoci condurre da due maestri a tre stelle: Éric Fréchon ed Enrico Crippa.
Éric Fréchon è un maestro normanno che – a 56 anni – ha vinto tutto quello che c’era da vincere: da dieci anni il suo Epicure all’hotel Le Bristol si fregia delle tre stelle Michelin, da sette la brasserie Le 114 Faubourg (nel medesimo complesso) ne ha una, nel 1993 è stato Meilleur Ouvrier de France (praticamente il graal della cucina transalpina), nel 2008 è stato insignito della Legion d’onore, ha scritto 16 libri (di cui uno di cucina per bambini dedicato al figlio) e, nel 2020, TripAdvisor l’ha posizionato al secondo posto nel mondo per la cucina d’eccellenza. Sostanzialmente un mito, ma un mito nella semplicità.
La sua formula gourmand segue da sempre la medesima regola: esaltazione della cucina francese (con qualche venatura spagnola che arriva dai suoi esordi) attraverso la proposta di materie prime che devono essere inconfondibili, qualitativamente perfette. E poi una manualità da chirurgo, da orefice, dove tutto accade in pochi istanti. «Sono i dettagli che fanno la differenza – ci spiega Fréchon – e sono tanti piccoli dettagli quelli che permettono allo chef di proporre un grande piatto. La mia è una cucina tradizionale ma contemporanea. In tempi di omologazione e mondializzazione, voglio preservare il patrimonio francese, fatto di storia, di prodotti e di continua ricerca. A tavola il concetto di ‘rivoluzione’ non mi interessa, preferisco parlare di ‘evoluzione’. Ma non dobbiamo sottrarci alla modernità, che ci permette un approccio più sano e maggiormente in linea con lo spirito dei tempi. Quindi, noi prestiamo particolare attenzione alle cotture e abbiamo portato in evidenza i prodotti vegetali. Le verdure non sono più solo un contorno, un accompagnamento, ma molte volte diventano le vere protagoniste. Per garantirci il meglio abbiamo creato un orto urbano di 200 metri quadrati e presto ci amplieremo, identificando un nostro produttore».
Quando parla di tradizione, si riferisce anche alla cucina domestica?
«Assolutamente. Il nostro piacere per i sapori parte dalla famiglia, dalla mamma, da quello che gustavamo da bambini. Quei sapori antichi ritorneranno sempre nel nostro palato e sapremo riconoscerli anche dopo tanti anni. Io penso che un cuoco debba lavorare sulla memoria, proprio riportando alla luce i piatti che gli cucinava sua mamma».
Cosa pensa della cucina italiana?
«La amo molto, proprio perché i suoi sapori rimandano alla famiglia e alla convivialità».
Quanto conta l’estetica in un piatto?
«In un ristorante d’eccellenza conta moltissimo, ma io non amo inutili effetti speciali. Il piatto migliore è quello che, sotto un’apparenza semplice, lascia intendere una grandissima tecnica».
Oggi molti chef stellati passano settimane, a volte mesi, in tournée. Cosa ne pensa?
«Io penso… che amo restare nella mia cucina! Naturalmente ognuno ha la propria sensibilità, però, per me, è fondamentale il rapporto quotidiano con la brigata. Sono convinto che sia la migliore garanzia per i nostri risultati ed è quello che il mio cliente vuole. Chi viene all’Epicure deve sapere che sono in cucina».
Quasi tutti i ristoratori stellati producono il proprio pane, ma da voi nascono anche le farine…
«Esatto. Siamo il primo ristorante parigino ad avere un proprio mulino. Il mio amico Roland Feuillas mi fornisce i grani selezionati che maciniamo nel piccolo mulino della nostra boulangerie».
Ci può dire qualcosa della sua brigata?
«Con me lavorano circa cento persone, la maggior parte hanno tra i 20 e i 25 anni, molti di loro sono italiani».
Il Piemonte, con numeri in costante crescita, è la seconda regione stellata d’Italia con 46 ristoranti, preceduto solo dalla Lombardia a quota 62. Il panorama evidenzia due punti forza: Torino con otto ristoranti, ma tutti con una sola stella, e La Granda, territorio leader dell’enogastronomia italiana. In campo 19 ristoranti titolati – un tre stelle (Piazza Duomo ad Alba), due bistellati (La Madernassa a Guarene e l’Antica Corona Reale a Cervere) e 16 a una stella – oltre a un patrimonio enologico e alimentare di consolidato successo.
Il brand Langhe funziona molto bene anche sul fronte turismo, non solo nella richiestissima stagione del tartufo bianco, ma ormai durante tutto l’anno. Il risultato del capoluogo lusinga, anche perché a quegli otto se ne possono aggiungere altri due – Combal.zero e Dolce Stil Novo – che sono alle porte della città. Manca però da tempo la seconda stella, che certificherebbe la bontà di un movimento in evidente crescita: «Torino è sicuramente matura per questo risultato, anzi ne ha bisogno – ci spiega Matteo Baronetto, classe 1977, una stella da che ha riaperto Del Cambio, allievo di Gualtiero Marchesi e per lungo tempo braccio destro di Carlo Cracco – perché la Michelin certifica il risultato e premia il percorso. A ogni step successivo si alza l’asticella e si raggiunge una fascia di clientela più elevata. Possiamo dire che non sono solo i ristoranti a essere stellati, ma anche i frequentatori».
Ma Torino ci crede a questo risultato?
«Forse non ancora abbastanza. Per la seconda e la terza stella occorre fare il tifo tutti insieme: clienti, appassionati, media e istituzioni. Ma non è una competizione tra un ristorante e un altro, le stelle Michelin portano lavoro e visibilità a tutti. Turismo, eventi e cultura ne trarrebbero il vantaggio maggiore».
E tu ce l’hai nel mirino da tempo…
«Sicuramente, ma se non sono arrivato alla seconda vuol dire che non me la sono ancora meritata. Quello che rende unica la Michelin è il rigore nel giudizio, se vuoi anche la rigidità. Ma c’è comunque grande autorevolezza. Per ottenere le stelle occorrono qualità, studio e lavoro. Io l’ho sempre detto: faremo la differenza se faremo cultura».
Chi invece l’Olimpo lo ha già scalato cucina ad Alba, nel cuore del cuore delle Langhe. Enrico Crippa ti accoglie in un boutique restaurant, decorato come un’opera d’arte, che si affaccia su quella Piazza Duomo da cui prende il nome.
È il suo regno, un regno dal quale si allontana malvolentieri, perché, nel mondo degli chef sempre con la valigia in mano, lui preferisce starsene in una comfort zone concepita per esaltare creazioni e talento. Premiato da una terza stella che si è accomodata in cucina nel 2012 per non muoversi più.
Sovente i grandi chef vengono aggregati per scuole di pensiero: gli esuberanti rinascimentali come Alléno, i designer nordici, filosofi di un territorio di assoluta prossimità, come Redzepi, e ancora i francesi, fierissimi della loro storia sfarzosa, i samurai giapponesi che da Tokyo sono partiti per arrivare ovunque… Invece, Enrico Crippa non è omologabile, ha imparato, lui di Carate Brianza, a conoscere le Langhe a menadito senza copiare né origliare. Piuttosto studia, si connette, e dopo fa a modo suo.
Le materie prime, locali e anche no, prendono la forma e il gusto del suo pensiero. La fantasia, acuta ed evidente, non svolazza libera ma si piega al progetto. Così, più che un artista, Enrico sembra un ingegnere, ma non di fondamenta, piuttosto di auto e di ponti, dove la bellezza si manifesta sempre e fa parte della formula. Il tratto distintivo lo si legge nella perfezione minimalista di ogni dettaglio. Non c’è fogliolina, fiore, goccia di salsa che sia lasciata al caso. La matematica dei sapori guida millimetricamente ogni centimetro quadrato dei suoi piatti. Una componente mistica concorre al risultato. Enrico, con quel fisico asciutto e minuto, con quello sguardo risoluto e non sempre penetrabile, con quelle parole che non sono mai una di troppo, ci fa pensare alla più corretta definizione di sciamano (Ugo Marazzi): «L’intermediario professionale che opera da tramite tra il mondo degli uomini e il mondo degli spiriti», dove per spiriti si intendono la natura, il prodotto, il nutrimento. Enrico, lo sciamano dei gusti perfetti, concepisce il progetto, lo esegue e poi, attraverso un rito che solo lui conosce, gli infonde quell’anima senza la quale il piatto sarebbe solo esercizio di stile.
Da uomo di Brianza a chef iconico di Langa, qual è il tuo rapporto con questo territorio?
«Tra la mia terra d’origine e questa c’è una differenza sostanziale: qui si mangia bene dappertutto, in Brianza no. Nelle Langhe la cucina di famiglia è ancora un rito, nelle case si preparano plin e tajarin, si conoscono i prodotti, le ricette sono un patrimonio condiviso. Quando sono arrivato, nel 2003, grazie alla famiglia Ceretto ho avuto la possibilità di dedicarmi per due anni allo studio del territorio. È stato un passaggio fondamentale, perché ogni piatto ha una sua memoria. A me piace cambiare il volto del piatto, la sua forma, ma il sapore deve rimanere quello antico e codificato. Prima di metterlo in carta lo faccio provare agli anziani. Al primo sguardo restano stupiti. Ma poi, quando lo assaggiano, arriva il verdetto. E in buona parte dei casi vengo promosso».
Quanto contano le stelle per la promozione di un territorio?
«Sono un grande volano per l’economia e la visibilità. Intorno ai ristoranti stellati gira tutto: il turismo, le enoteche, le attività commerciali. La Michelin continua a imporsi perché è stata la prima, rappresenta un punto di riferimento e certifica dei valori precisi. Di conseguenza il suo giudizio è riconosciuto. Anche il sistema delle visite, dei controlli incrociati, è condotto con grande serietà».
È più difficile accogliere un cliente quando hai una stella o quando ne hai tre?
«Sicuramente il cliente dei ristoranti con una stella è più difficile, paradossalmente, proprio perché la soglia di prezzo è più bassa. In quei locali arrivano anche clienti meno esperti, meno avvezzi alla spesa, meno educati a una certa tipologia di proposta. Sono i casi più difficili e serve maggiore pazienza. Il cliente del tre stelle è di un livello differente, conosce bene le regole e non ha niente da dimostrare. Quindi è più rilassato e si gode l’esperienza. Ma è anche un conoscitore, passa da un locale all’altro dello stesso livello nelle destinazioni più importanti. Noi abbiamo clienti che tornano più volte, si lasciano guidare e conosciamo i loro gusti. Qualche volta si concepisce un menù su misura».
Ecco, il menù. Voi avete abbandonato la carta e proponete solo il menù degustazione…
«Sì, mi permette di offrire, accanto ai piatti della mia linea, le ispirazioni che arrivano dal mercato o dall’orto. Capire il modo di lavorare di un cuoco vuol dire comprendere quell’eccitazione che prova quando va al mercato e trova un prodotto straordinario che lo ispira. A quel punto avrà solo una priorità: andare in cucina e creare qualcosa di unico proprio da quel prodotto».
Non ami cucinare in trasferta, sei in controtendenza rispetto alla maggior a parte dei tristellati. Come mai?
«A me piace fare il cuoco e sono convinto che, quando non sei nel tuo ristorante, il risultato sia quasi sempre modesto. È una questione di prodotti, perché, soprattutto all’estero, mancano quelli che utilizzi abitualmente. Poi ognuno ha le proprie attrezzature, che magari non sono perfette, ma garantiscono il risultato desiderato. Quando un cuoco lavora in trasferta gioca sulla difensiva, punta a fare il minor danno possibile».
Qual è la cucina internazionale che fa scuola?
«È sempre la Francia a guidare il sistema. Sono più organizzati, lavorano meglio sul brand, sostanzialmente sono più bravi. Faccio un esempio: da loro non trovi solo la frutta e le verdure che ti servono, ma il prodotto è anche disponibile per misure. Per chi lavora sull’eccellenza è un servizio di grande utilità».
Già, le verdure: la colonna dorsale della cucina di Enrico Crippa. Nell’antipasto del suo menù sono loro a dominare la scena, con nove piccole e saporitissime composizioni: acciuga al verde, cavolo di Bruxelles e senape, sedano, toma & noci, zucca marinata & nocciole salate, funghetti all’olio, capunet vegetale, broccolo romanesco e brusca, insalata di spinaci e parmigiano, insalata di puntarelle, ceci e spezie. «Lavorare le verdure mi appassiona e oggi, quando compongo una ricetta, parto da loro per poi aggiungere la proteina. E i primi a gradire questo approccio sono proprio i clienti, anche quelli meno abituati. La verdura è anche più performante: tra un prodotto medio e uno eccellente c’è una notevole differenza. Vale meno per la carne. Quando servi il miglior taglio di filetto ti dicono: ma com’è morbido. Il concetto di ‘buono’ passa in second’ordine. Per la mia cucina vegetale è fondamentale il nostro orto, che comprende una serra di 400 metri quadrati e un appezzamento agricolo di 4mila. I prodotti – oltre 400 specie tra botaniche e orticole – coprono tra il 70 e l’80% del fabbisogno di Piazza Duomo. L’orto è una comodità, ma ci devi andare tutti i giorni: da quelle colture, molte delle quali sono vere fonti di ispirazione, parte il mio lavoro».
Quali sono i tuoi obiettivi a otto anni dalla terza stella?
«Io lavoro ogni giorno come se ci fosse una quarta stella da raggiungere, o come non avessi ancora la terza. La cucina è un campo di gara dove, per essere competitivo, non posso mai fermarmi a guardare quello che ho già conquistato».
(Foto di MARCO CARULLI)