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Città di carta

di Giulio Biino

Un incontro fortuito?

Torino, estate 2020

Il giorno è il 7 aprile. L’anno è il 1924. Il luogo è piazza Carlina. E dove se no? Antonio e Pier Giorgio avrebbero potuto incontrarsi soltanto lì. E cosa avrebbero avuto da dirsi? Così diversi, ma forse più simili di quanto potesse sembrare a chi li conosceva solo superficialmente. Gramsci era appena rientrato da Roma: il giorno prima era stato eletto deputato. Aveva 33 anni. Frassati, il giorno prima, aveva invece compiuto 23 anni. Non sapeva che la sua parabola di vita stava giungendo al termine. Sarebbe infatti morto il 4 luglio dell’anno successivo. Antonio, provenendo da Cagliari, a Torino si era laureato, tra i suoi maestri figurava anche Luigi Einaudi. Aveva già fondato L’Ordine Nuovo e, soprattutto, nel 1921, il Partito Comunista d’Italia, sezione italiana dell’Internazionale. Pier Giorgio era ancora iscritto all’Università, frequentava Ingegneria Meccanica con l’intenzione di poter lavorare al fianco dei minatori (la classe operaia più disagiata a quel tempo e che in Italia operava principalmente proprio in quella Sardegna da cui proveniva Antonio); alla laurea non ci sarebbe mai arrivato.

La morte lo ghermì a due soli esami dalla sospirata meta, e fu poi insignito della laurea ‘ad honorem’ (alla memoria) nel 2001. E chissà se fu proprio quell’incontro con Antonio a dargli l’idea di fondare, poco più di un mese dopo, la Compagnia o Società dei Tipi Loschi, un’associazione che di losco non aveva proprio nulla e che, dietro l’apparente facezia, nascondeva il progetto di un’amicizia cristiana a tutto tondo, capace di valere per tutti gli ambiti della vita. Erano certamente molto diversi, ma accomunati da un’anima bella e da una ferrea forza di volontà.

Il giorno è il 7 aprile. L’anno è il 1924. Il luogo è piazza Carlina. E dove se no? Antonio [Gramsci] e Pier Giorgio [Frassati] avrebbero potuto incontrarsi soltanto lì.

«Vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere una lotta per la Verità non è vivere ma vivacchiare», affermava Pier Giorgio e, di rimando, Antonio: «Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione». E fu visitando i poveri nelle loro abitazioni che Pier Giorgio contrasse una meningite fulminante che lo portò rapidamente alla morte, mentre Antonio, in carcere (a Turi, in provincia di Bari, dove era stato recluso perché, come disse il pubblico ministero Isgrò al termine della sua requisitoria, «bisognava impedire a quel cervello di funzionare per 20 anni») si spegneva consunto da una precoce arteriosclerosi. Chissà cosa si sarebbero detti quella sera in piazza Carlina… Probabilmente non sarebbe stata la politica a occupare lo spazio di quel breve incontro, ma il cielo di quella Torino che entrambi amavano (e che li ha ricambiati dedicando a ciascuno di loro una via) e poi le montagne che la circondano, la più grande passione di Pier Giorgio.

E forse le favole de ‘L’albero del riccio’, gli struggenti e dolcissimi racconti che Antonio, dal carcere, scrisse per i propri figli. E poi, perché no, l’importanza dello studio, la comune aspirazione a cambiare il mondo, consapevoli entrambi della necessità di farlo, non importa quale sia il punto di partenza. Riposano apparentemente lontani: Pier Giorgio in una cappella laterale della navata sinistra del Duomo di Torino; le ceneri di Antonio, inumate nel cimitero del Verano, furono poi trasferite nel Cimitero acattolico di Roma, nel campo Cestio. Ma mi piace pensare che in realtà dormano vicini.

Pier Giorgio, ordinato beato nel 1990, torinese di nascita e nell’anima, e Antonio, intellettuale e politico dalla sterminata produzione letteraria, sardo di nascita ma torinese d’adozione, accomunati da una morte precoce che tuttavia non ha impedito loro di fare della propria vita un capolavoro, idealmente abbracciati per l’eternità.