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Torino, inverno 2021
Per me tutti, ma dico proprio tutti, i tifosi calcistici sono pigmei di fronte a quella signora non più giovane e non ancora vecchia che al Filadelfia usava l’intero tempo della partita per passeggiare sotto la tribuna, sfilando accanto alla rete che delimitava il campo.
Il passaggio era libero per chi acquistava un biglietto dei “laterali popolari”, settore di fondo campo che faceva angolo con la tribuna in legno, e da lì si voleva spostare nell’intervallo sulla parte simmetricamente opposta: per stare sempre dietro alla porta avversaria e gustarsi i solitamente molti gol del mio Grande Torino, intanto magari informando ad altissima voce il portiere nemico di cosa stava facendo sua moglie nella casa lontana.
La signora mia usava il passaggio come suo passeggio. Non vedeva molto della partita, la captava con occhiate rapidissime, guardava piuttosto il cielo e la terra e parlava fra di sé o con gli dei del pallone.
Sapevo che era moglie di un fotografo assai noto.
Ricordo che, passandole accanto durante un mio coast to coast da una gradinata laterale all’altra con il mio papà e i miei due fratellini, ero riuscito a captare una sua frase, questa: «Frossi, il quadrilatero!»
Sapevo che era moglie di un fotografo assai noto. Ricordo che, passandole accanto durante un mio coast to coast da una gradinata laterale all’altra con il mio papà e i miei due fratellini, ero riuscito a captare una sua frase, questa: «Frossi, il quadrilatero!».
Frossi era Annibale, friulano, laureato in Legge, detto Dottor Sottile, occhiali da miope portati anche quando giocava all’ala destra e vinceva con l’Italia il titolo olimpico 1936 a Berlino, calciatore (specie Inter) e poi stimato allenatore ipertattico anche col Toro, dal 1954 al 1956. Il quadrilatero invocato dalla signora non era quello del calcio piemontese dei pionieri (Vercelli Casale Alessandria Novara, gloriosa storica preziosa muffa) ma quello in campo formato, secondo schemi e lessico di allora, dai due mediani e dalle due mezzali, e – penso – disatteso in quella certa partita.
Quando – metà degli anni Cinquanta, ero ancora ragazzo – cominciai a fare il giornalista stavo nella tribuna stampa, da dove vedevo e “seguivo” bene la signora e il suo show. Poi ho visto e seguito milioni di tifosi pallonari, dalle masse mondiali agli anziani dell’antistadio del Fila, quelli che avevano dogmaticamente stabilito che se non si era visto giocare Valentino Mazzola non si poteva parlare di calcio, e io che l’avevo visto eccome mi sentivo dotato di un prezioso green pass professionale. Visto tanto e tanti quanto a umanità calcistica, ma ancora mi sembra impossibile tifare meglio e soprattutto più intensamente, con corpo e spirito e invocazioni agli dei del campo e della panchina, di quanto faceva quella signora, insieme madonna e guerriera e marciatrice. Ero certo che se le si fosse parato davanti un tremendo immane dinosauro, mentre lei eseguiva il lungo rito del passeggio, lo avrebbe abbattuto con un ceffone o ammansito con un buffetto.
Ben poco allora si poteva intuire nel futuro dell’altra metà del cielo relativamente al suo rapporto con il gioco del pallone. Non ricordo donne sugli spalti, ricordo che nella pur vasta assemblea che nell’antistadio del Fila commentava gli allenamenti l’unica donna era quella che gestiva un bar: mamma fra l’altro di un ragazzo che avrebbe assaggiato anche la serie A, ma con la Juve (l’altra donna era la custode del Fila, di solito circondata da tanti gatti, ma non discuteva di calcio con noi). Nel calcio sono arrivate girls and women, erinni e vestali, una di loro mi ha persino aggredito nel nome del Toro sacro a lei come a me. Ho visto negli stadi e vasti dintorni oceani di folla e rigagnoli di follia, ma quella donna resta unica, e in nome suo ci sono partite in cui cerco dove si è ficcato il quadrilatero.