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Torino, primavera 2020
Non ho detto parolacce per dieci lunghi anni. Al compimento del suo undicesimo anno di età, mia figlia è alta quasi quanto me e la censura che mi sono imposta per due lustri si incrina: sillabe di comuni imprecazioni mi sfuggono all’improvviso e, per la legge del contrappasso, la mia bambina mi riprende senza pietà. Adotta anche un famoso deterrente: la scatola in cui depositare un euro a parolaccia. Decido di verificare il mio tasso di turpiloquio giornaliero. La prima è rituale, la sussurro per intero quando alle 5 suona la sveglia: all’alba di ogni giorno mi riservo due ore per scrivere il nuovo romanzo. Nel tragitto dal letto al computer ne mormoro un’altra per l’agguato che la gatta mi fa al polpaccio. Per fortuna mia figlia dorme. L’abbozzo della successiva è quasi d’obbligo mentre la porto a scuola: corso Moncalieri è un’unica fila di auto, impossibile arrivare in orario. Purtroppo, la giovane addetta alla censura è seduta accanto a me: metto un euro nella scatola che le compare tra le mani come per magia. Mi fermo al distributore di benzina, faccio il pieno e al momento di pagare non trovo il bancomat: secondo euro nella scatola.
Sillabe di comuni imprecazioni mi sfuggono all’improvviso e, per la legge del contrappasso, la mia bambina mi riprende senza pietà. Adotta anche un famoso deterrente: la scatola in cui depositare un euro a parolaccia
Il benzinaio guarda mia figlia e cerca di sdrammatizzare: «Principessa, è un francesismo! ». Lei aggrotta le sopracciglia come la tartaruga ninja: «Francesismo?». Io sono in imbarazzo: «Mio marito è francese, la principessa è perfettamente bilingue… Comunque grazie per la solidarietà… Ho solo 20 euro: glieli lascio insieme alla mia carta d’identità e passo dopo a saldare?». Lui mi fissa con compassione: «Paga tutto dopo, vada… Viva l’Europa!». Mia figlia gli sorride e ci inseriamo di nuovo nel traffico. Giro dietro alla Gran Madre, sicura che via Martiri della Libertà mi possa salvare dagli ingorghi e dalle parolacce, ma il camion della raccolta rifiuti mi sbarra la strada e ne borbotto un’altra a denti stretti. «Quelle dette in macchina non valgono, amore…», azzardo. Lei mi allunga la scatola con uno sguardo eloquente: ormai ha 11 anni, non la frego più. E tre. Via Ferrante Aporti è chiusa per lavori: scatola. Siamo solo a un terzo del percorso e ho già speso 4 euro in parolacce. «Mamma, sui set e in teatro se ne dicono molte?». «Ma no, può sfuggirne una ogni tanto…». «E allora perché tu le dici?». Mi lancio in un’autodifesa disperata: «Un grande autore, addirittura poeta, ha scritto: “Meglio usare la parolaccia che la parola imprecisa”. E poi io ne bofonchio solo dei brandelli! Tra poco mi dissanguo dalla lingua!». Facciamo il resto del tragitto in silenzio, ed è un bene perché corso Casale è una giungla e ho finito le monete.
Parcheggiando vicino alla scuola penso alla giornata che mi aspetta: devo andare dalla costumista, raggiungere mio marito in teatro per le prove dello spettacolo, rispondere alle e-mail, fare un po’ di spesa senza dimenticare la sabbietta della gatta, tornare dal benzinaio per pagare il pieno, inventare una cena decente e stanotte, se non crollo, continuare a scrivere il romanzo. Prima che mia figlia scenda dall’auto, metto nella scatola i 20 euro: «Mi compro un ‘bonus parolacce’, almeno fino a stasera ho la coscienza a posto e mi concedo il lusso di dirle per intero e a squarciagola. Buona scuola, cucciola!».