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Il contatto degli occhi col reale

di Carola Allemandi

La fotografia racconta la città

Torino, Autunno 2023

Lo sviluppo di una narrazione visiva che racchiuda lo spirito di una città è stato fin da subito un intento che ha visto coinvolta la fotografia: se della Parigi della fine del XIX secolo è sopravvissuta un’idea precisa delle case, delle carrozze, della moda, del ciottolato delle vie strette, delle luci basse della sera, delle scale di Montmartre con la sua lunga infilata di lampioni, si deve senz’altro al lavoro di Eugène Atget, o di Brassaï. Nelle ultime settimane ho avuto modo di visitare alcune mostre fotografiche, un paio delle quali riportavano nel titolo il nome della città omaggiata: a Torino, in Fondazione Merz, fino all’8 ottobre è stata visitabile la grande mostra Palermo Mon Amour; mentre a Rimini è stata dedicata un’ampia esposizione a Marco Pesaresi – considerato il “poeta maledetto” della fotografia italiana – sul lavoro che l’autore dedicò alla città natale, Rimini Revisited. Alla fotografia è strettamente collegato il compito di raccogliere le testimonianze di quanto di una città si cela oltre l’esperienza superficiale che ne danno le divulgazioni turistiche o mediatiche: l’occhio meccanico è da sempre in grado di andare ben oltre la superficie delle cose, e di rivelare quanto esiste nei sostrati dei tessuti urbani, il brulicare sottopelle di volti e architetture.

Le città vivono attraverso i fotografi che le raccontano, ed entrambe le parti tirano fuori vicendevolmente frammenti della propria anima

Anche Gianni Berengo Gardin è entrato a pieno titolo nella grande fotografia col suo primo libro, Venezia: il fotografo spesso è la sua città, e la città il suo prolungamento. Così il fotografo è chiamato a riassumere in frammenti il ritratto più fedele di quanto di un luogo normalmente rischia di essere taciuto; ne diventa il cantore girovago, il menestrello, sì, per raccontare alle persone dove guardare per trovarne i tesori, per declamare le storie più assurde, oscene, divertenti o drammatiche che sono quelle che rendono una città diversa da tutte le altre. E che fanno prendere vita anche ai palazzi, alle chiese, alle strade, scenografie immancabili e necessarie per ogni gesta da ricordare. Sarebbe curioso individuare anche a Torino i suoi fedeli menestrelli, chi ha avuto modo di raccogliere un volto inedito della città per poterla narrare un giorno a chi non ne potrà più avere memoria. Facendo una breve inchiesta tra addetti ai lavori e non, ho capito che pochi nomi risaltano: Riccardo Moncalvo, attivo nell’ormai dispersa Torino degli anni Quaranta, ovvero negli anni della ricostruzione urbana del dopoguerra; o Enzo Isaia, che per imparare a fotografare andava in giro, ventenne, negli anni Sessanta a creare quello che sarebbe diventato un significativo reportage sulla vita italiana – torinese soprattutto – di quel tempo: le processioni di Maria Ausiliatrice, i bambini al Parco del Valentino che giocano a nascondersi nei cestini, la varia umanità dell’ippodromo di Vinovo. Il racconto di una città non si esaurisce nel ritratto di un’epoca sola, naturalmente, e forse sarebbe un progetto troppo ambizioso una mostra che racconti Torino attraverso tutti i suoi tempi, soprattutto gli ultimi. Si potrebbe trovare chi, nuovi Moncalvo e nuovi Isaia, si sia preso l’incarico di tracciare la filigrana della città degli ultimi decenni fino ai giorni nostri. Magari dobbiamo aspettare un risveglio da parte della critica futura, o chiederci se raccontare lo spirito di Torino da un certo tempo in avanti non abbia più interessato nel profondo i suoi reporter, o se l’espansione dell’uso dei mezzi digitali abbia reso più difficile l’individuazione del valore autoriale di alcuni. Si potrà mai organizzare una mostra dal titolo Torino Mon Amour, un giorno?