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Torino, estate 2020
Il calcio ai tempi del coronavirus ha conosciuto un’estate particolare, fra campionato e coppe, stadi vuoti. Una situazione atipica, che ha cambiato usi e costumi degli appassionati: pallone sotto il sole e sotto l’ombrellone. Fino a ieri, il periodo estivo significava primi allenamenti, prime partitelle, prime amichevoli, la disfida-festa a Villar Perosa, feudo degli Agnelli, tra la Juve titolare e la Primavera. La voglia, soprattutto, da parte dei tifosi di vedere all’opera i volti nuovi, i calciatori arrivati dopo le operazioni di mercato; già, il mercato: la grande fiera delle vanità, delle chiacchiere e dei colpi da capogiro. Io non potrò mai dimenticare la prima volta in bianconero, siamo nel 1968, del mio idolo: Pietro Anastasi, 20 anni, centravanti dalla rovesciata proletaria, arrivato dal Varese per miracolo mostrare.
I ricordi più nitidi, dal punto di vista emotivo, sono quelli legati alla giovinezza: quando il calcio significava l’inizio dell’avventura e la tua squadra rappresentava la felicità e il mito, «una sorta d’investitura – come modulò il poeta Giovanni Raboni – che ti accompagna per tutta la vita, un simbolo forte che si radica dentro di te, insieme con la tua innocenza, tra fantasia, sogno e gioco». Mi incuriosivano, in quei giorni di stupori e scoperte, più degli acquisti sensazionali, quelli da prima pagina, i giovani apprendisti campioni, gli assi di domani o dopodomani. Mi sovvengono, in una romantica galleria, Novellini, Montorsi, Titti Savoldi (fratello di Beppe) e Fausto Landini (fratello di Spartaco). Cercavi di capire, attraverso i resoconti dei giornali, soprattutto la prosa poetica di Vladimiro Caminiti, le loro potenzialità: erano, per davvero, da Juventus? Meritavano di vestire la gloriosa casacca bianconera? Era il calcio della speranza, della formazione da delineare, degli esordienti, appunto, da scoprire. E ti davano sicurezza i titolari affermati: da Zoff a Furino, da Haller a Bettega, per non parlare di Gaetano Scirea, libero gentiluomo.
Quello estivo era il calcio della speranza, della formazione da delineare, degli esordienti da scoprire. E ti davano sicurezza i titolari affermati.
Sulla sabbia, da ragazzino, tentavo di imitare le acrobazie del mio Pietruzzu, oppure i colpi di testa di Sandro Salvadore, i dribbling all’insegna della fantasia di Stacchini e Zigoni, le respinte perentorie di Spinosi, le sgroppare all’ultimo respiro del terzino fluidificante Marchetti, ma anche i voli di Massimo Piloni, ‘dodicesimo’ per antonomasia, per sempre caro al mio cuore. Quei giorni, di onde e colori, di nuotate e di concerti in balera con i cantanti del momento (Ornella Vanoni, Dino, Marisa Sannia), in quell’Adriatico della serenità e della lucentezza, erano scanditi, soprattutto, dall’attesa per il nuovo campionato, per lo scudetto da difendere o da conquistare.
E altro non attendevi che l’ora di tornare allo stadio, in curva Filadelfia, con la tua bandiera e i tuoi amici. Due ore prima, tra cori e panini. Consapevole, come ci insegnò Osvaldo Soriano, che «sono così le storie del calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni». Perché il pallone era ed è il regno del possibile e dell’impossibile, un’autentica metafora dell’esistenza, dove a dominare è sempre quella sottile, abbagliante incertezza. Sì, tutto ricominciava nei lampi dei primi gol, nella meraviglia del prato verde, nella gioia e nella malinconia, quella conclusione all’incrocio dei pali, quella parata superba, quel salvataggio sulla linea bianca, quel rigore impeccabile.
L’estate, lentamente, conosceva il suo crepuscolo. Ma ti rimaneva addosso, a lungo, quel sapore di cocco e pistacchio.