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Sentenze bianconere

di Darwin Pastorin

Cambiare il mondo a tinte bianconere

Torino, SPECIALE giugno 2019

Il calcio non è una scienza esatta, lo sappiamo. Un dribbling fantasioso rende, spesso, inutile la tattica più sofisticata. Ma gli allenatori nel football contano, eccome: soprattutto quando portano idee, rivoluzioni, novità. Noi siamo stati profeti del ‘catenaccio’, difesa robusta e contropiede micidiale. Trapattoni, nel nome di Rocco, fu, in tal senso, un impeccabile docente. Poi, ci siamo spellati le mani con l’Olanda di Cruijff e il Milan di Sacchi, per non parlare del Barcellona di Guardiola. Oggi è il tempo di Massimiliano Allegri e di una Juve vincente (anche) nel nome del ‘Marziano’, ovvero Cristiano Ronaldo. Le alchimie, comunque, svaniscono quando hai davanti Pelé e Maradona, quando l’estro del fuoriclasse sovverte il canone. Il ‘mister’ è una figura simbolica. È sempre lui a pagare, con l’esonero, quando la squadra va male. Un’ingiustizia che durerà per sempre.

Heriberto Herrera, pochi sorrisi e tanti fatti, arroccato nelle sue convinzioni, fedele nei secoli a quel concetto di ‘squadra operaia’: contava solo il ‘movimiento movimiento’. La prosa e non la poesia

In una stagione è capace di passare dalla gloria alla polvere, ma anche dal buio al miele. Nella mia lunga carriera ho incontrato un’infinità di tecnici: da Radice a Lippi, da Beenhakker a Scolari, da Menotti a Conte e Bersellini. A Enzo Bearzot, ‘Il Vecio’ narrato da Giovanni Arpino, mio maestro di letteratura e di vita, nel suo capolavoro ‘Azzurro tenebra’. Gente di zolla o di lavagna. Concreta o visionaria. Persone, in ogni caso, che si dedicavano per ore e ore a divinare responso intorno a un pallone. Non potrò mai dimenticare, e qui mi rivolgoalla mia giovinezza, arrivato, da pochi anni, dal Brasile in Italia, da San Paolo a Torino, il primo tecnico che mi conquistò: il paraguaiano Heriberto Herrera, campione d’Italia con la Juve nel 1967, scudetto conquistato all’ultima giornata con un sorpasso epico sull’Inter dell’altro Herrera, il ‘Mago’ Helenio. Heriberto era alto e ossuto, dalla mutria severa, di poche parole e rigoroso assai. Lo soprannominarono ‘Sergente di ferro’ e (Gianni Brera) il ‘Ginnasiarca’. HH2, in anticipo sulle mode e sulle zone, più o meno ‘totali’, più o meno ‘sporche’, predicava, il fischietto a portata di mano, il ‘movimiento movimiento’. Tutti dovevano saper fare tutto, coprire qualsiasi ruolo. E qui voglio ricordare il mio amico Gianfranco Leoncini, pilastro di quella squadra bianconera, scomparso pochi mesi fa.

Un elegante terzino sinistro fluidificante. Un uomo buono. Herrera il paraguaiano non amava gli assi. Per lui erano tutti uguali. Così, commise un peccato calcistico mortale: litigò con l’immenso Omar Sívori; e ‘El Cabezón’ se ne andò al Napoli. Non si sentiva il fuoriclasse, per dire, sullo stesso piano del pur valido difensore Coramini. Eppure Heriberto, in quel ’67, l’anno maledetto delle morti di Gigi Meroni ed Ernesto Che Guevara, fece il miracolo. Oh, come dimenticare quella formazione? Anzolin, Gori, Leoncini, Bercellino I, Castano, Salvadore, Favalli, Del Sol, De Paoli, Cinesinho, Menichelli. E poi Colombo, Sarti, Sacco, Stacchini, Zigoni… E lui, Heriberto Herrera, pochi sorrisi e tanti fatti, arroccato nelle sue convinzioni, fedele nei secoli a quel concetto di ‘squadra operaia’: contava solo il ‘movimiento movimiento’. La prosa e non la poesia. E io, oggi, sono qui a celebrarlo. Il ‘Sergente di ferro’ firmò il tredicesimo titolo di Madama, il mio primo da tifoso. Conservo il suo autografo. E il ricordo di un tempo sospeso, tra meraviglia e nostalgia. Il tempo di tutti i sogni possibili.