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Juliette Colbert la vandeana

A spasso per Torino

di Sandro Cenni & Lando Moglia

Inverno 2018

La Vandea è una zona della Francia nord occidentale, che nel 1793 fu teatro di una lotta feroce e sanguinosa tra i vandeani, schierati tra i difensori della Corona e della Chiesa, e la Repubblica rivoluzionaria francese. A Maulévrier vive la famiglia Colbert, appartenente al secondo stato, quello nobiliare nella stratificazione sociale. È nel Castello di Maulévrier, piccola città della Vandea, che nel 1785 nasce Juliette Colbert.

Nei giorni del terrore la famiglia Colbert viene perseguitata, alcuni congiunti mandati a morte; la madre di Juliette si prodiga nell’instillare nella figlia l’amore per la religione cattolica. Quando i beni della famiglia vengono confiscati, i Colbert fuggono dalla Francia; rientreranno con l’ascesa al potere di Napoleone, che nel 1802 restituirà ai nobili diritti e domini. I Colbert saranno presenti a corte, così come i Falletti, marchesi di Barolo.

Di Giulia colpisce il modo affabile e preciso con cui si rivolge alle persone più umili come a quelle di livello elevato, sono in molti ad apprezzare la sua abilità nel rendere piacevole ogni tipo di conversazione

 

Fa caldo, una bella ragazza passeggia nel giardino delle Tuileries in cerca di brezza, due occhi neri e un decolleté malizioso: è Juliette Colbert, damigella dell’imperatrice. Un giovane avvolto nei suoi pensieri la incrocia: è Tancredi, paggio imperiale. Si guardano, un coup de foudre li incendia, si amano e si sposano.

Lei cattolica, intelligente, colta e ricca, di carattere vulcanico e ostinato; lui, ultimo discendente di una nobile e ricca famiglia piemontese, vasta cultura e profonda fede religiosa, carattere calmo e riflessivo. La conferma del carattere di lei arriva durante un ballo a corte; Napoleone la affronta: «Quale fiore di leggiadria ammiro in voi, marchesa! Peccato che siate ancora senza figli. Suvvia, che pensate di fare?». E lei, sollecita: «Penso di ballare, Maestà».

Da Parigi a Torino, dai boulevard alberati a modeste vie carrabili, da Palazzo di Corte a Palazzo Barolo: uno dei palazzi di fine Seicento più eleganti di Torino, la cui facciata è compressa dall’edificio di fronte, nella stretta via delle Orfane, dal nome quasi profetico. Se si ha l’ardire di superare la soglia del portone al numero sette, la vista è catturata dall’atrio e dal maestoso scalone a forbice che conduce al piano nobile, con ambienti prestigiosi, ricchi di affreschi e arredamenti in stile barocco.

Qui inizia la nuova vita di Giulia e Tancredi, marchesi di Barolo. Dopo il lungo viaggio da Parigi, vengono accolti nei salotti più in vista della città. Di Giulia colpisce il modo affabile e preciso con cui si rivolge alle persone più umili come a quelle di livello elevato, sono in molti ad apprezzare la sua abilità nel rendere piacevole ogni tipo di conversazione. Gli sposi, la cui unione non conobbe mai incertezze, non potendo avere figli offriranno la loro vita e ingenti ricchezze a opere di carità. Lei smette gli abiti di velluto e visita le zone più povere della città. Il marito sa che non può fermarla, ma conoscendo i rischi la vuole sempre accompagnata da una guardia. Si mette al lavoro e ottiene dal re l’incarico di sovrintendere le carceri nelle quali si vive in condizioni disumane, e vi entra portando pane, coperte e un minimo di istruzione. Crea istituti religiosi per la redenzione delle donne, e con visione moderna promuove aiuti al rientro in società di chi ha scontato la pena.

Juliette è donna colta, dalle ampie conoscenze letterarie, parla e scrive in quattro lingue. Scrive per vocazione, scrive lettere di sostegno alla missione delle sue figliole degli Istituti delle Maddalene; scrive all’amico Silvio Pellico, a cui affida le impressioni, le considerazioni sulla storia e sull’arte delle cose viste durante i viaggi compiuti in Italia insieme al marito. Scrive novelle su fatti realmente accaduti, senza alcun desiderio di vederle pubblicate; anzi, come ben sappiamo dal suo testamento, vuole che tutti i suoi scritti siano bruciati alla sua morte, mortificando così il rischio della vanità. Legge molto e non solo opere classiche, ma anche romanzi d’appendice, feuilleton, misteri nascosti tra i cimiteri e racconti di morti apparenti, suggestioni che forse hanno indotto Giulia a chiedere che fosse assicurato quanto più possibile il suo decesso ritardando la sepoltura.

Un piano di Palazzo Barolo è adibito ad asilo infantile, a mezzogiorno si distribuiscono pasti ai poveri. Di frequente, a sera Juliette sale di sopra, cambia abito e partecipa col suo spirito affascinante, spesso pronto all’ironia, alle conversazioni su politica, arte e letteratura con gli uomini illustri che frequentano le splendide sale di Palazzo Barolo: Cesare Balbo, Pietro di Santarosa, Giovanni Lanza, Federico Sclopis, il conte Solaro della Margarita.

Cavour in gioventù, di ritorno dai viaggi, non dimentica mai di passare a salutare l’amica Juliette: «Le petit terrible Camille», come lei lo chiama dopo le frequenti dispute, lui anticlericale e lei papista, convinzioni sostenute da entrambi con vigore, ma sempre guidate da stima e affetto reciproco. Insieme hanno dato vita al Barolo, «il re dei vini o vino dei re», come attesta la richiesta di Carlo Alberto di assaggiare il vino della marchesa, di cui tutti parlano: lei gliene invia 340 bottiglie, una al giorno per un anno, esclusa la quaresima.

Si conoscevano da sempre, dai tempi delle vacanze, Cavour al Castello di Grinzane, lei al Castello della Volta nei pressi di Barolo, da quando lei compare (di venticinque anni più vecchia) in alcuni scritti infantili di Camillo: «Oggi ho fatto conoscenza con una bella ragazza che io chiamo ‘Cocò’, ma il suo nome è Giulietta di Barolo; la mia piccola amica è venuta a prendermi due volte per andare a passeggio con essa nella più bella delle vetture dorate…». Un primo segno dell’indole di statista e ardimentoso corteggiatore di Cavour. Questo affetto non si spegnerà mai, anche quando le vicende della vita li porteranno a ridurre le frequentazioni e quando, durante una serata in casa Barolo, Camillo preconizza l’avvento di un’Italia laica e repubblicana attraverso i moti rivoluzionari. Giulia, che sa quali lutti disordine politico e tumulti hanno recato alla sua famiglia, paladina della chiesa cattolica e del potere costituito, caparbia come la terra da cui proviene, risponde ferma all’amico: «Pour moi, je suis née vendéenne, et je mourrai vendéenne».