Torino, speciale 2021
Ho compiuto trent’anni nel remoto 1990, l’anno delle “notti magiche” di Nannini e Bennato. Arrivato a Torino una dozzina di anni prima, dalla Puglia, per frequentare il Politecnico, a Torino sono poi restato, come spesso accadeva all’epoca anche a tanti miei coetanei. In quei dodici anni avevo vissuto tutto quello che mi sarebbe servito per il resto della vita: anni frenetici, faticosi, rischiosi, esaltanti, difficili, in fin dei conti… felici. E non solo per l’età: adesso provo a dimostrarvelo.
Un arguto quanto insolito saggio di Paolo Gallina (Mondadori, 2011), intrigante già dal titolo, La formula matematica della felicità, dimostra la tesi per cui a uno stato di benessere va forse attribuita la sensazione di serenità, ma lo stato di felicità è da collegarsi unicamente alla percezione di un miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Una persona ricca non è felice in quanto ricca, ma solo se aumenta la sua ricchezza; un atleta non è felice per il suo stato fisico, ma solo se migliora le sue performance sportive. Di contro, una persona povera può essere felice anche per pochissimi spiccioli in più, che lascerebbero del tutto indifferente un ricco. O una persona in sovrappeso andrebbe in brodo di giuggiole solo se riuscisse a perdere qualche chilo, senza necessariamente raggiungere la forma di un atleta.
Trent’anni fa ero felice perché venivo da dodici anni in cui sperimentavo un trend positivo, seppur tra immancabili alti e bassi, nella mia esistenza: buona autonomia economica, interessanti sviluppi professionali, intense relazioni personali rendevano certamente giustizia ai tanti anni di studio e di “esilio” volontario in città. Ma sentivo che la felicità non era solo un sentimento individuale, bensì era condiviso a livello di comunità torinese: Torino iniziava a dismettere i colori grigi della città industriale per intraprendere un percorso di ricerca di una nuova vocazione, tra terziario avanzato, cultura contemporanea e consapevolezza turistica. Il tutto accompagnato da diverse sperimentazioni di varia innovazione che hanno reso la città pioniera nei settori del risparmio energetico, della creatività, della mobilità sostenibile e dell’inclusione sociale.
Abbiamo toccato il fondo?
È questa la domanda che devono porsi i trentenni di oggi per provare a dare una svolta.
Una generazione che abbia il coraggio di osare, di cambiare le regole di misura del successo (e della felicità)
L’ebrezza è continuata ancora per sedici anni, per culminare con il climax delle Olimpiadi del 2006. Dopo? Immancabilmente, come dopo ogni salita, abbiamo assistito a un lungo periodo di discesa, di rallentamento degli entusiasmi, di generale degenerazione delle condizioni collettive, che hanno prodotto automaticamente la fine della felice euforia e l’inizio di una triste depressione: la città ha vissuto un lento e inarrestabile declino, con fuga di aziende, diminuzione della popolazione, aumento delle tensioni sociali nelle periferie.
Abbiamo toccato il fondo? È questa la domanda che devono porsi i trentenni di oggi. È pur vero che le loro condizioni di partenza sono certamente peggiori di quelle della mia generazione, ma proprio per questo, secondo me, per loro è più semplice provare a dare una svolta a questo percorso in discesa, facendo leva sulle competenze che sono riusciti a immagazzinare e sulla consapevolezza circa l’importanza dell’intelligenza in ogni percorso di sviluppo.
L’intelligenza di una generazione di trentenni che abbia il coraggio di osare, di cambiare le regole di misura del successo (e della felicità): non solo futuri capitani di industria, ma anche pionieri di una riscoperta del ruolo sociale dell’impresa; non solo interpreti della finanza internazionale, ma anche esempi virtuosi di economia circolare e di lotta allo spreco; non solo protagonisti della politica, ma anche generosi attori del volontariato solidale.
Rendere felici i propri cittadini è, forse, il più alto obiettivo di una città intelligente.