Home > People > Editoriali > Il contatto degli occhi col reale > Come la fotografia trasforma l’immagine della città
Torino, Primavera 2024
La si pensi quando usata come sfondo o pano rama nei dipinti di ispirazione mitologica, o biblica: la città – la sua rappresentazione – è sempre stata simbolo del potere di chi la governa. Così i sovrani di un territorio, per dare prova del proprio prestigio, hanno sempre fatto assolvere all’estetica urbana, in vario modo, il preciso ruolo di portavoce dei suoi valori, della sua ricchezza, anche del suo potere militare. Grande compito, allora, è sempre stato quello di ritrarla, cercando di tradurne lo spirito nelle arti: con l’avvento della fotografia, la documentazione urbana ha presto avuto moltissimi autori pronti a rivelare la visione della propria città, generando dei veri tesori di testimonianza storica. Si pensi a Mario Gabinio, fotografo e alpinista torinese vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, la cui opera (conservata in larga parte alla GAM, a Torino) non è mai stata davvero valorizzata fino agli anni Settanta, e che immortalò le fasi della costruzione della Torre Littoria, in Piazza Castello. Non più per commissione di nobili o regnanti, e dunque non più metafora del potere, la città una volta fotografata ha potuto, da subito, essere rivelata senza pudore, nelle sue verità. E dunque possedere di colpo non uno, ma centomila volti differenti.
Grande compito, allora, è sempre stato quello di ritrarla, cercando di tradurne lo spirito nelle arti
A questo punto si aprono due strade per riflessioni diverse: considerare, da un lato, la comunicazione fotografica delle città ai fini del turismo, e che genera immagini destinate a un pubblico esterno; e dall’altro osservare il tipo di richiesta e di attenzione degli attuali governi cittadini nei confronti della fotografia del proprio comune, destinata al pubblico interno. Una volta– sembra una favola, forse lo è – il Touring Club Italiano commissionava il racconto fotografico delle città d’Italia ai più prestigiosi paesaggisti (termine sempre troppo riduttivo) nazionali, da Gianni Berengo Gardin a Paolo Monti, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice. E tanto è valso finanziare quei lavori da volerli poi raccogliere in pubblicazioni a parte, negli anni Novanta, accompagnate da testi dell’altrettanto magno Italo Zannier, tra i più grandi storici della fotografia italiani. Anche il racconto per il turismo, allora, si intuì avesse bisogno di firme– e soprattutto sguardi – di rilievo, così da voler convocare i migliori autori e raccoglierne i numerosi frutti. Di quell’epoca terminata, soppiantata certamente dal vorace meccanismo mediatico, resta però aperta una domanda: cosa e come si vuole far vedere al pubblico e ai cittadini di oggi? La fotografia è sempre il volto che si decide di dare, di volta in volta, alle cose che guardiamo: la propria città non fa eccezione. E a proposito del secondo punto di cui sopra, metto subito nel piatto un’altra domanda: e se ci fossero dei “fotografi di corte”, i migliori presenti sul territorio, chiamati appunto per raccontare attraverso la fotografia la città, dalla sua architettura a ciò che accade entro i suoi confini? Il fatto che suoni in modo strano, magari assurdo, questo slancio propositivo, è forse dovuto al fatto che quel citato bisogno di affidarsi ai maestri, alla bravura constatata di alcuni, è stato sostituito gradualmente da un tacito consenso verso immagini più comuni, sostanzialmente ordinarie, col pericolo di trasformare anche la città, agli occhi di chi la vive e di chi la scopre per la prima volta, in una città comune e sostanzialmente ordinaria. Non solo come documento da riscoprire, la fotografia può essere testimonianza presente di un luogo, del volto che scegliamo per lui, di ogni punto da cui abbiamo voglia di guardarlo.