Home > People > Editoriali > Sentenze bianconere > 1988 – 2018: i ricordi di un bianconero
Torino, speciale 30 anni
Era il 2011, i giorni dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia. Torino, nostra prima capitale, mostrava il volto delle sue stagioni migliori, un misto di orgoglio e consapevolezza. Sui balconi, il tricolore si mescolava ai gerani. Cinquant’anni prima, nel 1961, durante i festeggiamenti per il centenario, i miei genitori ritornavano nel Bel Paese, a Torino e non più nella loro Verona, dopo undici anni di Brasile. San Paolo aveva un’anima sabauda tutta fatta di lavoro, ferro e cultura. I paulistani dicevano: ‘Sapete perché il Cristo Redentore di Rio ha le braccia larghe? Aspetta di vedere un carioca lavorare per battere le mani!’. Sono tornati per nostalgia, e poi perché mio padre – designer, pittore e scultore – aveva trovato qui un lavoro capace di assicurare un futuro alla famiglia (tre figli, e mancava ancora la femmina: Liana, che sarebbe arrivata nel 1964 come una benedizione, con un suono di campane a festa).
Io mi sentivo, a sei anni, smarrito, colto da vertigine: non avevo più i miei amici e possedevo una lingua strampalata che metteva insieme italiano, portoghese e dialetto veneto. A darmi un alfabeto compiuto fu la mia maestra di prima e seconda elementare: Esterina Unia. Alta e secca, una santa insegnante. La porterò per sempre qui, nel mio cuore. Così, nel 2011 decisi di tornare alla mia vecchia scuola: la ‘Silvio Pellico’ di Torino. Venni ricevuto con affetto e stima; preside e insegnanti mi conoscevano come giornalista, per i miei programmi televisivi, per i libri. Il bambino è diventato grande. Entrai nella mia vecchia aula, mi mostrarono la mia pagella della quinta. Mi colpirono gli anni di nascita: non eravamo tutti del 1955, no. C’erano alunni del ‘54 e del ‘53; a quei tempi bisognava sostenere gli esami in seconda e in quinta, e bocciavano. Non era giusto, ma bocciavano. E ai maestri davi del lei, se non addirittura del voi
A prenderci all’uscita venivano – quando potevano – i padri: in giacca e cravatta quelli delle media borghesia, in tuta da lavoro gli operai della Fiat. Tutti avevano la loro nobiltà. Tutti, la loro dignità
Una nota sul diario ed erano dolori, con mia madre che scriveva: «Ho redarguito mio figlio Darwin». E lascio a voi l’interpretazione, non certo filosofica, di quel ‘redarguito’. I più bravi vincevano una medaglia, e tutti avevamo la stessa divisa: grembiule nero e fiocco azzurro in prima e seconda, maglietta con pompon negli anni successivi. A prenderci all’uscita venivano – quando potevano – i padri: in giacca e cravatta quelli delle media borghesia, in tuta da lavoro gli operai della Fiat. Tutti avevano la loro nobiltà. Tutti, la loro dignità. 1961-2011. I miei primi 50 anni da sabaudo. A Torino è nato mio figlio Santiago, a Torino sono morti i miei genitori. Questa è la mia città dell’anima. Il mio paese è Mazzè, nel Canavese, una perla di rara bellezza.
Perché, come scriveva Cesare Pavese nel suo capolavoro ‘La luna e i falò’: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Ci sono luoghi che hanno raccontato e raccontano l’ondeggiare della tua esistenza; li ritrovi sempre, soprattutto quando sei lontano, perduto, malinconico. Torino mi è sempre stata vicina. Discreta, silenziosa. Presente.