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Città di carta

di Giulio Biino

Fabrizio e Andrea

Torino, inverno 2021

Ogni volta che ritorno in Sardegna non posso fare a meno di pensarli.

Ma mi piace pensarli anche adesso, nelle fredde e uggiose serate invernali, per riandare, con la mente, alle lunghe e calde serate estive.

Si può essere poeti scrivendo canzoni? Certamente sì, e loro ne sono un esempio inequivocabile.

Per di più hanno avuto in dono la voce, una voce straordinaria, una voce che li elevava entrambi al di sopra degli altri, un dono che si trovava lì fin dall’inizio, come per Leonard Cohen, come per Art Garfunkel.

Ogni volta che ritorno in Sardegna non posso fare a meno di pensarli, Andrea Parodi e Fabrizio De André. Un esempio inequivocabile della possibilità di essere poeti scrivendo canzoni

In comune tra loro, l’amore per una terra aspra e selvaggia come la Sardegna, una terra fatta di colori, di profumi, di sentimenti intensi, quella stessa terra che il nostro Creatore ha voluto fosse così bella da far impallidire il resto del creato, un «incidente della felicità», la definiva Fabrizio.

Che straordinario incrocio, il loro.

Andrea Parodi in Sardegna ci era nato, nel 1955, da una madre di Savona.

Fabrizio de André, invece, era nato in Liguria nel 1940 ma, dalla seconda metà degli anni ’70, decise di trasferirsi definitivamente in Sardegna, la regione che gli aveva rubato il cuore e segnato l’anima.

Entrambi se ne sono andati troppo presto: Fabrizio nel 1999 e Andrea nel 2006, ma entrambi ci hanno lasciato un ricordo indelebile.

Nel 2005 Andrea cantò sulla spiaggia la traduzione in sardo di The sound of silence (Deo te cheria Maria). Alla chitarra lo accompagnava Al di Meola, forse il più virtuoso interprete vivente di quello strumento. Cinquemila persone ascoltarono quel canto che sembrava provenire direttamente dal cielo, rapite ed estasiate. Si dice che al termine non fossero riuscite ad applaudire: quei diecimila occhi erano inondati di lacrime.

Quelle stesse lacrime che rigarono le guance di chi ascoltò dal vivo Hotel Supramonte, cantata da Andrea nel concerto di Cagliari del 2006 in memoria di Faber, poco prima che anche Andrea, già gravemente malato, ci lasciasse.

Sul palco insieme ci sono stati più volte. Si amavamo come si amano i cuori che si riconoscono. In comune non avevano soltanto la Sardegna ma anche la sua lingua. E tra di loro comunicavano in dialetto: il ligure o il sardo. Lingue ancestrali, lingue musicali che si intersecano a Carloforte, l’isola nell’isola, dove tutti e due si sentivano a casa.

Hanno cantato insieme, tra l’altro, in Pitzinnos in sa gherra, il brano che i Tazenda (il gruppo fondato da Andrea) hanno portato a Sanremo nel 1992, la vera canzone vincitrice di quell’edizione, un intenso e poetico brano sul tema dell’infamia della guerra soprattutto quando tocca i più piccoli, gli innocenti, i bambini («quaranta, cinquanta, cinquantuno ferite di coltello nel cuore, tutti seduti giù per terra, bambini nella guerra», l’ultima e unica strofa della canzone scritta in italiano proprio da Fabrizio).

Avevano un progetto cui Fabrizio aveva già dedicato la struggente Le acciughe fanno il pallone, inno ai pescatori di acciughe e alla leggenda secondo cui sarebbero in sostanza pescatori di stelle, perché le acciughe in origine erano stelle cacciate in mare dalla luna invidiosa della loro luminescenza: cantare insieme un brano scritto da Andrea in dialetto ligure, con la musica di Fabrizio.

Li avrei invitati a parlare e cantare insieme al Salone del Libro, parole e note a inondare il cielo di Torino, due voci incantevoli capaci di recitare insieme una «smisurata preghiera».