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Food Under 30

I ragazzi di Torino sognano New Tork e restano a Torino

di Guido Barosio e Tommaso Cenni

Autunno 2019

LA SUGGESTIONE DI GUIDO BAROSIO SUI GIOVANI DI IERI E DI OGGI E SULLA CUCINA DEL PASSATO E DEL FUTURO DI TORINO. SFIDA RACCOLTA: TORINO E NEW YORK NON SONO MAI STATE COSÌ VICINE E, IN FONDO, RESTARE NON È POI UNA BRUTTA IDEA

La parola ‘giovane’ ha perso il suo appeal? Come le musicassette, le televisioni col tubo catodico e i gamberetti in salsa rosa? Forse perché nel nostro Paese abbiamo avuto i giovani più vecchi del mondo, belli comodi, ‘sdraiati’, come scrive Michele Serra. Parrebbe che da noi i giovani sono stati tali solo dal 1960 al 1975 circa, con riviste dedicate (il leggendario Ciao 2001) e un’ondata beat che tutti ricordano: Celentano, Caterina Caselli, Equipe 84 (si chiamavano così per l’età complessiva dei quattro componenti). La ristorazione, invece, non è stata mai giovane: nei ristoranti belli gli adulti, i ragazzi a mangiare la pizza, volendo in birreria. Poi, nel nuovo millennio – quando la definizione aveva perso il suo fascino – le cose sono cambiate. Oggi cominciamo a fare i conti con una nuova generazione di chef, raramente ventenni, ma trentenni sì. E poi la clientela si è modificata geneticamente, con un approdo trasversale che ci allinea (o quasi) agli scenari internazionali. Merito di una narrazione che certifica gli chef come icone del contemporaneo, dove Ronaldo vale Bottura e Cannavacciuolo è popolare come Jova. Dove Gordon Ramsey che spacca i piatti per terra ha quasi più visualizzazioni della Juve in Champions.

Se questo non è un paese per vecchi, probabilmente sarà per giovani. E se è vero, quanto? E in che modi? Gettato il guanto da Guido Barosio, raccogliamo la sfida e ci addentriamo nel mondo della ristorazione dedicata agli under 30 e non

Resta comunque un gap da colmare, perché un giovane professionista a Dubai o a Londra guadagna tre volte i nostri. E nei ristoranti importanti si spende, eccome. Una mia amica di New York mi ha detto: «Fate un servizio sulla clientela under 30? Interessante. Da noi sono la maggioranza. I manager di Wall Street e quelli della FinTech hanno tutti meno di 30 anni e ordinano ai tavoli di Manhattan. Invece andrebbero studiati gli ‘over’, che nei ristoranti top non sono più del 30%». Questione di prospettive, per noi ancora chimere. Oggi – scomparsi i giovani e gli adulti – esistono sostanzialmente due tribù interessanti: i millennials e i perennials, gli over 50 che si godono tutto indipendentemente dall’età, e che possono permetterselo. In questo reportage ci occuperemo dei primi, analizzando lo scenario torinese. Perché è la nostra città, ma anche perché Torino innova e ha sempre anticipato gusti, mode e tracciati vincenti. Il Quadrilatero Romano ospitò le prime ‘trattorie contemporanee’ per millennials (anche se non c’erano ancora) già alla fine degli anni Novanta, mentre l’allora trentenne Davide Scabin otteneva la prima stella Michelin con la cucina più ardita d’Italia. Esploratori del nuovo, punto e a capo. E oggi cosa accade nella città ritenuta, con un pizzico di sciovinismo, la più gourmet d’Italia? Esploreremo rotte diverse: quelle della clientela under 30 (c’è ed è definibile? Non c’è e si vorrebbe che ci fosse? Quanto e dove spende?), quella delle ‘formule dedicate’, quella dei locali rivolti ai millennials, quella degli chef di giovane generazione, under 30 o giù di lì. L’ambizione è di stilare una mappa, aggiornabile e fluida, come l’età che ci portiamo appresso.

Di Guido Barosio

Fanno sempre comodo, tutti li vogliono, tutti li cercano. No, non sono i soldi né stopper affidabili, ma gli under 30. O, meglio, i ragazzi che gravitano attorno alle tre decadi e compongono una potenziale, e ideale, clientela per ristoratori e locali della città. Perché sono così ambiti? Semplice: sono tanti, più in giro che a casa e fondamentali sui social. Se questo non è un paese per vecchi, probabilmente sarà per giovani. E se è vero, quanto? E in che modi? Gettato il guanto da Guido Barosio, raccogliamo la sfida e ci addentriamo nel mondo della ristorazione dedicata, e non, agli under 30. Sono trascorsi quasi sei anni da quando, nei quartieri dell’ebollizione culturale di Londra, scoppiava la moda del barber-lunch, con locali, spesso asiatici, che servivano da mangiare e offrivano un taglio o una piega in tempi ridottissimi. Da un paio di anni a Torino esiste 16PincoPallo (via Vincenzo Gioberti 25), un luogo in cui si respira un’aria simile, con tutti gli accorgimenti sabaudi del caso (anche se le egg benedict non mancano); mezzo barbiere e mezzo ristorante, per una pausa, un brunch domenicale o un aperitivo in attesa che un’amica concluda la piega.

Percorrendo la strada degli ibridi con sfumature londinesi, doveroso è un salto sul lungo Dora, dove inizia Aurora e gli  universitari del Campus Einaudi si riuniscono per un meritato spritz a Le Panche (a un euro e 50 mica male). Tra queste viuzze con nomi di città, che fanno capo a via Catania, un frammento di Shoreditch, Pai Bikery (via Cagliari 18/D) gioca sul binomio, ormai affermato, fra rimessa di bici e ristorazione.

Pai Bikery
© Davide de Martis

Poormanger
© Daniele Regoli

L’idea è avvicinare, come da gioco di parole, due delle grandi mode degli ultimi dieci anni, bici e pasticceria. D’obbligo il brunch domenicale a base di pancake belli, vari e buoni, prenotando perché se no si sta fuori. Da Londra, insolitamente, saliamo, direzione Scozia, precisamente Edimburgo. Da qui, un giovane Valerio, socio di Marco e Daniele, portò indietro l’idea di una jacket potato nostrana, primo mattoncino di Poormanger, fenomeno gastronomico e culturale che ha investito Torino in pochissimo tempo, creando un piccolo impero locale. Due ristoranti, l’originale in via Maria Vittoria 36 e una fresca apertura di fronte al Municipio (via Palazzo di Città 26/B), ma un comune denominatore: la coda fuori. Una clientela giovanissima e la dimostrazione che, a volte, un’idea può cambiare la vita. Fino a ora abbiamo visto nuove aperture, sintomi (positivi) della globalizzazione, ma tutto ciò non significa che gli under 30 non frequentino locali della tradizione.

© Davide Gallizio

Un esempio su tutti, collocato nella sempre bella ed espansiva piazzetta IV marzo, è la Piola di Cianci. Stracolma di ragazzi ogni giorno, a pranzo e a cena, forte di una qualità che non cede e di prezzi che senza dubbio affascinano; mangiare bene con 15/20 euro non capita più così spesso. 15 euro circa è anche il prezzo per pranzare da Miscusi (via Luigi Des Ambrois 7), il piatto di pasta forse più instagrammabile di Torino, d’altronde viene da Milano… e a volte queste coincidenze fanno pensare.

Ci si consola con una carbonara, fra trentenni, ai Dù Cesari (corso Regina Margherita 252), ospiti di Danilo, per tutti Er Pelliccia, che un giorno ha deciso di staccare un pezzo di Roma (la porzione verace) e portarlo su un bordo di città che solitamente, se arrivi fin qua, è solo per i carciofi, l’abbacchio o l’amatriciana. D’altronde, se ogni quartiere ha la propria vocazione, le sue fasce d’età e d’idee, differenze anche sottili, dagli universitari di Santa Giulia ai giovani professionisti del Quadrilatero, è anche vero che la ristorazione è in grado di reinventare le zone; come Giuseppe Zangari che in Borgo Vittoria, al Caciucco (via Giachino 85), propone una cucina giovane, di innovazione e rivisitazione, e qui i ragazzi portano a cena le donzelle per spendere il giusto e stupire molto.

O come da Spazio7 (via Modane 20), volutamente decentrato, connubio di arte e cucina d’alto livello, con la certificazione di una stella Michelin per lo chef Alessandro Mecca e la supervisione, nonché il patrocinio, di Emilio Re Rebaudengo, classe 1989, quindi perfettamente in linea con il nostro target.

O, ancora, come quando entri la prima volta da Affini (via Belfiore 16/C) o alla Rivendita n.2 (piazza della Repubblica 3), creature di Davide Pinto, per osservare il nuovo concept dell’aperitivo torinese che Michele Marzella, barmanager di Affini, ci racconta così: «All’inizio c’era un po’ di timore: tutti meno che trentenni, alcuni alla prima avventura seria, sapevamo che avremmo offerto una formula di aperitivo inedita, senza buffet, che però ha incontrato i gusti degli under 30, emancipati, liberi di mangiare tanto o poco, di spendere di più o di meno, senza rinunciare mai alla qualità delle nostre tapas»; e a quella formula, tre piatti più un cocktail a 14 euro, che è ormai cavallo di battaglia. Rivendita è invece l’innovazione coniugata al passato, «una caffetteria fatta di chi vive i banchi del mercato, i quotidiani e il buon vino».

A proposito di storicità, il professionista del settore si chiama Alberto Fele (32 anni), al quale era impossibile non dare voce essendo uno degli artefici della rinascita di CasaGoffi (viale Michelotti 52/C), EraGoffi (corso Casale 117) e Cantina da Licia (via Mazzini 50), trittico di locali storici, diversi fra loro ma accomunati dall’essere stati simboli della ristorazione torinese. «La nostra clientela va dai 25 anni in su; chiaramente Cantina da Licia, essendo un’enoteca con cucina, ha il target d’età più basso, simile al cocktail bar più cucina che è CasaGoffi, mentre un ristorante gourmet come EraGoffi alza il tiro. Importante è valutare che, se uno non ha la pretesa di ammodernare tutto indistintamente ma pensa a valorizzare marchi e storie, può far respirare anche ai più giovani quel passato che non dobbiamo dimenticare, e che i giovani amano respirare più di quanto pensiamo». Giovani di 30 anni o meno che inventano, cucinano, mangiano, e a volte compiono un po’ tutte queste azioni insieme.

Ce lo racconta Stefano Sforza, enfant prodige neanche ventenne alla corte di Alain Ducasse, passato dalla Scala di Milano al Del Cambio di Torino, ora fresco dell’apertura del nuovo Opera – Ingegno e creatività (via Sant’Antonio da Padova 3): «Spesso i trentenni che vengono a mangiare sono colleghi, curiosi e attenti nel sorvegliare l’evoluzione della ristorazione cittadina. Questa non è una cucina per tutti, alle spalle ci sono un’etica e un’idea di gastronomia che pretendono certi prezzi; chiaro che il trentenne ha voglia di provare cose nuove, ma deve anche averne la possibilità. Ora è così, 20 anni fa era diverso, tra 20 anni non saprei dire: so che, adesso, ciò che il cliente cerca nei piatti è riconoscibilità e sicurezze».

Da Opera
© Davide Dutto

Stefano Sforza, chef di Opera
© Davide Dutto

Salto! Dalle certezze di Sforza alla rivoluzione copernicana di Christian Mandura, chef ormai riconosciuto, fautore insieme a uno staff giovanissimo (22 anni in media) di Unforgettable (via Lorenzo Valerio 5/B). Il format ‘indimenticabile’ è abbastanza un unicum: dieci posti a sedere per una cena preparata e chiacchierata di fronte (letteralmente) ai nostri occhi. Una cucina adulta, matura, che però si sposa perfettamente con la curiosità dei più giovani: «Amo i miei clienti ‘giovani’, che poi hanno praticamente 30 anni come me, perché sono aperti al futuro e alle sperimentazioni, e perché tendenzialmente leggi nei loro occhi i sacrifici economici fatti per essere a questo tavolo. Detto questo, in cucina, specie nella mia, non conta l’età, conta l’identità». E la teatralità, viene da pensare talvolta. Comunque, dietro troviamo sempre una buona dose di sostanza, il ‘dark side of the moon’ di ogni narrazione fatta per bene.

Ecco, l’impressione è che in questo viaggio si siano incontrati tanti ragazzi desiderosi di essere pronti, alla vita e alla cucina; attenti a non prendersi ‘pacchi’ e a riconoscere la qualità e l’innovazione dove esistono. E, quindi, torna in mente Silvia Celeste Borrelli, coordinatrice dell’associazione Giovani di Slow Food, che mentre infila i vestiti in valigia per un altro viaggio ci parla come chi ti parla ai tavolini di un déhors in San Salvario (senza troppi fronzoli): «Io vedo Pollenzo, mi sembra un’isola felice, ma osservo anche il mondo fuori, ed è un’altra cosa. Non basta avere soldi in tasca per comprendere la qualità, bisogna avere cultura». Una cultura che si alimenta con l’intelligenza, si nutre con la curiosità e con lo studio, e perché no anche con la pretesa di poter formulare una mappa della ristorazione under 30, fra luoghi e voci giovani, giochi d’innovazione e recupero del passato, tra necessità di regole e pulsioni verso una sorta di anarchia gastronomica. D’altronde, se la nostra età è davvero così fluida, varia e adattabile ai suoi contenitori, allora vuol dire che può stare bene un po’ ovunque, l’importante è che conservi sempre la sua indole di libertà.