PEDALANDO TRA I TORNANTI E I PROTAGONISTI CHE HANNO FATTO GRANDE LA STORIA DELLO SPORT, SCOPRIAMO LE NUOVE FRONTIERE DEL CICLOTURISMO ACCOMPAGNATI DA UN BIKER D’ECCEZIONE, L’ASSESSORE GIOVANNI MARIA FERRARIS, PER SCOPRIRE QUANTO HA DA OFFRIRE LA NOSTRA REGIONE
Sport come svago, come benessere, come cura del corpo e della mente; come divertimento, come gioco, anche come agonismo, ma non necessariamente: anche soltanto qualche volta. E ad aleggiare su ognuna di queste connotazioni c’è quasi sempre lo sport come emulazione, come sogno, come desiderio di ‘imitare i campioni’, di sentirsi unici per un giorno o soltanto per poche ore. In questo ambito, non c’è disciplina più immediata e popolare del ciclismo, perché lo sport del pedale è l’unico che ti accolga sulla sede di gara rendendola accessibile senza il minimo sforzo. Il ciclismo non agisce in palazzetti dello sport, autodromi, impianti esclusivi di tennis, stadi con l’erba curatissima, pendii sciistici ‘barrati’ e dunque resi ghiacciati per creare selezione tra i fuoriclasse e per questo vietati ai comuni mortali della domenica, che manco starebbero in piedi in quelle condizioni. Nel ciclismo c’è soltanto la strada, perché la strada è l’unico teatro di gara, il più autentico e raggiungibile da chiunque voglia sentirsi un campione.
Pedali in via Roma a Sanremo e per un attimo ti vesti da eroe della Classicissima di Primavera; sali lungo i 48 tornanti del versante classico dello Stelvio e ti pare di essere Fausto Coppi che beffa Hugo Koblet nel Giro d’Italia del 1952, il quinto conquistato dal Campionissimo di Castellania; arranchi sull’infinito Passo Rolle dal versante di Predazzo e ti viene in mente ‘Ginettaccio’ Bartali in quei fantasiosi Giri d’Italia dell’immediato Secondo Dopoguerra; poi ti spingi sino al mostruoso Zoncolan per immaginarti erede non troppo degno di Gilberto Simoni, Ivan Basso o Chris Froome; o scegli di alzarti sulla sella verso la vetta del transalpino Galibier per ripercorrere le gesta di Marco Pantani nel Tour de France del 1998. La strada è lì ad aspettarti, è pronta ad accoglierti, ad avvolgerti con le sue suggestioni, a inebriarti con i suoi profumi, ad accompagnarti con le sue verità. È un magico transfert che diventa la metafora della vita, il viaggio come conoscenza e come pratica della fatica, quella sana, quella che restituisce noi a noi stessi.
Nel ciclismo c’è soltanto la strada, perché la strada è l’unico teatro di gara, il più autentico e raggiungibile da chiunque voglia sentirsi un campioneNon ci sono biglietti da pagare per essere ammessi, come capita per poter vedere lo stadio di Wembley o il Madison Square Garden di New York; il campo centrale di Wimbledon, tempio del tennis, o le verdi erbe dell’ippodromo di Ascot; il diamante del Fenway Park di Boston, che ha scritto la storia del baseball, o l’autodromo di Monza, il teatro della velocità delle monoposto di Formula Uno. La strada è lì ad attenderti, a ricordarti e a farti ricordare. «La strada è l’unica salvezza», cantava Giorgio Gaber nel suo Teatro Canzone. Lo sport come emulazione, dicevamo.
A metà degli anni Settanta, gli sportivi italiani impazzirono per i nostri eroi del tennis, i Panatta-Barazzutti-Bertolucci-Zugarelli, che conquistarono la Coppa Davis contro il Cile, in una sfida dai risvolti politici dopo il golpe attuato dal generale Augusto Pinochet e la morte di Salvador Allende: e tutta la Penisola si mise a giocare a tennis. Negli anni Ottanta, uno sconosciuto emiliano dal cognome sinistro propose un modo rivoluzionario di praticare lo sci, diventando il primo campione delle nevi a imporsi come personaggio da rotocalco: si chiamava Alberto Tomba. Fu lui a indurre il popolo italico a riversarsi sulle montagne per emulare ‘La Bomba’, personaggio capace di interrompere una serata del Festival di Sanremo per dare spazio su Rai1 alla seconda manche del gigante alle Olimpiadi di Calgary 1988: anche Massimo Ranieri, che stava per vincere quell’edizione con ‘Perdere l’Amore’ rimase ad applaudire quel ragazzo di 22 anni di San Lazzaro di Savena che stava per compiere il suo capolavoro sportivo e mediatico. E dieci anni dopo, l’Italia ancora si fermò per trepidare per l’incredibile accoppiata di Marco Pantani, capace di vincere il Tour de France dopo aver conquistato il Giro d’Italia, primo italiano dopo Fausto Coppi e centrare il doppio successo nella stessa stagione! E tutti si misero a pedalare, tutti comprarono le bici Bianchi, il merchandising della Mercatone Uno fece registrare picchi inauditi e le bandane con l’effigie del Pirata andarono a ruba.
Se dunque lo sport è anche emulazione, quanto accaduto in Piemonte nelle giornate di giovedì 24 e venerdì 25 maggio scorsi, durante l’ultimo Giro d’Italia, è destinato a entrare non soltanto nella storia del ciclismo ma anche nel costume e nel turismo della nostra regione. Nel giorno che ricorda lo storico passaggio del Piave dei nostri fanti durante la Prima Guerra Mondiale, i Girini della Corsa Rosa sono saliti sino a Prato Nevoso, ascesa della Provincia Granda. E per offrire agli appassionati le stigmate della trascendenza, gli organizzatori hanno dedicato ciascuno dei tredici tornanti che portano al traguardo a un grande personaggio del ciclismo italiano e mondiale, con tanto di pannello illustrativo affinché la fatica di noi comuni mortali nel raggiungere la sommità sia arricchita dal ricordo, consegnando così quella montagna alla storia dello sport.
Si pensi un po’: dopo aver lasciato Frabosa Sottana e aver svoltato a sinistra verso Prato Nevoso al bivio per Artesina, ecco succedersi nel corso degli ultimi sei chilometri i nostri compagni di fatica, ricordati in cartelli dall’ordine numerico decrescente: c’è subito Fausto Coppi, il più grande di tutti, che entrò nel mito andando in fuga solitaria per 192 chilometri nella Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia 1949, impresa ancora oggi considerata leggendaria. Il secondo mito è ancora un piemontese, Franco Balmamion da Nole Canavese: vinse il suo primo Giro d’Italia nel 1962, che prevedeva un arrivo a Frabosa Soprana il giorno successivo del grande blitz che il canavesano aveva attuato a Casale, diventando leader. Avanti, avanti ancora, perché al tornante 11 ci aspetta Italo Zilioli, torinese di nascita ma cuneese di adozione, che fu tre volte secondo al Giro d’Italia negli anni 1964, 1965 e 1966, dietro tre avversari diversi! Stiamo parlando di uno dei più grandi discesisti della storia del ciclismo. Eccoci ora al cospetto di Francesco Moser, vincitore della prima edizione della Granfondo Fausto Coppi, nel 1987, quando era aperta anche ai professionisti. Lo ‘Sceriffo’ è ancora oggi il corridore professionista italiano più vincente di sempre. Tornante 9 con Claudio Chiappucci, El Diablo: sua l’impresa al Tour 1992 nella tappa del Sestriere. Eterno rivale in bici e vicino al Diablo anche verso in questa ascesa cuneese, ecco sopraggiungere proprio Gianni Bugno, protagonista nelle tappe cuneesi del Giro d’Italia ‘90, allorquando vestì la Maglia Rosa dal primo giorno all’ultimo. Il pannello 7 è invece dedicato a un australiano di Melbourne, Simon Gerrans, primo a Prato Nevoso nella tappa del Tour de France 2008, a conferma della caratura internazionale delle salite cuneesi. Siamo a metà salita: troviamo Pavel Tonkov, il russo vincitore del Giro d’Italia 1996, nel corso del quale s’impose anche su questo traguardo. Subito dopo c’è lui, il mito Marco Pantani, uno dei più grandi scalatori di tutti i tempi, ricordato anche in vetta al Colle della Fauniera, dove un monumento ricorda la sua incredibile ascesa durante il Giro d’Italia del 1999. Lo segue al tornante 4 colui che vinse la tappa del Giro ‘99 a Borgo San Dalmazzo, ossia Paolo Savoldelli, due Giri d’Italia nel palmares, soprannominato ‘Il Falco’ dopo aver affrontato quel giorno in modo acrobatico e temerario proprio la discesa della Fauniera. Il finale di salita è scoppiettante: tornante 3 per Fabio Aru, vincitore di un’edizione del Giro delle Valli Cuneesi, quella del 2011, quando correva dilettante con la Palazzago. Penultimo pannello per lo Squalo dello Stretto, Vincenzo Nibali, campione polivalente, vincitore dei tre Grandi Giri ma anche di una classica come il Lombardia: il messinese costruì il suo secondo successo al Giro d’Italia, quello del 2016, sulle rampe del Colle dell’Agnello. Infine in vetta sorride Stefano Garzelli, che nel Giro d’Italia nel 2000, vinto proprio all’epilogo grazie alla cronometro del Sestriere, si era aggiudicato anche la tappa che da Genova portava i corridori sino a Prato Nevoso.
E se giovedì 24 maggio scorso abbiamo sognato in territorio cuneese, il giorno dopo il Giro d’Italia ha scritto ancora in Piemonte una delle pagine più memorabili del ciclismo lungo un tracciato che è una specie di sussidiario della storia e dello sport della nostra Penisola: la partenza è stata data davanti alla Reggia di Venaria, uno dei simboli dei Savoia, signori del Piemonte e patrocinatori dell’Unità d’Italia; poi via verso il Colle del Lys, ricordando con il monumento posto in vetta le vittime partigiane dell’eccidio nazista durante la Seconda Guerra Mondiale; discesa a perdifiato verso Rubiana e poi Almese, quindi curva verso destra per infilarci nella Val di Susa, corridoio scelto e percorso da invasori di ogni secolo, da Annibale ai barbari, da Carlo Magno a Napoleone. Arrivati a Meana di Susa si torna a salire verso il Colle delle Finestre con il suo sterrato, a ricordare che il ciclismo è disciplina radicata alle tradizioni, l’ultima delle follie sportive; dalla vetta denominata Cima Coppi perché punto più alto del percorso rosa di quest’anno in giù verso i siti olimpici dei Giochi Invernali di Torino 2006, da Pragelato risalendo verso il Sestriere, sede di epiche imprese come quella di Fausto Coppi al Tour del ’52 o quella già accennata di Claudio Chiappucci quarant’anni dopo, sempre alla Grande Boucle; di nuovo velocità vertiginosa verso Cesana, sulla strada costruita da Napoleone, quindi pronti a pedalare controvento in direzione di Bardonecchia e da lì di nuovo fuori sella per raggiungere lo Jafferau, teatro di un epico duello tra il più grande di tutti i tempi, il Cannibale Eddy Merckx, e il camoscio spagnolo Juan Manuel Fuente, nella Corsa Rosa del 1972. Su questo tracciato, venerdì 25 maggio gli eroi del pedale si sono trasformati in guerrieri omerici, consegnandosi all’immortalità dell’epica. E il pubblico piemontese ha sconfessato le tendenze separatiste di un’epoca rattristata da populistiche omofobie e da facili razzismi per offrire una lezione di universalità che soltanto il ciclismo sa garantire. Lungo le strade di questa tappa leggendaria abbiamo visto tifosi italiani e francesi applaudire ammirati un keniano di passaporto britannico (Froome), oppure un olandese dal nome transalpino (Dumoulin) o ancora un giovane colombiano re dei giovani (Lopez) o un ecuadoregno di cui all’inizio del Giro nessuno sapeva alcunché (Carapaz). E quando tutti si stavano domandando che fine avesse fatto il leader provvisorio della corsa (Yates), eccola procedere arrancando, la maglia rosa, simbolo per la prima volta gravoso e pesante sulle spalle di un piccolo e impaurito gemello del Regno Unito che al termine di quella terribile tappa avrebbe concesso 38’51” al vincitore e nuovo leader della corsa, sua maestà Chris Froome, capace di rifilare ai rivali distacchi antichi involandosi solitario a 80 chilometri dal traguardo.
Sulle montagne torinesi, che da quel giorno sono diventate terreno di emulazione da parte di migliaia di appassionati, il ciclismo ha saputo scrivere un’altra pagina indelebile e accostabile ad altre giornate leggendarie nella storia del Giro d’Italia. Come la fuga solitaria di 192 chilometri di Fausto Coppi durante la Cuneo-Pinerolo del Giro ‘49 o l’improba impresa che Marco Pantani portò a termine nel 1999 salendo verso Oropa, allorquando appiedato da un incidente meccanico recuperò tra il delirio dei tifosi sorpassando 49 avversari prima di tagliare solitario il traguardo, senza sapere di avere vinto. Il Piemonte è anche questo, è pratica nobile di un esercizio antico, è recupero del sogno, è palestra naturale, perché sul territorio della Regione ci sono salite sulle quali sono state scritte pagine memorabili: dalla Fauniera all’Agnello, dal Sampeyre a Pian de Re, laddove nasce il Po; dal Sestriere allo Jafferau; da Limone Piemonte al Mottarone; da Oropa alle Cascate del Toce; dal Colle della Maddalena alla Lombarda; da Sant’Anna di Vinadio al Colle delle Finestre; dal Nivolet all’Assietta; dai territori ‘coppiani’ dell’Alessandrino al Museo dei Campionissimi di Novi Ligure; dalla colina torinese che decise tante edizioni del Giro del Piemonte alle colline dell’Astigiano e del Roero.
Il Piemonte è sport abbinato alla cultura e all’arte culinaria. Il Piemonte è fatica ma anche godimento, è storia ma anche infinita letteratura, è attitudine a scoprire le bellezze di un territorio di versatilità unica. Si pensi un po’: sono addirittura più di 1.500 i percorsi regionali ufficialmente catalogati per chi ami pedalare con le bici da corsa su strade asfaltate! Chi ha contribuito a estendere questa invidiabile rete stradale per tutto il territorio è senza dubbio Giovanni Maria Ferraris, 51 anni il prossimo 19 novembre, laureato in Ingegneria Chimica, già presidente del Consiglio comunale di Torino, e dal 16 giugno 2014 assessore regionale allo Sport della Regione Piemonte, Polizia Locale, Personale e Organizzazione. Ma oltre a essere un politico iperattivo, Ferraris è anche un volonteroso ciclo-amatore che ama spesso inforcare la bici da corsa per spaziare nel ‘suo’ Piemonte.
Assessore, quali obiettivi si pone quando pedala?
«Cerco innanzitutto un percorso che sia consono al mio grado di preparazione, per vivere la fatica ma nel contempo avere anche fiato e lucidità per ammirare i paesaggi, fermandomi per ristorarmi e per godere le bellezze del nostro territorio. Cerco di non superare i 60 chilometri per non esagerare e opto spesso per percorsi circolari così da ritornare al punto di partenza scegliendo una strada diversa da quella affrontata all’andata. In questo modo mi godo tutti i paesaggi a disposizione».
Qual è la peculiarità del Piemonte sotto il profilo della poliedricità del territorio?
«C’è davvero di tutto: pianure affascinanti, colline molto verdi adatte anche per coloro che non sono allenatissimi, salite mitiche lungo le quali si sogna di essere un campione e poi laghi, fiumi, tanti piccoli centri densi di storia, punti di ristoro che soddisfano qualsiasi esigenza. E parlo soltanto delle strade asfaltate, perché se mi dovessi addentrare nell’offerta delle strade sterrate non finirei più di elencare una varietà di soluzioni assolutamente debordante».
Che cosa manca?
«Siamo in itinere per quel che riguarda i cosiddetti ‘bike point’, perché lì la situazione può migliorare. È una questione di mentalità. Ci servono più punti di ‘rifornimento’ ma anche di manutenzione, per offrire a piemontesi e turisti la massima assistenza sotto ogni punto di vista. Mi spiego meglio: che si possa andare a mangiare tranquillamente dopo aver lasciato la bici in un luogo sicuro presso la stessa struttura che offre le proposte culinarie. Stiamo lavorando in tal senso. Posso dire però che esistono già delle realtà che stanno promuovendo un turismo intelligente in bicicletta, penso ad esempio all’albergo Lo Scoiattolo di Pralormo legato a un network italiano, Bikehotel, che in Piemonte promuove il brand PiedmontBike».
Se da un lato infatti il ciclismo professionistico sembra avere problemi per i costi sempre più alti, dall’altro, invece, il movimento dei ciclo-amatori e dei ciclo-turisti è in costante crescita. Che effetto le fa?
«Me ne rallegro. Incontro sempre molti appassionati quando esco in bici, e questo mi mette di buon umore. Ma mi preoccupano i pericoli cui va incontro il ciclista: c’è poca sicurezza e uno scarso rispetto nei confronti di chi pedala. Anche qui urge intervenire: chi va in bici fa turismo ed è un bene prezioso, al di là del suo valore umano».
Soddisfatto per le due tappe piemontesi dell’ultimo Giro d’Italia, con arrivo a Prato Nevoso e poi sullo Jafferau?
«Molto sotto il profilo dell’interesse, un po’ meno nei confronti di chi, per precisi accordi, doveva pubblicizzare i nostri territori con riprese televisive e invece ha ‘saltato’ alcune zone come la Valle di Lanzo e la Val di Susa,che hanno accolto il Giro come meglio non avrebbero potuto, vestendosi completamente di rosa. E anche un simbolo piemontese come la Sacra di San Michele è stato trascurato. Non voglio fare polemiche, ma ci si è concentrati troppo sul Colle delle Finestre e non su altri tratti ugualmente affascinanti. Peccato, perché il Piemonte è una regione da proporre e conoscere. È mancato un servizio pubblico televisivo all’altezza e gli organizzatori del Giro d’Italia hanno dimenticato il vero significato e senso della gara: agonismo sì, ma anche territorio, bellezza e un patrimonio composto da storia e persone vive e appassionate».
Bellezze del territorio ma anche situazione allarmante delle strade, ormai costellate da buche e da una copertura in asfalto spesso irregolare e malconcia…
«Concordo. La manutenzione è di competenza delle amministrazioni pubbliche. Si deve capire che la bici è veicolo importante per la valorizzazione del territorio. In un Paese moderno la cura delle strade dovrebbe essere assai più efficiente. Nella Provincia di Cuneo si è lavorato benissimo, in quella di Torino in modo meno efficace. Ci si è preoccupati solo di quei tratti percorsi dai professionisti. Si tratta comunque di un problema nazionale, e le polemiche sorte a Roma lo confermano. Sarebbe ora di mettere mano al portafoglio».
C’è un percorso ciclabile che le sta particolarmente a cuore?
«Sì, quello inaugurato un anno fa da Acqui Terme a Oropa, lungo un tratto di circa 320 chilometri che passa tra l’altro da Castellania per arrivare al Santuario biellese. È molto suggestivo e unisce due grandi campioni del nostro sport come Fausto Coppi e Marco Pantani, che proprio a Oropa vinse la tappa del Giro 1999».
Un’ultima domanda: anche il Giro 2018, come i due precedenti, si è deciso in Piemonte con la grande impresa di Chris Froome nella tappa del Colle delle Finestre. Inorgoglito?
«Sì, lo confesso. Anche perché al direttore della corsa Mauro Vegni ho proposto un percorso unico e innovativo che si è poi rivelato decisivo. Il Giro d’Italia 2018 non l’ha vinto solo Froome, ma anche il Piemonte: me lo lasci dire senza presunzione».
(Foto TONI FARINA, ARCHIVIO FOTOGRAFICO AMICI DEL FIUME DI VILLAFRANCA PIEMONTE, ATL BIELLA, ATL DEL CUNEESE, ATL NOVARA, ENTE TURISMO ALBA BRA LANGHE ROERO E ARCHIVIO LAPRESSE)