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Torino, Autunno 2022
Non so se ci sono ancora i tulipani e i giacinti nella bella villa di Cavoretto, nella nobile e poetica collina torinese. Non so se è rimasta qualche traccia della presenza di Edwin van der Sar, per due stagioni portiere della Juventus, personaggio passato come una nuvola, senza lasciare ricordi, emozioni, rimpianti. Il numero uno olandese arrivò in bianconero nell’estate del 1999, portando in dote i campionati trionfali con l’Ajax, la maglia da titolare della nazionale, pronto a vestire i panni del primo estremo difensore straniero della storia juventina. Alto e silenzioso, fu vittima di svarioni memorabili (suoi) e di sottili ironie (altrui). Seppe, in ogni occasione, reagire con orgoglio: sino a diventare un protagonista, forse non idolatrato, ma sicuramente sopportato, e talvolta supportato, dalla esigente tifoseria di Madama. Il suo distacco dalla Juve, infine, non fu privo di rancori. Prese la strada dell’Inghilterra (diventando un beniamino del Manchester United), urlando (lui che non alzava mai la voce) di essere stato tradito. Ma tutto terminò lì, con quella frase perduta nel vento, con l’arrivo del fuoriclasse Gigi Buffon, con il calcio che, come sappiamo, non ha mai avuto tempo per le questioni romantiche e sentimentali. Edwin era un uomo-ragazzo che aveva qualcosa di Peter Pan: sembrava sospeso tra realtà e sogno, tra verità e finzione. Possedeva, come dire, una sua purezza, una sua ingenuità, una sua leggerezza. Nessuno può dire di averlo conosciuto bene: anche perché lui ha sempre amato non svelarsi, non raccontarsi, viveva nel suo piccolo mondo formato dalla sua famiglia e dai pochi amici, «sempre più cari, sempre più rari».
Fu un buon portiere, con qualche fragilità. Ed è per questo che mi aveva conquistato. La debolezza è uno scrigno di scrittura, l’imperfezione conforta gli aggettivi. L’errore sublima il ruolo, non lo umilia. Sfiorò lo scudetto, quindi la gloria eterna
Era curioso di Torino, van der Sar. Curioso delle sue piazze, dei suoi monumenti, dei suoi musei. Non lo trovavi in discoteca, ma a passeggio per le sale della Palazzina di Caccia di Stupinigi, al Museo Egizio, ad ammirare l’immensità misteriosa della Sacra Sindone. C’è chi ricorda le sue fughe nelle Langhe, tra le zolle trasformate in letteratura da Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Giovanni Arpino. In terra di vino e tartufi. In atmosfere di magia e giorni sospesi. Edwin, in quei luoghi, in quegli spazi, respirava aria di passato, e sorrideva. Sorrideva per davvero: restituito ai suoi pensieri e ai suoi ripensamenti. E, certo, «alle cose che potevano essere e non sono state», per citare il mio sempre amato Guido Gozzano. Suonava la chitarra, soprattutto il repertorio di Joe Cocker e leggeva molto, moltissimo: romanzi, saggi, poesie. Gli piaceva sedersi su una panchina e ammirare, tra una pagina e l’altra, il Po. Fu, nelle sue malinconiche stagioni bianconere, un buon portiere, con qualche fragilità. Ed è per questo che mi aveva conquistato. La debolezza è uno scrigno di scrittura, l’imperfezione conforta gli aggettivi. L’errore sublima il ruolo, non lo umilia. Sfiorò lo scudetto, quindi la gloria eterna. Nel suo giardino i tulipani venivano coltivati con amore. Con delicatezza. Edwin van der Sar aveva il cuore nelle mani.