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Sentenze granata

di Gian Paolo Ormezzano

L’estate 1976

Torino, estate 2018

Era per noi granata la più bella estate dal 1948: scudetto allora, scudetto in quel 1976 (lo scudetto del 1949 era stato quello splendido dell’anno più orrendo, l’anno di Superga, sprofondato il 4 maggio in un inverno doloroso). Era dunque l’estate del 1976 ed ero in servizio – nientepopodimenoche da direttore di Tuttosport – a Montréal, Québec, Canada, America, per i Giochi olimpici. Bellissima città, orgogliosamente, quasi furiosamente francofona, anche se la lingua di Molière viene zavorrata da una pronuncia buffa assai. Il sindaco di Montréal (francesissimo accento acuto sulla ‘e’, per carità: gli anglofoni scrivono Montreal e pronunciano Mònriol) si chiamava Jean Drapeau: Giovanni Bandiera, tanto per gradire. Montréal, quasi 2 milioni di abitanti, città molto fiera e un poco buffa. Una chiesa, Notre Dame des Victoires, con ancora un affresco enorme di Mussolini e i suoi baldanzosi quadrumviri.

E il Toro? Ci siamo. Montréal dove noi giornalisti tifosi granata, pochi ma ottimi, non riuscivamo a seguire con scrupolo gli eroi dei Giochi, perché continuamente pensavamo al Toro che aveva da poco vinto lo scudetto

Tante piazzuole ‘chouettes’ a fare ‘quartier latin’ parigino, un fiume tipo mare, l’immenso Saint Laurent, che trasporta tronchi d’albero segati tanto ma tanto a monte (il Québec ha 8 milioni di abitanti ed è grande 5 volte l’Italia). Qualche film in lingua inglese, senza sottotitoli perché la odiano ma la sanno tutti (ne ‘Il padrino’, quando lui torna in Sicilia subentra però la parlata siciliana, due picciotti commentano in dialetto la bellezza della fidanzata del figlio suo, uno dice ammirato ‘minchiaaaa’, la didascalia sullo schermo traduce in inglese con ‘beautiful’). E il Toro? Arriva, arriva. Montréal dell’Olimpiade più indebitata della storia, ed è però vietato parlarne: si faceva un favore a ‘nos voisins du sud’, gli statunitensi scettici e boriosi. Montréal dello sciroppo d’acero messo anche sulle aringhe. Montréal dove nella cerimonia di chiusura dei Giochi un tizio irruppe e ballò nudo fra le giovinette per un bel paio di minuti, la stampa anglofona lo definì un simpatico burlone, quella francofona un sinistro sacrilego imbecille. Montréal dalle donne assai libere e però dalla morale ufficiale severa, al punto che – definizione del collega Gianni Mura – gli spogliarelli erano regolamentati come la lotta grecoromana, sotto la cintola non deve accadere niente. E il Toro? Ci siamo.

Montréal dove noi giornalisti tifosi granata, pochi ma ottimi, non riuscivamo a seguire con scrupolo gli eroi dei Giochi, perché continuamente pensavamo al Toro che aveva da poco vinto lo scudetto (e sulla Juve!), ci informavamo sugli acquisti, spiegavamo la grandezza del Toro ai colleghi di tutto il mondo, ci innamoravamo (facile, era bellissima) di Consolata Collino fiorettista torinese medaglia d’argento, che alla conferenza stampa post gara si era presentata dicendo «sono di Torino e del Toro». Sino a che venne il giorno dell’azione diretta, e mi piace ricordare fra gli ideatori e gli artefici un collega anche di tifo che non c’è più, Bruno Perucca de La Stampa. Mandammo dunque via telex un elaborato messaggio al nostro grande allenatore granata, Gigi Radice, quasi scusandoci per essere ai Giochi Olimpici e non al ritiro precampionato degli eroi, dicendo che sapevamo eccome della maggior importanza del Toro rispetto a tutto il resto del mondo dello sport (e magari anche del mondo tutto), scusandoci ancora di star lontani e annunciando un prossimo ritorno, finita quella lagna chiamata Olimpiade.