HANNO SCRITTO “TI AMO ANCORA” NEL PORFIDO DI PIAZZA SAN CARLO, HANNO RESO UNIVERSALE L’EUROVISION TORINESE RAPPANDO IN “ANGLOPIEMONTESE”, SONO MUSICISTI DI STRADA CHE NON PERDERANNO MAI IL GUSTO PER IL MARCIAPIEDE. MA IL LORO “AMORE E RIVOLUZIONE” SARÀ IL DISCO PER L’ESTATE DALLE ALPI ALLA SICILIA. SONO LA FLAG BAND DI TORINO. IRONIA, GENTILEZZA E APPARTENENZA PER SORRIDERE, AMARE E TENERSI STRETTA UNA CANZONE
Ci sono artisti di levatura nazionale e internazionale che, più o meno consapevolmente, intraprendono un processo di identificazione con la propria città. Così si creano sodalizi destinati a durare, che non hanno scadenza: i Pogues e Dublino, Lou Reed e New York, i Buena Vista Social Club e L’Avana… Insieme per sempre perché, anche dopo mille viaggi, quel posto è casa. Ecco, gli Eugenio sono così, lo capisci spesso da cosa cantano, ma ancor di più da cosa fanno. Gli Eugenio sono la nostra “flag band”. E lo sono anche perché di Torino incarnano quello spirito creativo, originale e bizzarro – anticipatore (e sintetizzatore) di gusti, mode e tendenze – che tanti artisti hanno interpretato nella città “rigorosa e ortogonale”, quasi per contrasto.
Innanzitutto, non assomigliano a nessuno, e sembrano non avere genitori artistici certificati, con quella spontaneità e quella freschezza che conquistano al primo ascolto. Avete presente quei tanti musicisti in via di affermazione che salgono sul palco di Sanremo e sembrano tutti uguali: costruiti in laboratorio, agghindati per il Cirque du Soleil, con voci studiate e un po’ artefatte, “orecchianti” del panorama internazionale per allinearsi al coro? Ecco, gli Eugenio procedono in “direzione ostinata e contraria”. Il loro sound casomai è debitore degli artisti di strada – il mood musicale dal quale provengono, con una robusta quota di chilometri sui marciapiedi percorsi e suonati – ma anche della balera, dello swing senza tempo, del folk raccolto in piola e attualizzato come nu-folk. E poi gli Eugenio sono scanzonati, improvvisano, coinvolgono i passanti rendendoli complici (o vittime), hanno il gusto giullaresco per il grammelot (Dario Fo? Sì, anche il Dario Fo di Mistero Buffo) e, soprattutto, per il tormentone, quello che ascolti una volta e non ti passa più. Giocolieri contemporanei, ma anche artisti a tutto tondo, meticolosi nella composizione e nelle prove, perché quelli bravi fanno così. La sincerità è un tratto distintivo, naturale, quello che lega i veri amici (e loro lo sono) e non mette distanza tra esibizione e privato: gli Eugenio sono quella cosa lì e piacciono anche (forse soprattutto) per quello. Viene da chiudere col mito dell’eterna giovinezza, perché il palco, miracolosamente, fa scorrere al contrario le lancette: Mick Jagger, Vasco, Morandi.
Già, Morandi, perché, indipendentemente dal loro sound, gli Eugenio si ascoltano (e si osservano) ricordando la galassia yéyé degli anni Sessanta: il potere ai ragazzi che cantano e che ci cambiano, le canzoni che restano in mente per sempre, il talento che in fondo è una cosa semplice, ce l’hai oppure no. E loro di cose belle ne hanno già fatte, mica sono apparsi come una cometa nel “calembour” di Eurovision: 10 anni di attività, 5 album all’attivo – l’ultimo, Amore e rivoluzione, lo porteranno in giro tutta l’estate, ovunque – e poi tour italiani, europei e la recente consacrazione: la nomina ad “Ambasciatori della Città di Torino”, in una cerimonia che non è proprio andata come le precedenti, perché gli Eugenio hanno cantato Nuvola nella sala aulica del municipio, a fianco del sindaco in fascia tricolore, che ha intonato con loro Gianna di Rino Gaetano. Cose (semplicemente) mai viste. Perché gli Eugenio sono così, arrivano, sorridono e poi prendono in mano la situazione, rendendoti parte dello show. Nella Torino che si scrolla (o perlomeno vuole scrollarsi) di dosso un ciclo di eventi nefasto, loro sono una terapia. Che anche noi proviamo a prescrivere, facendoveli conoscere meglio.
L’origine del nome della band, il nome del primo album Lorenzo Federici… È una vicenda di cui molti sanno e altri no, ce la ri-raccontate?
«Dobbiamo tornare al 2012, quando nacquero gli Eugenio in Via Di Gioia. Allora eravamo in tre: Eugenio Cesaro, Emanuele Via e Paolo Di Gioia, e, a dirla tutta, ci chiamavamo Eugenio Cesaro e la Via Di Gioia; perché addirittura Eugenio all’inizio voleva fare il solista, poi questa resistenza è scemata abbastanza in fretta. Un giorno arriva la sorella di Eugenio e dice (aveva ragione) che il nome era troppo lungo e che ci saremmo dovuti chiamare Eugenio in Via Di Gioia. Bomba. Una rivelazione. Un nome difficile ma che ci piaceva un sacco. Poi un giorno a Londra, siamo a Piccadilly Circus, vediamo questo ragazzo che suona il contrabbasso divinamente. Davanti a lui cinquanta, alcuni dicono cento persone. Ci avviciniamo e scopriamo che non è straniero ma di Terni e si chiama Lorenzo. Noi, con la nostra faccia tosta, gli chiediamo se vuole venire a provare delle canzoni con noi. Lorenzo, all’epoca, aveva una fidanzata di Chieri, e un po’ per amore nostro e un po’ suo (ma meno), si è trasferito qui a Torino con noi, e ci è rimasto».
Saltiamo dritti al 2018: siete in treno, in direzione Roma, e accade una cosa…
«Sì, c’era un ritardo nella tratta Torino-Roma causa neve, sei ore fermi ed Emanuele si allontana per prendere un caffè. Una fan lo riconosce, lui felicissimo torna indietro e la porta come testimonianza a noi. Ed è stata lei a chiederci di fare un pezzo. Effettivamente ci annoiavamo, come tutti d’altronde, avevamo gli strumenti, potevamo suonare. Abbiamo iniziato, tutti felici nel vagone. A un certo punto arriva il capotreno con gli scagnozzi al seguito, tipo Dart Fener con i cloni, e noi convinti che ci avrebbero buttato giù dal treno per la confusione. Invece no, ci prendono e ci conducono per tutti i vagoni, dal primo all’ultimo, a suonare e allietare quell’infinita attesa. Arriviamo alla prima classe, intravediamo Gigi Marzullo che, appena ci vede entrare, con tutto quel casino, fa finta di rispondere a una chiamata. Suoniamo anche lì e poi cambiamo vagone. Alla fine di tutto siamo ripassati davanti a Gigi e gli abbiamo detto che avrebbe potuto anche fermarsi ad ascoltare, lui ha tirato fuori la scusa della chiamata, comunque alla fine ci siamo fatti una foto e il giorno dopo su tutti i giornali siamo usciti col titolo: “Gli Eugenio in Via Di Gioia con il loro più grande fan Gigi Marzullo”. Vedi te come funziona la comunicazione!».
Esistono delle sliding doors, anche mediatiche, che si possono individuare all’interno di un percorso artistico e di fama. Ovviamente anche nel vostro. A un certo punto arriva un nome che nella musica conta abbastanza: Sanremo.
«Il nostro percorso con Sanremo in realtà comincia nel 2019, con tutta la trafila riservata ai giovani, e poi, concretamente, saliamo sul palco nel 2020. Volevamo essere comunque noi, abbiamo suonato per le vie di Sanremo nei giorni precedenti, ci siamo presentati in bici sul red carpet con dietro la carovana dei fan…C’era un’atmosfera bellissima. Siamo arrivati per la prima sfida, l’abbiamo persa e abbiamo totalizzato la bellezza di sette minuti sul palco dell’Ariston. Mai nessuno come noi. Abbiamo il record del minor minutaggio in 70 anni di storia Sanremese; un record, tra l’altro orgogliosamente inscalfibile, perché, da che ne sappiamo, non torneranno quel tipo di sfide veloci. Per sempre nei libri di storia, insomma. Però in sette minuti abbiamo vinto il Premio della Critica Mia Martini, figurati cosa avremmo potuto fare in 20 minuti!».
E il dopo com’è stato? Un cambio di paradigma nella notorietà?
«Inizialmente l’effetto è stato un po’ quello, una sorta di crollo emotivo comune e condiviso. Avremmo probabilmente voluto fare di più. Il giorno dopo abbiamo letto una dichiarazione di Adriano Celentano che ci difendeva, diceva che era stato un errore, come per “Il ragazzo della Via Gluck”, che eravamo bravi… Un endorsement pazzesco, e infatti la stampa in un secondo cambiò di netto opinione. Per noi quella è stata un’iniezione di energia incredibile, ci siamo messi a cantare e suonare ovunque, senza un minimo di riguardo per le corde vocali, tanto eravamo già eliminati. I cantanti in giro si conservavano tutti per la sera ovviamente, noi eravamo in piazza, e poi al Dopofestival… Ce la siamo goduta alla grande, a modo nostro».
Ecco, a modo vostro. Difficile trovare una definizione. Non siete pop né rock, non siete asserviti a un trend, siete addirittura cantabili, certamente mai noiosi. Sembrate spudoratamente spontanei…
«In realtà c’è un mix tra le diverse cose. Io (parla Eugenio, NDR) ed Emanuele abbiamo avuto la fortuna di studiare design al Politecnico, quindi progettare fa parte della nostra indole. Quando pensiamo una canzone ci ritroviamo in un rapporto padre-figlio, nel senso che siamo sia il bambino, che vuole esprimersi e creare, sia l’adulto che supervisiona. Ed essendo noi in quattro viene bene, perché ci scambiamo i ruoli in base alle situazioni. C’è il figlio, il padre, il nonno, il cugino dispettoso (ridono e ridiamo, NDR). Progetto e spontaneità convivono serenamente. Se dobbiamo dare le proporzioni: in studio siamo metodici, niente viene per caso, mentre i live sono apertissimi, a contatto diretto col pubblico. Ecco, lì ci lasciamo veramente andare, la gente lo riconosce e difatti torna. Ci divertiamo molto e i nostri fan sono meravigliosi, fedelissimi in ogni circostanza. Torino in questo è veramente virtuosa, ti fa crescere per davvero, non crea bolle di visibilità che scoppiano dopo due giorni; l’invecchiamento è lento ma necessario, come per i vini. In questo, Torino è ancora molto underground, genera band vere e solide».
A Torino voi avete mandato in corto un cliché facile come quello dell’artista di strada. Perché state perfettamente in piazza San Carlo come nei palazzetti di tutta Italia. Torino è stato il vostro primo palcoscenico e lo è ancora oggi. Siete la dimostrazione che si può essere entrambi senza problemi. Quanto è importante Torino nella vostra musica?
«Tantissimo. Emanuele ed Eugenio andavano all’università insieme. Eugenio era fastidioso perché era in prima fila e faceva domande stupide (“NDE”, nota di Emanuele). Usciti da lezione, un giorno Emanuele si trova davanti Eugenio che suona e canta, per strada, ed essendo anche lui musicista si uniscono. In parte cover e in parte Eugenio che, improvvisando, parla della gente che passa facendola sentire subito protagonista, parte di una storia inedita. Se, a oggi, dovessimo, a fatica, scegliere tra palco e strada, la scelta sarebbe la strada. Ti dà emozioni e un coinvolgimento unici».
Un giorno i Måneskin vincono Eurovision e Torino si guadagna l’assegnazione del Contest 2022. Esce, all’improvviso, la vostra Eurovision in Turin, ed è subito un tormentone.
«Eravamo entusiasti e per gioco è nata questa meme-song, a cui all’inizio non abbiamo dato alcun peso. Invece, giorno dopo giorno, prendeva piede e macinava numeri; a un certo punto è arrivata perfino a Chiara Ferragni, a cui è dedicato un pezzo della canzone in cui la invitiamo a visitare i Musei Egizi perché vogliamo essere famosi come gli Uffizi. E lei è venuta per davvero. Ci siamo addirittura messaggiati, ci ha nominati e ci ha dedicato dei post, è stato incredibile. La canzone è diventata virale, la gente a Roma cantava “tajarin” senza sapere probabilmente neanche cosa fossero. Una bella follia».
Un giorno arriva la sorella di Eugenio e dice (aveva ragione) che il nome era troppo lungo e che ci saremmo dovuti chiamare Eugenio in Via Di Gioia. Bomba. Una rivelazione. Un nome difficile ma che ci piaceva un sacco.Altra operazione di visibilità sulla città è stata la scritta di piazza San Carlo. Com’è nata per la prima volta questa idea?
«Quante cose abbiamo fatto, vedi. Ci hanno dato perfino dei vandali. Era un periodo di grande fermento, brain storming dicono, e noi ci scervellavamo con tutto il team per capire come raccontare “Terra”, singolo dell’ultimo album, che è una dichiarazione d’amore per il nostro pianeta. Sentivamo il bisogno di chiedere scusa alla Terra, questo è il succo del singolo, smuovendo pancia e non testa delle persone. Pensavamo già a una scritta, come fa il fidanzato disperato una volta lasciato. Un “ti prego torna da me perché sì, perché ho sbagliato e ho capito che senza di te non posso stare, ti amo ancora”. L’idea di farlo in piazza l’ha avuta Eugenio. Volevamo farla in piazza Duomo a Milano, ma subito ci siamo detti: “Torino è la nostra città, lo facciamo lì”. Logisticamente era un’impresa complicatissima. Abbiamo chiesto a una ditta specializzata ma, dopo aver ricevuto il folle preventivo, ci siamo detti: “Ma sai, ce lo faremo da soli questo lavoro”. E così è stato. Abbiamo fatto delle prove per vedere se il colore andasse via per bene e poi abbiamo convocato un po’ di fan su Telegram, senza specificare nulla. Hanno incredibilmente risposto in circa 150, presentandosi la notte senza alcun tipo di informazione. Un gesto d’amore immenso. Abbiamo fatto i calcoli per il tempo, tracciato i confini, comprato i gessetti bianchi, quelli da scuola elementare. Avevamo circa fino alle 7 di mattina per completare l’opera, ma in 150, da calcoli, potevamo farcela. Meno male che abbiamo studiato al Politecnico e che è arrivata tutta quella gente. Poi ne sono successe di tutti i colori, gli esperimenti con la polvere di gesso e l’acqua, più o meno falliti…Ma alla fine ce l’abbiamo fatta. “Torino ti amo ancora”. L’ha vista tutto il mondo quella scritta».
E con la città come l’avete gestita?
«In realtà era tutto coordinato, con Comune, Polizia, AMIAT… Ma ci sono stati tra di loro dei problemi di comunicazione e quindi molti non lo sapevano. Doveva rimanere la scritta per tutta la settimana e invece l’hanno cancellata quasi subito. Però tutto quel movimento è stato nel bene e nel male utile, a noi e alla città. Ci hanno chiamati dalla Francia, da New York…Abbiamo veramente messo Torino sulla bocca del mondo, tra l’altro con un messaggio positivo, e anche con un po’ di sano romanticismo. Noi siamo degli innamorati di Torino, e ora che abbiamo 30 anni e questa visibilità, la voglia non è solo più quella di viverla, ma anche di fare per lei delle cose. Di immaginarla a misura di universitario e di famiglia, aperta, sostenibile, inclusiva. Un polo di innovazione e ricerca, una città del futuro, anche in ambito urbanistico. Torino ha tutte le caratteristiche per esserlo».
Occorre smettere di lamentarsi e agire. Noi diciamo questo. A voi cosa non piace di Torino?
«Forse il mettersi un po’ troppo spesso in disparte. Girando tanto ci accorgiamo come alle altre città piaccia stare al centro, osare, esporsi. A Torino un po’ questo spirito manca. Torino è operaia, è lavoro su lavoro; e questa cosa ha il suo fascino e le sue garanzie, ma serve anche altro. Torino ha paura di esporsi, è ancora in parte figlia e succube dei suoi re. Ora che i re non ci sono più tocca a noi riprenderci la scena, darci anche delle responsabilità e trasformare Torino nella versione migliore di se stessa».
E a volte Torino questa versione ce la mostra. Come vi è sembrata sotto Eurovision?
«In realtà non ci siamo troppo “goduti” la città, eravamo impegnati a suonare e a renderla bella e apprezzabile da torinesi e non. Siamo stati molto presi da questa sorta di missione, ma alla fine, secondo noi, non poteva esserci Eurovision torinese migliore, nonostante alcune complessità. Si è visto lo spirito di una città che risponde presente e che può dire veramente la sua. Ovviamente si può fare sempre meglio».
Si può fare, per esempio, un nuovo Salone della Musica, come quello sperimentale del 1996 durato un nonnulla. Al Lingotto, come quello del libro, che ne dite?
«Non ne sappiamo molto, ma sì! Assolutamente. Sarebbe una cosa pazzesca, anzi dovremmo organizzare una cena; chiamare i Subsonica, Willie Peyote, gli altri gruppi di Torino, la scena rap torinese…Trovarci tutti e parlare con le Istituzioni. Un Salone della Musica a Torino sarebbe veramente un evento bellissimo».
(Foto di MARCO CARULLI, STEFANIA BROVETTO, NICCOLÒ ROCCATELLO e EUGENIO IN VIA DI GIOIA)