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Torino, Estate 2023
Molto si è dibattuto e si sta dibattendo ancora sul ruolo dell’intelligenza artificiale nel mondo della fotografia: un pericolo per l’inventiva autoriale? Un mezzo utile per accorciare tempi e ridurre costi di produzione? Un trucco di facile utilizzo per ottenere risultati sicuri senza troppo impiego di tecnica e ricerca? E quante altre domande stiamo tralasciando. Scalpore, soprattutto, lo ha generato il rifiuto ormai noto da parte del fotografo tedesco Boris Eldagsen in occasione dei celebri Sony World Photography Awards del primo premio nella categoria “Creative”. L’immagine in questione, molti avranno presente, raffigura in bianco e nero due donne, una giovane e una più anziana appoggiata alla schiena della prima con sguardo drammatico, entrambe immerse in uno sfondo neutro in cui appaiono fili bianchi e scie luminose gialle che interrompono la monocromia dell’immagine. A un primo sguardo, la matrice da cui pare essere tratta questa fotografia – o sintografia, come si denominano oggi le immagini create con l’intelligenza artificiale – rimanda subito a certi autori delle avanguardie tedesche e di cui molto probabilmente Eldagsen è figlio; i volti carichi dei misteri complessi di un’emotività inconscia, così come le acconciature e gli abiti delle donne, richiamano una realtà storica facilmente rintracciabile nei veri capolavori fotografici di quei tempi, tra gli anni Venti e i Quaranta, anziché nell’immagine che il cervello artificiale ha riprodotto goffamente.
Quanto, quindi, questo dibattito concerne davvero la fotografia?
Si guardi qualche opera di Lotte Jacobi, o di Edmund Kesting, e si scopriranno apici estetici di gran lunga più significativi di quanto l’immagine di Eldagsen – che, sottolineiamo, ha usato i mezzi artificiali unicamente come mera provocazione – sia riuscita a raggiungere. Il vero problema, forse, sta proprio nella perdita delle tracce storiche della fotografia, in un’ansia progressista priva di un aggancio vero col proprio passato iconografico. Questo è principalmente triste, prima che freddamente interessante come fenomeno da analizzare: la domanda non è tanto giudicare meritevoli o no di attenzione da parte del mondo della fotografia le immagini “sintetiche” – seppur già presenti in più di una mostra di rilievo internazionale – quanto perché l’immagine di Eldagsen avrebbe dovuto vincere il primo premio in uno dei più prestigiosi concorsi fotografici attuali. Altro discorso, su un fronte ben diverso, è trovare utile nel mondo della fotografia operativa, commerciale, il supporto dell’AI nei processi normalmente più lunghi, come la ricerca di immagini “stock”, ad esempio, o alcune fasi di post-produzione. Allo stesso tempo, intendere questo fenomeno come frontiera ulteriore della fotografia andrebbe a trasformarne irrimediabilmente la definizione stessa, passando dalla registrazione di qualcosa di reale su una superficie sensibile alla luce – la nota “scrittura con la luce” – alla semplice generazione di immagini confondibili col reale, contenute in potenza in un database infinito. Quanto, quindi, questo dibattito concerne davvero la fotografia? Se è vero che l’autorialità di un’immagine artificiale resti presente là dove viene operata una scelta su come, cosa e se rappresentare e rendere pubblico, può questo bastare per generare i nuovi capolavori di cui si sente il bisogno? Quelli basati non tanto sulla scelta passiva a partire da una prima proposta di un cervello meccanico, quanto quelli nati da una lettura visionaria della luce, delle forme, delle prospettive, dei significati nascosti sempre al di là della materia concreta.