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Torino, Primavera 2022
Una delle facoltà distintive dell’intelligenza è l’apprendimento. Cosa c’è di più affascinante di veder crescere un bambino e seguire i suoi velocissimi progressi nel capire il mondo che lo circonda, interpretare le varie situazioni e comportarsi di conseguenza? Ed esercita lo stesso fascino (a parte le ovvie implicazioni sentimentali) vedere un robot che impara a camminare o a giocare a scacchi. Perché è proprio l’apprendimento ciò che è alla base della cosiddetta Intelligenza Artificiale. Per Intelligenza Artificiale (Artificial Intelligence, AI) si intende un insieme di tecniche, procedure o algoritmi che permettono di prendere decisioni intelligenti in base ai dati storici. L’implementazione concreta di AI è rappresentata da metodi di apprendimento automatico (Machine Learning, ML), appunto, che consistono nell’utilizzare i dati acquisiti in passato per fornire una regola di previsione in presenza di nuovi dati. C’è chi teme che l’AI soppianterà prima o poi l’intelligenza umana, ma questo scenario è francamente fantascientifico (a meno che non sia l’uomo a regredire a livello di macchina). Ciò che l’AI potrà effettivamente migliorare con la sua velocità di apprendimento è la capacità di cogliere le relazioni deboli tra i sempre più numerosi dati di cui siamo inondati quotidianamente; ma mai (mai?) potrà raggiungere un’altra facoltà distintiva dell’intelligenza: l’intuizione. Si tratta di una capacità conoscitiva che si rivela per lampi improvvisi, difficile da spiegare a parole perché frutto di sapere innato e non di meccanismi logici. Tutta questa lunga premessa semplicemente per azzardare l’ipotesi che anche l’intelligenza collettiva di una città, di una città intelligente, appunto, sia capace di intuizione.
Quale nuovo significato dovrà assumere il paradigma stesso della smart city? È inutile cercare nell’AI questo tipo di risposte, che potranno venire, invece, solo da intuizioni collettive, ovvero intuizioni individuali sottoposte a processi di riflessione e condivisione collettiva.
Una recente indagine dell’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) disegna nuove prospettive per il futuro delle città per come le abbiamo conosciute e vissute fino a ieri, qualora lo smart working, fenomeno esploso come risposta emergenziale alla pandemia, diventasse uno dei pilastri della nuova normalità di cui tanto si è sentito parlare negli ultimi 2 anni. Dallo studio emerge, infatti, che oltre 1/3 degli occupati si sposterebbe in un piccolo centro; 4 persone su 10, invece, si trasferirebbero in un luogo isolato a contatto con la natura. Con questi numeri, quale funzione sociale le città andrebbero ad assolvere? E in particolare, quale nuovo significato dovrà assumere lo stesso paradigma della smart city? In altre parole, la città intelligente dovrà apprendere le nuove abitudini, grazie anche all’aiuto dell’AI, e offrire risposte adeguate, o dovrà intuire le esigenze e anticipare i bisogni? Certamente non sarà intelligente la città che continuerà a utilizzare modelli di sviluppo basati su una “vecchia” normalità che, c’è da giurarci, difficilmente tornerà a realizzarsi. È inutile cercare nell’AI questo tipo di risposte, che potranno venire, invece, solo da intuizioni collettive, ovvero intuizioni individuali sottoposte a processi di riflessione e condivisione collettiva. È il ruolo da sempre delegato alla politica, che però ci ha abituato da anni, nella migliore delle situazioni, a limitarsi a una gestione del presente, astenendosi totalmente da qualunque intuizione del futuro: sono lontani i tempi dell’Utopia di Tommaso Moro (1516) e de La Città del Sole di Tommaso Campanella (1602).