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Home > People > Editoriali > Sentenze granata > Di risate e silenzi: storia di un’intramontabile amicizia
Torino, Autunno 2022
Scrivo di Juventus, qui, nella zona di Torino Magazine che più granata non si può. È un tema grosso del calcio, con quello che le sta accadendo intorno e soprattutto dentro. Scrivo di uno juventino celeberrimo che non c’è più. Siamo stati, noi due, amici grandissimi per oltre mezzo secolo, collaudati anche dalla profonda differenza tifoidea che però ci marchiava bene e ci collocava chiaramente nel mondo dello sport. Lui molto ma molto più importante di me. Lo avevo conosciuto nella mia infanzia giornalistica, quando era già arrivato – aveva sette anni più di me – alla maturità di gran giocatore. Vivevamo a Torino nello stesso isolato, ci parlavamo da un balcone all’altro, in pratica facendo del cortile il filtro, la sentina, delle nostre voci. Ogni tanto salivo da lui e mi partecipava segreti juventini, mai da me giornalisticamente usati “contro”. Un ricordo speciale: quella volta che, mentre ci salutavamo davanti al portoncino di casa sua, passò un tizio in ciclomotore, riconobbe il suo campione, si scordò della guida, cadde. Lo soccorremmo, lui guardò il campione, di colpo gli passò ogni male, eppure la testa sanguinava forte, e disse: «Che fortuna, sei proprio Boniperti». Il mio grande amico Giampiero Boniperti è morto il 18 giugno 2021, aveva 93 anni, aggredito anche da quella malattia che fa perdere la memoria. Quel giorno io stavo in un ospedale francese, al settimo ricovero del mio tremendo, lunghissimo covid che ci aveva tenuti a lungo distanti. L’ultimo ricordo vivido: per il male incipiente che gli stava corrodendo la memoria Giampiero non aveva riconosciuto in foto un campione grande amico nostro, mi aveva chiesto di come andava la mia di memoria, gli avevo detto che il covid me l’aveva acutizzata incredibilmente, da grande che già era, intanto che aveva ovattato tante altre parti di me.
Mi manca, Giampiero. Mi manca come amico più che come riferimento per il lavoro giornalistico. Ci prendevamo in giro per il nostro simmetrico difetto calcistico, coltivavamo ironia e tolleranza, democrazia e onestà
«Quali esercizi hai fatto per mantenerla e anzi allargarla?» mi aveva chiesto. E io: «Non li ricordo». Non aveva riso, mi ero preoccupato, avevo anche pensato di avvertire Giampaolo, quello dei suoi figli che aveva chiamato più o meno come me. Mi manca, Giampiero. Con la Juve attuale, poi… Mi manca come amico più che come riferimento per il lavoro giornalistico; lui sempre preciso, secco, duro se ce n’era bisogno. Mi manca come allegria: quante risate di scambio, mi piaceva divertirlo perché mi piaceva vederlo ridere. Ci prendevamo in giro per il nostro simmetrico difetto calcistico, coltivavamo ironia e tolleranza, democrazia e onestà. Legatissimo juventinescamente alla grande famiglia di potere, mai aveva cercato di portarmi dalla sua parte, anzi. Mi teneva prezioso come contraltare, come cartina al tornasole. Era stato innamorato del miracolo calcistico, peraltro da lui subito in campo e fuori, del Grande Torino, un amore feroce, tempestoso e rissoso, anche manesco. Per lui, Valentino Mazzola era il massimo di sempre. Mi ha aiutato nella mia vicenda giornalistica con la sua stima, persino quando gli parlavo bene del rivale Sivori (ho curato le biografie dei due, felice Giampiero se gli dicevo che il suo libro si era venduto meglio). Mi ha propiziato incontri interessantissimi con Gianni Agnelli. Mi mancano i suoi silenzi, per non imbarazzarmi o influenzarmi, neanche con una sillaba di troppo, quando dirigevo Tuttosport. Gli piacevano i miei scritti anche se diceva che sempre c’era dentro una sfumatura granata di troppo. Ha fatto finta di interessarsi al mio tanto coinvolgente ciclismo di Giro e Tour. Ognuno di noi due aveva per l’altro la domanda imminente e mai formulata, una domanda cosmica: «Ma come è possibile che si sia così amici?». Già.