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Sentenze granata

di Gian Paolo Ormezzano

Il Toro di Marco Giampaolo

Torino, autunno 2020

L’arrivo di Giampaolo Marco il nome di battesimo – al mio Torino, col mio nome se non esattamente a mio nome (io, GPO in giornalismo, all’anagrafe faccio Giampaolo o Gianpaolo) e in qualità di allenatore, mi ha provocato qualche felice sommovimento tifoideo, a onta del mio ‘credo’ che è un ‘non credo’: nel senso che io non credo all’allenatore taumaturgo, miracoloso, e mentre italiotamente plaudivo ad Arrigo Sacchi che vinceva col Milan olandese e berlusconoide mi chiedevo se io, stessi giocatori stessa società, al posto suo sarei riuscito a non vincere. Io sono fermo a Nereo Rocco quando diceva: ≪Noi allenatori siamo sopravvalutati. E già tanto se riusciamo a non fare danni≫. E quanto ad Helenio Herrera, più ho rovistato la sua vita con l’aiuto anche di sua moglie Fiora Gandolfi amica mia, più mi sono convinto che il suo merito massimo e forse unico, di fronte ai suoi colleghi, è quello di avere ottenuto per l’allenatore stipendi pari o migliori di quelli dei meglio pagati fra i giocatori, così rafforzando l’autorità sua e della sua casta nei confronti di bipedi difficili, solitamente giovani, inesperti ancorché naturalmente dotati di talento pallonaro, dopati o tramortiti o rincoglioniti dal primo e secondo e terzo mucchio di soldi planato su di loro.

Perché non credo alle virtù dell’allenatore e perché intanto sono contento di Giampaolo al Toro? Prima risposta: credo che nel calcio non ci sia niente e nessuno da allenare. A meno che allenare consista nel comandare i giri di campo o presiedere alla giostra abbastanza cretina, bambinesca del ‘torello’ (il fiato, la resistenza, il palleggio, ma guarda). Robetta e anche robaglia che in qualsiasi altro sport farebbe crepare dal ridere. Esagero per semplificare, ma la sostanza è questa: il calcio si pratica con i piedi, vietate le mani a dieci su undici, ed è come se si dovesse correre però con le gambe chiuse in un sacco.

Perché sono contento di Giampaolo al Toro? Non per il cognome, che pure mi piace, è una semplice questione di pelle

È sport primordiale, becero, elementare, casuale anzi casualissimo. Nessun esperto al mondo sa distinguere, se non conosce i giocatori di faccia, un Brasile-Argentina da un Bulgaria- Bosnia, da un Roccacannuccia-Forlimpopoli e neanche da una sfida fra i meglio calciatori di due condomini. I grandi giocatori sinceri confermano che niente hanno mai imparato perché niente c’è da imparare. Il massimo gesto atletico del calcio è inferiore al minimo gesto atletico del pallone elastico. Schemi e tattiche sono fuffa per logorroici da Bar Sport. Il calcio è deciso da culo, arbitri e casomai prodezze individuali (Platini dixit, al suo amico Ormezzano). Non è un caso che la metà più intelligente o meno scema del genere umano non ami il calcio, nonostante manfrine pilotate: dico della donna.

E a questo punto perché Giampaolo sì? Non per il cognome, che pure mi piace, e lascio alla sagacia dei miei quattro lettori indovinare di più. E invece per una semplice questione di pelle. Un qualche anno fa ho preso parte, come presunto esperto, a 90° Minuto, tivù su RAI2 la domenica pomeriggio, allora tanta audience perché si giocava tanto la domenica. Bene, due soli allenatori mi hanno colpito quando si parlicchiava fuori onda. Dico di Giampaolo, appunto, e di Di Francesco, altro nome che fa da cognome, toh. Entrambi fatti fuori al primo impatto con club importanti: un onore, quasi. E Giampaolo ripescato da Cairo mi fa pensare che costi poco e sia molto convincente. Il tutto a onta della sua somiglianza forte con il politico Gasparri che meno vedo meglio è.